Da “Gloria” a “Gloria Bell” di Sebastián Lelio: alcuni semplici spunti di comparazione

Approdato nelle sale americane nella Giornata internazionale della donna, il settimo lungometraggio del cileno Sebastián Lelio, Gloria Bell” (2018), ha debuttato con un giorno di anticipo in Italia, all’inizio dunque della settimana cinematografica tradizionale (che va dal giovedì al mercoledì).

Gloria Bell di Sebastián Lelio

Si tratta del quarto ad essere distribuito nel nostro territorio, nonché il quarto ad aver incontrato un’accoglienza di tutto rispetto al di fuori della terra d’origine: lo precedono infatti altri tre film assai meno noti (“La Sagrada Familia”, 2005, “Navidad”, 2009, ed “El año del Tigre”, 2011) e sei corti (1995-2003).

Non è prudente apostrofare Lelio come l’Almodóvar del Cile, essendo le loro drammaturgie ed estetiche del racconto visivo palesemente diverse, ma non si ha affatto torto nell’affermare che, come il maestro spagnolo, più anziano d’una generazione, sia ormai a ragione contemplato fra i registi più abili nella direzione specifica delle attici.

L’operazione compiuta con “Gloria Bell” è senza dubbio singolare e non vanta numerosi antenati: è infatti il remake del quarto lungo dello stesso Lelio, “Gloria” (2013), e già di per sé non è comune che un regista torni su un soggetto da lui già compiutamente realizzato: tra gli altri, l’hanno fatto Cecil B. DeMille (due le versioni de “I dieci comandamenti”, l’una muta del 1923, l’altra sonora e più celebre del 1956), John Ford (che nel 1934 è accreditato ne “Il giudice” e nel 1953 ne “Il sole splende alto”) e Alfred Hitchcock (due le versioni de “L’uomo che sapeva troppo”, l’una inglese del 1934, l’altra statunitense e, per l’appunto, più celebre del 1956), ma l’elenco proseguirebbe includendo i nomi di Abel Gance, Michael Mann, Yasujirô Ozu, per nominare solo i più conosciuti…

Oltre a ciò, la struttura assunta dal film si avvicina a quella dei rifacimenti shot-for-shot, dal momento che risulta davvero spiccata, a più livelli, la somiglianza col predecessore. Uno degli esemplari solitamente più citati in questi casi è il “Funny Games” a stelle e strisce che Michael Haneke ha “clonato” dal proprio omonimo film austriaco del 1997.

Da un punto di vista microscopico, le asimmetrie rivestono funzioni relativamente marginali, benché uno studio comparato più approfondito potrebbe rivelare cambiamenti di spessore insospettati: gli assestamenti (non necessariamente aggiustamenti in senso stretto) vanno da alcuni accenti aggiunti o levati su aspetti esperiti dai dialoghi, dal variabile peso globale attribuito agli sbotti deliranti dell’inquilino di sopra a un Satie in più o un Mahler di meno, e così via…

Da un punto di vista macroscopico, riesce spontaneo esultare per la piena riuscita di questo nuovo tentativo di rielaborazione in chiave hollywoodiana di un’opera sudamericana, operazione miseramente fallimentare ai tempi in cui Billy Ray dirigeva e sceneggiava il remake del capolavoro dell’argentino Juan José Campanella (“Il segreto dei suoi occhi”, 2009), sprecando il talento di star del calibro di Chiwetel Ejiofor, Nicole Kidman e Julia Roberts.

Al contrario, John Turturro e in particolare Julianne Moore dimostrano di avere il physique du rôle per ereditare i ruoli affidati a Sergio Hernández e Paulina García, quest’ultima premiata con l’Orso d’argento al Festival di Berlino del 2013. Ignorando l’età anagrafica del cast, si è portati a percepire un non trascurabile ringiovanimento dei personaggi: laddove la Gloria di García era una donna giunta quasi alle soglie dell’anzianità, il volto rugoso incorniciato da un paio di lenti abnormi, lo sguardo malinconico, rassegnato seppure ironico e a suo modo compiacente, un individuo insomma consapevole di poter cantare come canta il cigno, quella di Moore è una nonna (sic) ancora in carriera, splendente ed energica, contraddistinta da un approccio alle disavventure della vita ordinaria e alle scorribande amorose tendenzialmente più pacifico e al tempo stesso brioso.

Gloria Bell di Sebastián Lelio

La disuguaglianza è più evidente paragonando Rodolfo e Arnold, l’uno in età da pensionamento (e a maggior ragione da fascia lombare), decadente nel fisico ancor prima che nell’ardore sentimentale, l’altro tutt’altro che privo di un fascino maturo, non senile, per quanto nell’atteggiamento elusivo da cui si fa più volte sopraffare e nella cagionevolezza di fondo rispecchi perfettamente il suo modello. A onor del vero, l’unica differenza d’età esistente separa i due primattori (classe 1945 e 1957), mentre a segnare (letteralmente) le protagoniste, nate a soli 6 giorni di distanza, sono sostanzialmente il trucco e le acconciature.

Proprio questo scostamento inerente le stagioni dell’esistenza, dai primi rigori dell’autunno ai tepori della tarda estate, potrebbe rendere maggiormente credibile le dinamiche di coppia, i cui membri non paiono “stupidi romanticoni” incapaci di accettare la curvatura discendente assunta dalle loro giornate successivamente alla separazione (o divorzio che sia), a differenza di Gloria e Rodolfo, mai realmente tragici, fautori di una narrazione dolceamara che suscita benevolenza e stimola un atto di visione a tratti persino più invadente (ostacolo di rado scavalcabile all’interno dello star system californiano, di norma più pudico).

A cingere il binomio che sancisce l’espatrio di Lelio, costituito da quel capolavoro intitolato “Una donna fantastica” (2017), premiato con l’Oscar al miglior film straniero (e che solo a una lettura superficiale appare un racconto incentrato meramente sui conflitti di una transessuale), e da “Disobedience” (id.), agito da due Rachel (McAdams e Weisz) lesbiche in stato di grazia, stanno quindi due declinazioni della medesima storia d’amore eterosessuale, entrambe strutturate ad anello (il fondo di un bicchiere, la pista da ballo) e anello di congiunzione di una più lunga catena, un più ampio organismo unitario che potrebbe, come ci auguriamo vivamente, in futuro ulteriormente perpetrarsi e rinnovarsi.

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

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