Dalle Enneadi secondo Plotino: che cos’è il vivente e chi è l’uomo
“Ciò che è al sicuro da tutto ciò che è esterno che cosa potrebbe mai temere? Tenga pure il suo timore chi è esposto alle passioni! D’altra parte, l’Anima non ha neppure slanci di coraggio; e come si potrebbe essere coraggiosi, in assenza di eventi temibili?” – Che cos’è il vivente e chi è l’uomo
Plotino (Licopoli, 203/205 – Minturno (o Suio), 270) è considerato l’erede di Platone e padre del neoplatonismo, le informazioni che abbiamo su questo importante filosofo greco provengono dalla Vita di Plotino ad opera dell’allievo Porfirio, inserita come prefazione alle Enneadi.
Le Enneadi (in greco antico: Ἐννεάδες, Enneádes) sono composte da sei gruppi di nove trattati ciascuno. Porfirio ordinò i trattati in senso ontologico con lo scopo di tracciare un percorso per il lettore per il raggiungimento del superamento della condizione terrena e, dunque, per giungere alla comprensione della filosofia.
Gli scritti di Plotino hanno ispirato teologi, mistici, cristiani, musulmani, ebrei, gnostici e metafisici pagani.
“Che cos’è il vivente e chi è l’uomo” è il cinquantatreesimo trattato di Plotino composto alla fine della sua vita. Porfirio però scelse di inserirlo come primo argomento delle Enneadi sostenendo che la preferenza è dovuta alla semplicità del problema trattato, così seguendo la lettura troveremo ragionamenti più complessi.
Il lettore però non si troverà davanti un trattato semplice ma un’argomentazione sull’Anima e sul corpo. La semplicità che intendeva Porfirio riguarda soprattutto il venir meno delle forze del filosofo greco pressoché prossimo alla morte.
Il concetto da tenere in mente per una lettura agevole del brano “Che cos’è il vivente e chi è l’uomo” è che l’uomo in senso primario è la sua Anima ed in senso secondario è il vivente (il soggetto delle sensazioni e delle passioni). L’Anima dipende da due ipostasi (dal greco hypostasis, composto da hypo, «sotto», e stasis, «stare», quindi «essere sussistente», «sostanza», in questo caso come «diversa dimensione della realtà»): dall’Uno (Dio) e dall’Intelligenza e l’Essere (Nous). La conseguenza è che l’uomo si trova al terzo livello della realtà.
Nei primi quattro paragrafi del primo trattato della prima Enneade intitolato “Che cos’è il vivente e chi è l’uomo”, Plotino introduce con uno schema chiaro l’esposizione per la quale si esamineranno le questioni delle passioni e delle sensazioni connesse all’Anima ed al corpo.
Lo schema è il seguente: 1. le passioni e le sensazioni appartengono all’Anima, 2. appartengono all’Anima che si serve del corpo, 3. alla mescolanza di Anima e corpo o come di qualcosa che deriva da questa mescolanza.
Enneade I, 1, 1
Piaceri e dolori, atti di viltà e di coraggio, desideri e avversioni, la stessa percezione del dolore, di chi sono propri?
O dell’Anima, o dell’Anima in quanto si serve del corpo, oppure di una terza realtà composta da ambedue e a sua volta duplice, in quanto si serve di una mescolanza o del prodotto di una mescolanza.
Un ragionamento analogo si può estendere alle conseguenze di questi stati d’animo, sia nel campo delle azioni sia in quello delle opinioni. Pertanto, si dovranno studiare anche il pensiero e l’opinione per vedere se le passioni rientrano nel loro ambito, o se questo vale per alcune di esse e non per altre.
Pure le intellezioni andranno indagate nel loro modo d’esser e nella loro apparenza e, per concludere, si dovrà giungere a una definizione di questa medesima facoltà che dà giudizi e fa ricerche su temi siffatti.
Intanto, a chi compete la facoltà della sensazione? Senz’altro questo è l’avvio più conveniente, perché non c’è dubbio che le passioni o sono un certo tipo di sensazioni o per lo meno non esistono in assenza di esse.
Enneade I, 1, 2
Ecco, dunque, il primo punto: l’Anima. Ebbene, l’Anima e la sua essenza sono diverse?
Se così fosse, l’Anima sarebbe un composto e non sarebbe assurdo che essa, con il consenso della ragione, accogliesse e facesse sue passioni di tale specie e anche, e in generale, atteggiamenti e abitudini più o meno buoni.
Se invece l’Anima e l’essenza dell’Anima sono una cosa sola, l’Anima sarebbe una forma esente da tutti questi atti, e però sarebbe capace di suscitarli in un altro, mentre in se stessa mantiene l’atto che le è connaturale, atto che toccherà al ragionamento mettere in luce.
Se è vero che l’immortale e l’incorruttibile sono anche necessariamente impassibili, ecco che l’Anima può definirsi davvero immortale; infatti essa, se in qualche modo conferisce una parte di sé a qualcos’altro, da questo non riceve nulla, fatta eccezione per i principi che ha sopra di sé e che, per il fatto d’esser migliori, non abbandona mai.
Ciò che è al sicuro da tutto ciò che è esterno che cosa potrebbe mai temere? Tenga pure il suo timore chi è esposto alle passioni! D’altra parte, l’Anima non ha neppure slanci di coraggio; e come si potrebbe essere coraggiosi, in assenza di eventi temibili? Per altro non è toccata neppure dai desideri che si soddisfano col riempirsi e lo svuotarsi del corpo, essendo essa tutt’altro rispetto a ciò che si riempie e si svuota.
E come potrebbe essere un effetto di mescolanza, se ciò che ha il carattere di sostanza ne va esente? E in quale maniera ‘spiegare’ l’intrusione di altre realtà?
Sarebbe come se si sforzasse di non essere quello che è. Anche il dolore è lontano da lei.
E del resto, in qual maniera dovrebbe dolersi e a qual proposito, visto che quanto è sostanzialmente semplice è pure autonomo e sa mantenersi stabile nel suo essere sostanza?
Godrà allora di un qualche evento nel frattempo raggiunto? E in quale maniera, se neppure il Bene può venirle dal di fuori?
Quello dell’Anima è, lo è da sempre. E non c’è sensazione, argomentazione, o opinione che la tocchi.
La sensazione, infatti, corrisponde alla ricezione di una forma o di un’impressione corporea, mentre il pensiero e l’opinione si fondano sulla sensazione. Bisogna infine considerare come avviene l’intellezione, per sapere se almeno questa dovremo lasciarla all’Anima. E così dicasi del piacere puro ‘per verificare’ se mai si prova quando l’Anima sta sola.
Enneade I, 1, 3 “Che cos’è il vivente e chi è l’uomo”
Ora, considerato che l’Anima esiste tanto prima quanto nel corpo, poniamo che essa si trovi nel corpo, in maniera tale che dall’unione dei due venga quell’“insieme che va sotto il nome di vivente.”[1]
A tal punto, il fatto che l’Anima si avvalga del corpo come fosse uno strumento non significa necessariamente che avverta le affezioni attraverso di esso, come, peraltro, neppure gli artigiani colgono le affezioni dei loro strumenti.
Tuttavia, può darsi che la sensazione le tocchi di necessità, se è costretta a ricorrere a tale mezzo per riconoscere i dati esterni, a partire appunto dai sensi; non per nulla, far uso degli occhi equivale a vedere. Ci sono però condizioni negative che interessano la vista, e quindi anche all’Anima può capitare di provare dolore e afflizione, o, in generale, tutti i sentimenti che coinvolgono il corpo, e perfino i desideri, allorché l’Anima ricerca la cura del suo strumento.
Ma come finiranno nell’Anima le impressioni che provengono dal corpo? È vero che un corpo riesce a comunicare a un corpo i suoi propri caratteri, ma come potrebbe riferirli a un’Anima?
Questo equivarrebbe a sostenere che una cosa può subire un’affezione che è pertinente a un’altra. Dunque, finché c’è qualcuno che si serve di uno strumento e finché c’è uno strumento che viene usato, i due devono essere separati; di conseguenza, chi ammette che l’Anima a uso del corpo ne ammette pure la separazione.
Ma prima che la filosofia determinasse la separazione com’era lo stato dell’Anima?
Semplicemente era mescolata. Se così è, siamo in presenza di una vera e propria fusione, oppure di un avvolgimento? A meno che l’Anima non sia nel corpo, quale forma non separata o congiunta, per esempio nel ruolo di nocchiero. Ma potrebbe anche inerirvi in parte in una maniera in parte nell’altra; cioè per la parte separata come principio fruitore del corpo, e per quella mescolata come realtà che si colloca in un certo modo nell’ordine dell’oggetto che usa.
Ora, la filosofia si propone appunto di convertire tale parte al principio che la usa, allontanandola dall’oggetto usato, perché non se ne avvalga di continuo, ma solo nei casi di assoluta necessità.
Enneade I, 1, 4 “Che cos’è il vivente e chi è l’uomo”
Ammetiamo che Anima e corpo siano mescolati fra loro. In tal caso, il corpo, che è l’elemento inferiore, godrà di un miglioramento e invece l’Anima subirà un peggioramento; e il miglioramento del corpo consisterà nell’avere parte della vita, mentre il peggioramento dell’Anima nel condividere la morte e l’irrazionalità.
Ma com’è possibile che, in un certo modo, la perdita della vita sia compensata dall’acquisto della sensazione?
In verità, si verifica il contrario: il corpo, quando acquista la vita, condivide la facoltà sensibile con tutte le affezioni che essa comporta. In tal senso, sarà il corpo ad avere brame, perché è il corpo che gode delle cose che brama; di ciò appunto avrà paura: di consumarsi nell’impossibilità di godere a pieno dei piaceri.
È degno di ricerca anche il modo in cui si verifica la mescolanza, perché non è neppure da escludersi che questa non sia realizzabile, come, per esempio, se uno affermasse di avere mescolato il bianco con la linea, oppure una natura con un’altra del tutto estranea.
Se l’Anima è avviluppata al corpo, non è detto che i due, appunto per questa loro relazione, subiscano affezioni nella medesima misura: può darsi che l’elemento che avvolge il corpo resti impassibile, cioè che l’Anima nel suo estendersi sul corpo non ne condivida le affezioni. Avverrebbe così come nel caso della luce, ma, per stare all’esempio, in una misura ancora maggiore, perché qui l’immersione è totale.
Dunque, un tale avvolgere il corpo non può essere responsabile del fatto che l’Anima subisce le passioni. Non sarà, allora, che l’Anima inerisce al corpo come la forma della materia?
In primo luogo, dal momento che è sostanza, vi starà come forma separata, tanto più se qui si trova in veste di colei che fa uso del corpo.
Se però l’Anima sta al corpo come la figura della scure impressa nel ferro sta alla scure ‒ è vero che in tal caso il composto-scure avrà gli effetti che ha il ferro, ma del ferro così forgiato e proprio in ragione della sua figura ‒, allora avremo un motivo in più per riferire le affezioni comuni al corpo, a questo corpo, in quanto “realtà naturale, organica e potenzialmente dotata di vita”. Se, come si dice, è assurdo affermare che “l’Anima tesse”[2], altrettanto lo sarebbe sostenere che essa provi desideri o dolori: semmai ciò toccherebbe al vivente.
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Note “Che cos’è il vivente e chi è l’uomo”
[1] Citazione da Platone, Fedro.
[2] Citazione da Aristotele, L’anima.
Info
Rubrica Dalle Enneadi secondo Plotino
Bibliografia
“Enneadi” di Plotino, Arnoldo Mondadori Edizioni, 2012. Traduzione di Roberto Radice. Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di Giovanni Reale.
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