FEFF 2017: Sezione Creative Visions – “After This Our Exile” di Patrick Tam

Venerdì 21 aprile 2017, ore 15.00: al Visionario di Udine, unica a precedere la serata inaugurale imperniata sul divertente “Survival Family” di Shinobu Yaguchi, avviene la primissima proiezione del 19esimo Far East Film Festival, la più importante vetrina dedicata al cinema asiatico non solo d’Italia, bensì dell’intera Europa, nonché uno dei quattro festival italiani col maggior afflusso di pubblico. Oubliette Magazine c’è, nuovamente in  web media partner con il Festival

After This Our Exile di Patrick Tam

Come l’anno passato “I misteriani” di Ishirô Honda (titolo d’apertura della sezione “Beyond Godzilla”), spetta ad “After This Our Exile” di Patrick Tam il vernissage della retrospettiva hongkonghese che quest’anno raggruppa sotto la denominazione “Creative Visions” ben 10 film, tutti fuori concorso.

È ancora una volta una partenza in sordina, o perlomeno così appare ai nostri occhi occidentali contemporanei: contro questo nostro atteggiamento critico gli estimatori potrebbero invocare la messe di riconoscimenti raccolti dalla troupe di Tam, fra cui si distinguono 5 “pesanti” Hong Kong Film Awards su 10 nomination, due candidature tecniche agli Asian Film Awards (montaggio e scenografia; da tenere a mente specialmente la prima), oltre alla seconda preferenza dell’audience conquistata allo stesso FEFF nel 2007.

Non che si lasci detestare, semmai infatti finisce per lasciare abbastanza indifferenti, ma l’ottava fatica del mentore di Wong Kar-wai, venuta alla luce nel 2006, ovvero 17 anni dopo la settima prova in totale degli anni ’80, e contestualmente proposta in versione director’s cut (si tratta della pellicola più lunga dell’intero festival), appare vecchia di almeno un quindicennio, come se lo stile del regista si fosse congelato negli stilemi sviluppati al tempo dei successi del secolo scorso: “merito” primariamente della poetica direzionale e dell’editing, della scuola recitativa, dei luoghi comuni del copione e della patinatura delle tinte fotografiche.

Più che ad un’opera cinematografica si ha l’impressione di assistere ad una miniserie televisiva con forti, lacrimevoli ascendenti soap, e per di più una di quelle che si arriva a sperare s’appressino quanto prima alla conclusione.

L’autore apre con una nota, un cartello in cui invita a non cedere durante la visione ad alcun eccesso di sentimenti (“If this film ever touches your heart, I hope it comes not from an excess of sentiments, but a moving experience that endures reflection”).

Ora, se anche l’eccesso di sentimenti effettivamente apparisse tangibile a chi si sottoponga alla visione, non dovrebbe comunque risultare difficile a rinvenirsi, più che nel pubblico, nei toni assunti dagli agenti in scena e nelle coloriture applicate alla storia stessa. Al centro stanno “Fu zi”, per richiamare il titolo originale (letteralmente “padre e figlio” in lingua cinese), ritratti in un quadro tripartito saturo di inciampi.

After This Our Exile di Patrick Tam

Marito (Aaron Kwok) e moglie (Charlie Yeung) litigano senza posa (leggi “fino a stancare per effetto di ridondanza”); la figura più interessante, pur non soddisfacentemente sviluppata, potrebbe apparire il bambino (King-to Ng, ad oggi ancora alla sua unica performance), quel “Boy” apostrofato con insistenza quasi nauseante (il suo vero nome viene pronunciato solo due volte in tutto l’arco narrativo, e mai dai parenti) che vorrebbe proporsi, ma la portata drammatica della vicenda è abbastanza esile e impersonale (o “imparziale”, se si preferisce, e anche “amoralistica”) da renderne scarso il tentativo, quale astrazione, trascendenza della vicenda verso un contesto significante più ampio, al di sopra del soggettivismo dei nomi propri.

E qui vale subito la pena evidenziare lo spessore potenziale di cui è carico l’intero soggetto in relazione all’incapacità, invero, di non elevarsi mai realmente fin dove potrebbe, preferendo restare affezionato al comune denominatore dell’“a forza suggerito e non penetrante”, peculiarità rinvenibile con particolare emblematicità ogniqualvolta Tam paia soffermarsi su qualche inquadratura più ricercata, con una certa lentezza più riflettuta corrispondente ad un nodo narrativo di spicco, per poi cedere libero spazio di manovra ai violenti, a tratti addirittura fastidiosi tagli di montaggio (origine fra l’altro di numerosi flashback tutt’altro che eleganti) incaricati di ricondurre al basso continuo dominante, melassa iterata fatta di soluzioni elementari in bilico fra bulimia (sovraccarichi di frame) e stitichezza (eccessive estensioni).

La responsabilità di questa castrazione non si può nemmeno attribuire al montatore “nemico” del regista, dal momento che essi coincidono nella stessa persona. Tam peraltro è pure sceneggiatore, scenografo e, malauguratamente, music designer: si pensi allo sprecato avvicendarsi retorico, qualora non dichiaratamente banale, fra i pezzi di musica leggera e un Čajkovskij, un Sinding e uno Skrjabin (quello giovanile, ancor lungi dall’atonalismo), qui più che mai paladini di un romanticismo ostentato, oltretutto autori dai linguaggi lontanissimi dalla cultura sud-orientale (ma a ben vedere non tanto in tal senso ripudiabili tout-court nel contesto corrente, beninteso, quanto piuttosto per l’uso nauseabondo in cui incorrono).

After This Our Exile di Patrick Tam

Tornando al plot, la moglie dopo numerosi tira e molla decide di scaricare marito e figlio, andandosene con un altro assieme a cui pone le fondamenta di una nuova esistenza.

Padre e figlio vanno a soggiornare in un hotel, dove specialmente per il babbo sembra profilarsi un riscatto affettivo, nell’ingenua attesa di una stagione di guadagni più fruttuosa, un “sogno in grande” destinato alla rovina.

Sprovvedutezza ed egoismo coincidono nel personaggio paterno, che tenendo in saccoccia una discreta abilità ai fornelli, dopo essersi fatto licenziare in motivo fondamentalmente (e questa è la causa primaria di tutte le sciagure dei congiunti) della propria inettitudine a relazioni stabili e sane con la realtà e i suoi abitanti, da pessimo educatore tenta di rispondere alle scellerate conseguenze della ludopatia (il gioco d’azzardo non ha fatto che procurargli debiti e lividi) con le ladronerie messe in atto dal piccolo, sulle cui spalle ogni colpa genitoriale ricade, vittima di una lacerazione interiore che nessuno pare voglia ricucire, costretto colle cattive a distinguere l’oro dall’orpello, a subire le ire di una figura cui, nonostante le incessanti promesse non mantenute, le violenze e gli atteggiamenti opportunistici, non smette di essere assai affezionato.

Egli ruba (o meglio, tenta di riuscirvi) solo per procurare di che vivere a entrambi (il padrone non vuole altro capo all’infuori di se stesso, né naturalmente gl’importa alcunché dell’educazione della progenie) e per strappare un briciolo di affetto e riconoscenza all’ultimo che gli è rimasto al mondo, il quale al contempo matura la consapevolezza (ma fino a che punto è tale?) di avere nel solo giovane un appiglio.

L’ossessione del padre non può però che portare al fallimento: Boy non è in grado di sostenere a lungo una condotta simile, sempre più prossimo ad una svolta irrimediabile.

Quel che segue in poche giunture è una parziale redenzione slittata nel tempo: papà trova una nuova gruccia umana, dalla distanza apparentemente affidabile; mamma ha preso a fare la mamma per davvero, fino alla sua ultima apparizione entro le mura domestiche succube del coniuge ed inetta pure lei alla gestione dell’economia familiare, egoista nondimeno nell’aver abbandonato il bambino in una condizione a dir poco pietosa; il figlio si lava la coscienza restituendo umilmente il maltolto.

After This Our Exile di Patrick Tam

Risultato finale: non si sa a chi affezionarsi e di certo non perché mal si sopporta i perdenti. Per di più, ci si annoia, almeno in principio. Meglio, la compassionevole regia diviene risaputa dopo appena qualche decina di minuti, ma poi questo sentimento via via viene meno: ci si assuefà al registro, si comprende che il lungometraggio è destinato a infognarsi in questo patetismo involontariamente stucchevole, non si nutre più la speranza che il film decolli, che proponga qualche materia emozionante.

Lo spettatore lascia che le immagini, timidamente e pudicamente (l’osé è appena accennato, altra spia che denuncia impotenza) fluiscano senza fretta, la stessa noia si trasforma nella rassegnazione di fronte un racconto innocuo (“My only wish is that […] you will discover something meaningful or memorable”, diceva sempre Tam nell’incipit), una partita giocata su un campo (un soggetto) assai fertile come l’educazione alla vita bruciato in poche mosse nel corso di una parabola molto più estesa del necessario.

A film, be it good or bad, can never satisfy each and every one of its audience”.

Ma in realtà sarebbe auspicabile che a meno persone possibile piacesse con tanta agevolezza un prodotto simile.

 

Voto al film

 

 

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

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