“Le variazioni Goldberg” diretto da Luca Micheletti: in scena dal 3 al 13 novembre al Teatro Franco Parenti, Milano
«Hinc “miraculum magnum a Trismegisto appellabitur homo”, qui in deum transeat quasi ipse sit deus, qui conatur omnia fieri, sicut deus est omnia; ad obiectum sine fine (ubique tamen finiendo) contendit, sicut infinitus est deus, immensus, ubique totus». – Giordano Bruno, De innumerabilibus, immenso et infigurabili
«Come è effimero il vivere, l’esistere» si lagnano spesso così molti artisti o sedicenti tali. Come se non è effimero, meglio, da bimbetti viziati, inconcludenti, incapaci di meravigliarsi davanti ai mostri da loro stessi generati, credere di avere il diritto di potersi rifugiare in una vittimistica consolazione.
Con “Le variazioni Goldberg” George Tabori sapientemente si solleva dalla lamentatio e con una ironia sagace costruisce una paio di ali nuove per questi angeli caduti nel fango non prima, però, di avere impastato la propria lingua teatrale con le deformi preghiere (deformi sia dal punto di vista della forma che del contenuto) dell’umanità devastata da se stessa.
Volare è possibile, al prezzo di volerlo. Volare è possibile e Tabori ingaggia una lotta di nuda e sarcastica Parola contro l’orrore e l’inspiegabile ingiustizia della Storia, «uno scandalo che dura da diecimila anni».
Quello de Le Variazioni è un testo indubbiamente poliedrico che ha assorbito millenni di teatro e filosofia. Attraverso questo testo-prisma invece che una dispersione ottica si ottiene una dispersione metaletteraria e metalinguistica. Da Shakespeare a Beckett, da Cioran a Canetti, da Dostoevskij a Kafka, da Kant fino al Freud che si ricongiunge al Bardo quando fa stendere sul lettino Amleto (giusto per nominare uno dei pazienti più esemplari). Tabori crea un tessuto teso verso la disgregazione, contraddittorio, torbido e postmoderno (non già postmodernista), perché sa conservare la matrice amniotica biblica, ebraica, una matrice che si fa vettore e raggiunge l’Occidente.
E se da un lato Bach è il rigoroso e sfuggente indefinito proiettato all’esterno, dall’altro il Nazismo è l’infimo dentro, il garbuglio di viscere putrefatte che si ostinano ad assorbire sangue e linfa vitale. Il popolo eletto diventa metafora dell’umanità, ma allo stesso tempo la questione genetica ed etnica penetra in se stessa e da sé si allontana.
Il nodo centrale della drammaturgia non è l’essere, ma la solitudine dell’essenza. Quella di Tabori non è una veglia estetico-morale, né un sogno estatico-esistenziale, ma un dovere, il dovere dell’essenza che si pone tra il sogno e gli avvenimenti e riedifica una sorta di creazione totale.
Tabori pone il teatro stesso sull’orlo di un baratro con una scrittura non lontana dalla tradizione, non beckettiana, né faticosa ma asciutta e tagliente. Dal baratro la scelta è se rimanere sulla crosta o saltare verso l’altra sponda. Nel varco, l’oblio.
La regia di Luca Micheletti cammina sull’orlo del baratro, scommette con l’oblio, forse, anzi, stringe un patto, e si può decisamente affermare che la scelta di mettere in scena – spingere è forse il verbo più appropriato – uno spettacolo come questo sia sintomatica di un momento di transizione: Micheletti usa una cornice che per dovere di categorizzazione si può definire “tradizionale” (anche se non borghese-settecentesca) ma la smonta dal suo interno, la dissolve nel momento in cui la rende materica. Per meglio dire, non si tratta di teatro d’Avanguardia (in questa sede è preferibile evitare di aprire un capitolo ostico come quello della definizione di “avanguardia” contemporanea) né di Urlo e Gesto (categoria in voga attualmente e che imbratta senza pudore la scena italiana e distrugge l’idea di Teatro in sé).
Si tratta di una regia-prisma che appunto scompone e si compone degli elementi della lunga e sofferta evoluzione teatrale e si scontra e incontra con tutte queste visioni: dalla medioevale dei pageants fino a Strehler e a Ronconi passando per Brecht e Grotowski. In questo testo e in questa regia la vera provocazione è nella pericolosità di sfruttare, immergendocisi verticalmente, l’abbondanza di riferimenti e di Parola.
Una rischiosa operazione a cuore aperto.
Per dare forma a questo altrove di definite possibilità e di infinite combinazioni ed errori, la scenografia impeccabile di Csaba Antal – che peraltro sfrutta in maniera eccellente lo spazio del Teatro Franco Parenti – è una camera anecoica che, apparentemente, sembra penetrabile, scomponibile e accessibile, ma è in realtà un dedalo, è il cuore pulsante del labirinto e sebbene dovrebbe preservare il silenzio primordiale si riempie invece di rumore e pensieri, svuotandosi. Una scena vuota ma brulicante, uno spettacolo non spettacolo, una contraddizione totalizzante.
Nello spettacolo-prisma non è casuale l’uso delle luci abbaglianti di Fabrizio Ballini: nel pavimento bianco la croce – appare raramente, solo in alcune scene – dà la suggestione di un innesto sottocutaneo, le luci stroboscopiche restituiscono il deserto e il gelo, la sovrapposizione di tempo, spazio e corpi e accennano al movimento di eterna fuga e di eterno ritorno dell’azione che si fa carne.
Le accurate musiche originali di Rossella Spinosa e quelle preziose di Bach, Poulenc e Saint-Saëns sono eseguite al pianoforte e al cembalo dal vivo come in una fumosa sala del cinema muto degli Anni Venti.
In questo continuo parto, il miscuglio disomogeneo degli attori riesce a rendere perfettamente il disagio di questa Parola che vuole essere Verità, vuole capire la Verità e la cerca disperatamente.
Ecco lo stesso Micheletti trasformarsi senza troppa fatica nel regista-d(‘)io, il cinico e inafferrabile Mr.Jay che si offre e soffre sul palco con estrema lucidità e con un distacco, in alcuni momenti, al limite dello straniamento.
Mr. Jay pare programmare con ostinazione il fallimento suo, dei suoi attori e dello spettacolo che di fatto non esistono, ma allo stesso tempo è un soggetto altamente metamorfico che sfugge ed è in contraddizione e lotta costante con se stesso. Ha consapevolezza del fatto che da questa lotta tra l’umano e il divino (avere reminiscenza di Giordano Bruno è qui inevitabile) sia il divino che l’umano risultano sminuiti. Mr. Jay è maschio, ma pretende di avere sotto controllo l’intero movimento della vita: fallisce e fa fallire la donna proprio perché si rende conto di quanto il parto sia dominio di femmina.
L’Onnipotente è impotente. Mr. Jay è una vita unica e indivisibile di niente e Micheletti è crudelmente toccante nell’essere così umano e corruttibile, così tenacemente (non) rassegnato ad esistere, ricorda, tiene su di sé, la consapevolezza del fatto che il teatro non è scuola dell’essere, ma è, solamente è.
Ecco Japhet (Michele Nani) e Raamah (Pietro De Pascalis), due attori persi nella “tecnica-stereotipo” delle schiere, della drammaturgia collettiva, dell’estroso calare i luoghi comuni nelle messinscene, due clown che a stento riescono ad essere comici, ma che invece sono ferocemente grotteschi, piatti in maniera lacerante (e che in questo rimandano al Pozzo e Lucky beckettiani).
Ecco la superstar, Terese Tormentina che Claudia Scaravonati rende plastica, un involucro consapevolmente inconsapevole che vuole essere santa e commediante, la cui degradazione nel ruolo di una Eva che non è biblica ma terribilmente contemporanea è una esemplificazione feroce della violenza psichica sulle donne e sul femminile in scena, oltre ad essere immediatamente il ritratto della donna plagiabile e vincolata ai dettami della società.
Ecco Mrs Moop, l’operatrice di igiene universale, la sensibile Barbara Costa, che ha il delicato compito di rimanere, perché cantante lirica e non attrice, una voce fuori dal coro, una voce dolcemente aspra, una voce, come lo stesso Jay le spiega bonariamente, reale in un contesto di irrealtà.
Ed ecco, a chiudere saldamente il cerchio, Marcella Romei, eccellente nell’interpretare Goldberg, l’assistente e alter ego di Mr. Jay, il suo doppio, il suo specchio ed il suo riflesso. Eccellente nella presenza e nell’ambiguità del ruolo, la Romei con Micheletti duetta in maniera assolutamente armoniosa e con Micheletti costruisce un’ombra unica. Del resto, nel teatro come nella vita, le ombre son già libere, l’artista si strazia solo se cerca di illuminare ogni angolo per riposare la vista.
Lo spettacolo-prisma è un continuo azzardare di gesti senza mai compierli, se non nel finale che letteralmente sigilla con un bacio bruciante (che contiene anche il riferimento del tradimento di Giuda) l’intero processo, il rito.
Tabori riprende La leggenda del Grande Inquisitore e Micheletti presta il proprio corpo al tormento tipicamente dostoevskijano, di fatto in tutta la messinscena rimbomba l’eco de I Karamazov e de Le memorie del sottosuolo e proprio nel finale il servo di scena-regista problematico si punta alla tempia una pistola, correlativo oggettivo del contrasto tra uomo e donna nel meno frequentato racconto La mite.
Il finale è una esplosione di con-passione e tenerezza umana, un disperato tentativo dell’Attore di rendere percettibile un sogno perché ri-diventi sogno, in altre menti.
Tabori ha la capacità di offrire allo spettatore almeno cinque vie attraverso le quali riflettere sul bordo del baratro per decidere se consegnarsi all’oblio o raggiungere la sponda opposta.
Alla via della conoscenza cabalistica, a quella della riflessione sociale, politica e culturale, a quella dell’origine universale e umana, Luca Micheletti aggiunge la via che ha il Teatro come meta, ed è questa una via specificatamente dedicata agli addetti ai lavori e che però è praticabile, come tutte le altre, anche dal pubblico.
“Le variazioni Goldberg” di George Tabori per la regia di Luca Micheletti è in scena dal 3 al 13 novembre al Teatro Franco Parenti di Milano.
Written by Irene Gianeselli
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