Life After Death: l’intervista allo scrittore statunitense Ernest Hemingway

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“Harry’s Bar”.

Venezia oggi fa davvero rumore: qualcuno deve essere entrato, dalla porta aperta si è fatto strada nell’ambiente saturo di risate il suono lontano dei passi dei turisti sui ponti e dei loro flash. Sento perfino i remi delle gondole accarezzare l’acqua verdastra della laguna che scivola densa.

“Mi passi la borsa?”

“Vorrei capire perché devo avere tanta fretta!”

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“No, papà”.

“Sì, certo amore”.

“Davvero, questo non lo sapevo”.

“Insomma, la borsa!”

Un miscuglio di lingue, di richieste e di parole. Il Bar: rumori di bicchieri, di cucchiaini che mescolano lo zucchero nei caffè caldi e urtano i bordi delle tazzine con quel suono limpido, acuto ed inconfondibile; rumori di sedie che vengono spostate, borsette poggiate sull’orlo degli schienali che cadono, tacchi e scarpe da ginnastica. E poi ci sono i camerieri con il loro bel sorriso che si danno un gran da fare tra tutti gli avventori. Questo è un chiasso che mette di buon umore, è il rumore dell’incontro.

Sto giusto guardando ancora una volta l’orologio quando sento una tocco leggero sfiorarmi proprio la mano sinistra. Un uomo – tiene in mano un mojito, è la prima cosa che noto: il tintinnare del ghiaccio e l’aroma dolciastro del rum e quello intenso della menta mi pizzicano il naso – sorride. Gli sorrido: ha gli occhi attenti e liquidi dietro gli occhiali militari bordati di metallo. La barba bianca lunga appena un po’ sopra il pomo d’Adamo addolcisce i tratti del viso, l’espressione sorniona alleggerisce l’aria da erudito ed io non riesco ad impedirmi di trovare questi occhi appassionati ed interessati, oltre che interessanti.

Aspetta qualcuno?” mi domanda.

Non credo arriverà più: è un maledetto disertore. A me non piacciono i disertori, sa? Ma bisogna pure capirli” gli rispondo, annuisce e sorseggia il suo drink.

Stia attenta, c’è molta differenza tra un disertore e un vigliacco. Perché essere vigliacco è la maggior sfortuna che un uomo possa avere. Quanto ai disertori, hanno a che fare con la guerra: ma io di guerre ne ho fatte troppe, sono certo di avere dei pregiudizi, anzi, spero di avere molti pregiudizi a tale proposito. La mia è una persuasione ponderata: le guerre sono combattute dalla più bella gente che c’è, o diciamo pure soltanto dalla gente, eppure, quanto più ci si avvicina a dove si combatte, tanto più bella è la gente che si incontra. Ma le guerre, dico io, sono fatte, provocate e iniziate da precise rivalità economiche e da maiali che sorgono a profittarne. Allora meglio un uomo che rinunci a combattere – quindi un disertore – che un vigliacco. Certo è che ci sono dei vigliacchi disertori e dei disertori molto vigliacchi: si può essere disertori e vigliacchi allo stesso tempo. Ed è anche vero che “the world is a fine place and worth the fighting for”, cioè “il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare“.

Sono davvero stupita. Non era questa la risposta che mi aspettavo, ma poco importa: io stessa non saprei che parole avrei usato per me.

Le offro io il caffè. Cosa legge?” è mentre mi accorgo del leggero balbettio con cui l’uomo mastica le parole che lo sguardo mi cade sulla copertina del libro. In un attimo mi rendo conto di avere davvero un’opportunità.

Il vecchio e il mare. Lei è Ernest Hemingway, non è vero?

Puoi anche chiamarmi Nurnie!” mi risponde abbassando il tono di voce – che già prima era morbido e leggero proprio come il suono dei remi contro l’acqua della laguna – e detto questo si pone un dito sotto l’occhio destro e mi sorride ancora, ma di sbieco.

Comincia lui, però, a fare domande.

Ernest Hemingway: Il vecchio e il mare” è l’unica cosa che hai letto?” 

 

I.G.: No. A questo punto posso dire che credo proprio ci sia un filo rosso che lega tutte le tue storie: i tuoi personaggi non possono sopportare di essere impotenti di fronte alla vita ed alla morte. In “Addio alle armi“…

Ernest Hemingway: “Addio alle armi” è una tragedia, ma saperlo non mi rendeva triste: anche la vita è una tragedia e sappiamo tutti benissimo che può avere soltanto una fine. Però è vero: la morte accompagna le vite dei miei personaggi. Di tutti i miei personaggi. Nel finale di “Addio alle armi” il tenente Henry è  solo spettatore della vita – e anche spettatore dell’amore, certo, quel libro è il mio Romeo e Giulietta – saluta la sua donna morta di parto che pare una statua, spegne la luce e si avvia sotto la pioggia: gli dicono che non c’è nulla da fare. Sa che non c’è più nulla da fare. Proprio ne “Il vecchio e il mare” Santiago lotta strenuamente contro il marlin, anche se lo ritiene suo fratello: non c’è più niente da fare quando porta la barca in secca con il cadavere marcito del pesce che ha pescato lui, ma altri pesci hanno divorato. Pensa alla risposta che viene data in “Morte nel pomeriggio” ad una Vecchia Signora quando chiede se sia pericoloso essere uomo: “Lo è, signora. E solamente pochi ce la fanno. È un mestiere difficile, e al fondo c’è la tomba”. Ad un certo momento la morte pedala in bicicletta e si muove sul selciato silenziosa in “Le nevi del Kilimangiaro”.

 

I.G.: Ma non è tanto morire il problema, non è vero?

Ernest Hemingway: No. Nella vita non è quello il problema, come nell’amore del resto. La verità è che la maggior parte delle persone non ha mai avuto la possibilità di amare davvero: non prendere l’amore alla leggera. Allo stesso modo, non prendere la paura della morte troppo sul serio. Io ho sempre esagerato con la paura della morte, ma saltare in aria a Fossalta in quel modo atroce mi ha segnato: l’esplosione fu molto grave per i miei nervi e la mia testa che impiegarono molto tempo per ristabilirsi.  

 

I.G.: Allora, Ernest, qual è la soluzione?

Ernest Hemingway:  Tutto si basa sul “non necessario”, sul non detto: tutto quello che succede, succede all’esterno da te. Ciò che rende difficili le cose – e quando sono difficili è un bene – è dare importanza a quello che può accadere. Non è importante tanto quello che fai tu, il tuo gesto, quanto l’emozione e la riflessione che la situazione si trascina dietro, che non annulla però l’autonomia dei personaggi e delle loro personalità. Come ha notato bene Ivan Kashkeen – artefice del mio successo in Russia, grand’uomo che era – ho sempre lavorato sulla complessità e al contempo ho sempre cercato di concatenare logicamente tutti quei dettagli non necessari. Non parlo di inutilità, però. Parlo di quel non necessario, quell’apparente surplus di materia viva che è nei racconti: tutto ruota attorno ad una parola non pronunciata, ad un dettaglio che nessuno avrebbe creduto importante, forse. Proprio nessuno no, chiunque può notarlo, basta guardare attentamente e ascoltare fino in fondo. Pronunciare le parole, scriverle, per me può significare due cose: o condannare i concetti alla dimenticanza, o evocare uno stato d’animo. Io credo di essere riuscito a fare la seconda, come ha detto Kashkeen “senza gioia, sempre con la reticenza e la discrezione di chi sopporta con dolore le complicazioni della vita”. Del resto, cara mia, sono sempre stato convinto che un uomo deve subire molti castighi per scrivere un libro davvero divertente.

 

I.G.: Il diletto è quindi legato alla suggestione, al controverso, al conflitto, alla contraddizione generata dall’esperienza perturbante dei personaggi repressi dall’understatement.

Ernest Hemingway: Contraddizione, tornando ad “Addio alle armi”: non credi sia interessante notare come una sera – in un episodio dei primi capitoli – il tenente si ubriachi, mastichi caffè, abbia poca voglia di vedere la sua Giulietta (Catherine Barkley) e allo stesso tempo rimanga deluso dal fatto che lei gli rifiuti l’incontro perché indisposta? O ancora prima: come spiegare il fatto che la donna lo schiaffeggi quando tenta di baciarla e poi gli chieda di essere baciata? Sì, la contraddizione è l’essenza di tutte le cose, della realtà. Senza la contraddizione non esisterebbe turbamento. Sembra banale adesso, vero?

 

I.G.: Henry è uno di quei personaggi che incarnano gli antieroi del ventesimo secolo?

Ernest Hemingway: Leggi – o nel caso rileggilo – “The Sun Also Rises”, quello è un libro molto morale. Decisamente. Niente a che vedere con “A farewall to Arms”: Henry è un antieroe. Però, se ci pensi, così è la vita.

 

I.G.: Dai sempre delle coordinate spaziali e temporali: già dal titolo, il lettore viene assorbito in un luogo e in un umore ben definito. “Di là del fiume e dagli Alberi” ne è un altro esempio, Ernest?

Ernest Hemingway: Dare coordinate precise aiuta a fare capire al lettore che la tragedia è dentro tutti: in qualsiasi cuore, in qualsiasi ora, in qualsiasi posto ci si trovi. Disertare è, in qualunque momento, un’azione che può essere compiuta senza rimpianto da chiunque. Può essere saggia passività. Può essere vigliaccheria. Oltre il fiume e gli alberi, sì, effettivamente dovunque ti trovi c’è un fiume con degli alberi da qualche parte. E poi poco importa che sia un fiume, un lago, un mare, il conflitto è sempre lì: la realtà naturale pura e bella e la consapevolezza di quanto l’uomo e la poesia stessa che può uscirgli di bocca siano un sogno cadùco. Non per niente Cuba ha smesso di piacermi proprio quando sono arrivati i grattaceli e le autostrade sulle spiagge e sulle colline: non c’è fascino nel cemento.

 

I.G.: I libri, la copertina e le pagine stesse, del resto, servono a questo: in tutti i luoghi si può leggere, dilettarsi e amare!

Ernest Hemingway: Ecco cosa mi ricordi, una volta ho scritto che “l’amore è l’amore, e il divertimento è il divertimento. Ma c’è sempre un tale silenzio quando muore un pesciolino rosso”. La festa della significanza è decisamente molto più importante di quella dell’insignificanza. Al diavolo tutto il resto, al diavolo la vita: cosa c’è di più doloroso della morte silenziosa di un pesciolino rosso? Silenziosa, non passiva.

 

I.G.: Passività. Ernest, lo scrittore la rifiuta?

Ernest Hemingway: Impara a conoscerla. Io stesso sono stato passivo.

 

I.G.: Disciplina e pazienza e allo stesso tempo sapersi innamorare come un grande abete che precipita nel sottobosco: tu sei sempre stato e rimasto il bambino che correva nei boschi. La vita eterna non è così difficile da toccare.

Ernest Hemingway: Lascia perdere come ero io, non mi reputo un esempio così edificante. Correvo nel bosco di abeti, è vero: un giorno correvo con uno stecco in bocca e caddi, mi ferì la gola. Mi fece male per tutta la vita. Da qualche parte devo pure avere detto: “avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore. Un uomo deve comportarsi da uomo. Deve sempre combattere, preferibilmente e saggiamente, con le probabilità a suo favore, ma in caso di necessità deve combattere anche contro qualunque probabilità e senza preoccuparsi dell’esito. Deve seguire i propri usi e le proprie leggi tribali, e quando non può, deve accettare la punizione prevista da queste leggi. Ma non gli si deve dire come un rimprovero che ha conservato un cuore da bambino, un’onestà da bambino, una freschezza e una nobiltà da bambino”. Prima mi parlavi di un disertore: arriva il momento in cui è necessario fare una pace separata. Altrimenti non ci saranno più bambini a correre nei boschi. A riguardo dell’eternità: ho sempre detto che avrei detestato le fesserie che si sarebbero scritte su di me e la mia roba quando fossi morto, sono sempre state tutte porcate confuse e imprecise che alcuni chiamano critica. I critici non capiscono mai niente.

 

I.G.: Non dirlo a me, sono dello stesso avviso. Le “porcate” le hanno scritte in America, ma se parliamo di Kashkeen è tutta un’altra storia. Lui ti vedeva come una “mens morbida in corpore sano”. L’eterno ritorno del contraddittorio, leggo da Kashkeen stesso: “l’affermazione della vita ed il torpore di fronte alla visione della morte, il pessimismo sanguigno e la disperazione repressa, le brevità tautologica dei tuoi dialoghi e la precisione dei suoi accenni, lo spasmodico sorriso senza gioia”. Sembra di vedere Leonardo mentre dipinge “La Gioconda”. Atterrisci, Ernest, ed allo stesso tempo non si può fare a meno di darti ragione!

Ernest Hemingway: 1904, ero un bambino: raccontai di avere fermato un cavallo in corsa. Mio nonno mi disse che se avessi usato la mia immaginazione per buoni motivi sarei diventato famoso. Ma non so se tutto quello che è venuto dopo abbia a che fare con la ragione. Arriva, però, un momento in cui ti rendi conto che le cose che racconti hanno una loro verità e sono una realtà che esiste per conto proprio. Quando scrissi e pensai “Death in the Afternoon” feci una grandissima fatica a raccogliere le fotografie, fu duro smettere di lavorare al libro perché non bastano un incidente di macchina ed un ospedale a fermarti. Ho visto sette volte la Fiesta di San Firmin ed ho letto tutte le riviste di tauromachia spagnole, cinque anni di ripensamenti e limature. Solo dopo tre anni i critici americani si accorsero che potevano trattare con una attenzione maggiore quel libro. Non so se questo è avere ragione, però. Essere scrittore non è tenere la penna tra le mani, battere su una macchina e macchiare i fogli. Non credo che ci sia qualcuno che riesca a definirsi mai davvero scrittore solo perché ha pubblicato e scritto miliardi di parole. La poesia? La poesia! Non si può fare senza.

 

I.G.: I giovani sono stati ispirati da te: per il groviglio del tuo stile, della tua prosa e dei tuoi contenuti. E tuttavia dopo averti letto sembra davvero tutto troppo chiaro: hanno visto la rivoluzione che tace e partecipa senza partecipare, ma allo stesso tempo rifiuta posizioni reazionarie e violente, anche se deve comunque affrontare la violenza degli uomini che vivono e muoiono. La verità è atroce e vicina, come la pioggia che bagna il tenente Henry in “A farewall to Arms”. Come il sonno di Santiago. Proprio ne “Il vecchio e il mare” ad un certo punto si legge “l’uomo non trionfa mai del tutto, ma anche quando la sconfitta è totale quello che importa è lo sforzo per affrontare il destino e soltanto nella misura di questo sforzo si può raggiungere la vittoria nella sconfitta”. Ernest, questo significa che si può raggiungere anche la perfezione, che la perfezione è in quella tensione dell’uomo che cerca di realizzare se stesso?

Ernest Hemingway: Sulla perfezione credo che la risposta migliore potrebbe dartela quel tale colonnello in “Di là dal fiume e dagli alberi”, sai, quando dice riguardo al cuore che è solo un muscolo. Solo che è il muscolo principale. Funziona alla perfezione come un Rolex Oyster Perpetual. Il guaio è che non lo si può mandare al rappresentante della Rolex quando si guasta. Quando si ferma ci si limita a non sapere l’ora. Si è morti.

 

I.G.: Perciò non devo prendere troppo sul serio né gli orologi, né i rappresentanti di orologi, né le ore che passano. L’importante è che il cuore batta, qui. Tra i polmoni, davanti alla colonna vertebrale, dietro lo sterno.

Hemingway ride e rido anch’io.

 

I.G.: Nurnie, ricorda di non dimenticarti di ascoltare Tommaso Ragno che leggerà “Addio alle armi” dall’otto settembre per la trasmissione radiofonica “Ad Alta Voce” su RaiRadio3.

Ernest Hemingway: Lo farò. Sono molto curioso di ascoltarmi attraverso la sua voce: quando scrivevo da solo e mi accorgevo che ero capace di inventare qualcosa, di creare con abbastanza verità da esser contento di leggere ciò che avevo creato, e di farlo ogni giorno che lavoravo, era qualcosa che mi procurava una gioia maggiore di quante ne avessi mai conosciute. Oltre a questo nulla era più importante. Allo stesso modo di un attore quando recita e lavora e ritorna sul suo lavoro. Vedi: il diletto di scrivere per rileggersi ed essere riletti. Il diletto di leggere per ricordare e ricordarsi. Il diletto. Il mondo del Teatro è affascinante, non trovi? Una volta sono stato Robin Hood. Guarda un po’: Robin Hood e il tenente Henry. Uno che ruba ai ricchi per dare ai poveri, l’altro che fa una pace separata. Ognuno si sceglie come meglio fare lo spaccone, come meglio disertare, come meglio consolarsi – se ci riesce -. Però non ho mai visto il Teatro disertare, semmai l’ho visto reagire. Non esiste passività nel Teatro: fare Teatro, vivere, scrivere è come cacciare l’airone azzurro. Anche se è proibito e ti multeranno, anche se la cosa ti lascerà sconvolto imparerai molto e allo stesso tempo non rinuncerai mai al piacere di avere conquistato un essere così bello e puro nonostante il senso di colpa: imparerai che non si lasciano gli aironi appena uccisi nelle barche. Imparerai a non allontanarti dalle barche. Imparerai che i guardiacaccia sono sempre al momento giusto nel posto giusto, proprio mentre tu hai fatto la cosa sbagliata nel momento sbagliato e pensa, ti sembrava una cosa innocente. Non si cacciano gli aironi azzurri!

Ridiamo ancora.

 

Ernest Hemingway: A proposito di ascoltare, c’è una cosa che devo dirti: quando la gente ti parlerà ascoltala fino in fondo, di solito non si ascolta mai. Abbi sempre il coraggio di ascoltare.

 

I.G.: Ernest che vuole dire avere il coraggio?

Ernest Hemingway: Attenta, dopo tutti quei libri… Però mi piace come domanda, mi fai ricordare dei personaggi di cui ho scritto. Della loro “grace under pressure”. Ecco, bisogna conservare la dignità di essere uomo anche nella cupa disgrazia. Avere dignità significa rispettare qualsiasi verità. Fosse anche la peggiore. Fosse anche la morte. Santiago è l’esempio migliore che ti possa fare. Ma vedo che si è fatto tardi e ho finito il mio mojito.

 

I.G.: Un’ultima cosa, Nurnie. Pensavo ai disertori e ai vigliacchi. Pensavo all’alba in cui hai scelto di morire. Ernest, dimmi: sei un disertore o un vigliacco?

Ernest Hemingway: Scoprire la morte nella vita è una sorpresa, nonostante si tratti di una fine preannunciata. Il vuoto è la vera morte. Santiago direbbe “man is not made for defeat, a man can be destroyed but not defeated”  che in italiano suona così: “l’uomo non è fatto per la sconfitta, un uomo può essere distrutto, ma non sconfitto”. Io preferisco andare in mille pezzi che essere sconfitto dal vuoto. Meglio avere sentito la carne lacerarsi che corrompersi e dileguarsi da me.

 

E detto questo con il suo bisbiglio che sembra una carezza, mi saluta. Pone ancora -come aveva fatto all’inizio – un dito sotto l’occhio destro e mi sorride, ma di sbieco.

È un bel modo di sorridere.

Mentre si allontana lo sento canticchiare.

Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono: porto i capelli neri“.

 

Written by Irene Gianeselli 

 

Info

Tommaso Ragno legge “Addio alle armi”

Ad Alta Voce

Life After Death

 

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