Phineas Taylor Barnum: storia del principe degli imbrogli
America, terra di venditori. Trickster che incantano cercando di abbindolare il prossimo con la parlantina, imbonitori di talento venuti dal nulla per creare illusioni promettendo meraviglie. Suscitare la fiducia è il loro mestiere, il suo venir meno, la loro tragedia. Creatori di sogni. Sogni americani. Come quelli generati dal loro campione, archetipo della categoria.

Corre l’anno di grazia 1835 quando un venticinquenne proveniente da Bethel, Connecticut, si materializza a New York, in quel tempo in fase di costante espansione ma già in possesso di una rete stradale da far invidia a tutte le altre città della costa atlantica. È il sesto di dieci fratelli, ha fatto il negoziante e poi giornalista, e non gli fanno difetto spregiudicatezza e intraprendenza. Pochi giorni dopo il suo arrivo a New York, assiste casualmente a un piccolo spettacolo in cui un’anziana ma ancora arzilla afroamericana di nome Joice Heth racconta le sue esperienze di schiava nelle case dei ricchi proprietari degli stati del sud.
L’esibizione lo illumina, e dopo aver parlato con la donna e aver trovato buoni argomenti per convincerla ‒ un onorario di mille dollari, che prenderà in prestito ‒ spedisce lettere ai giornali, crea opuscoli e manifesti, e presenta la suddetta Joice come una donna di centosessanta anni già nutrice di George Washington, il primo presidente degli Stati Uniti eletto proprio a New York il 30 aprile 1789.
Sui manifesti si legge che acquistando un biglietto al modico prezzo di venticinque centesimi si potranno ascoltare i racconti sull’infanzia del Padre della Nazione. L’esca è lanciata e ora non resta che attendere gli abboccamenti, che sono copiosi perché l’esibizione di Joice Heth si rivela un successo, in pochi giorni il venticinquenne rientra dall’investimento iniziale e lo moltiplica, e poco importa se l’età effettiva della donna è di circa ottant’anni (come verrà appurato dai medici quando verrà a mancare all’improvviso), perché è quello il momento preciso in cui inizia ufficialmente la carriera di colui che verrà ricordato come il “Principe degli Imbrogli”, padre putativo di tutti gli imbonitori a venire: Phineas Taylor Barnum.
Il successo iniziale gli è da sprone, e in poco tempo Phineas Taylor Barnum mette insieme una troupe di intrattenimento che chiama “Barnum’s Grand Scientific and Musical Theatre” e, nel 1842, riesce ad acquistare a Manhattan, sempre con denaro preso in prestito, un museo in disuso, lo Scudder’s American Museum, che diventa il Barnum’s Museum, ovvero il Museo delle Cose Impossibili, repertorio di stranezze e presunte meraviglie umane.
Subisce il fascino straniante del grottesco, Barnum, intuendo che quella particolare declinazione del circo racchiude in sé un potere sovversivo che suscita curiosità, diventando un divertimento ben presto molto popolare. E allora dopo Joice Heth è la volta della sirena delle Fiji, in realtà un artefatto tassidermico composto da una scimmia e da un pesce, che gli vale un’incriminazione per truffa che non ha altro effetto se non quello di moltiplicare la popolarità dei suoi spettacoli e di acuire la sua fantasia nel confezionare inganni da esibire come meraviglie. Per rendere maggiormente realistico il numero della sirena, Phineas Taylor Barnum escogita un sistema di specchi tale da proiettare l’immagine di un’attrice all’interno di un acquario, con tanto di variopinta coda di pesce.
Dopo la sirena è il turno di Pasqual Pinon, un messicano dalle due teste di cui una, minuscola, fissata in modo posticcio sulla parrucca; poi arrivano i gemelli siamesi Adolph e Radolph e le sorelle siamesi Milton, coppie unite alla vita da corde che, sciogliendosi all’improvviso, permettono ai supposti gemelli l’uscita dal palcoscenico da due lati differenti.
Insomma, la fama del museo comincia a crescere e, oltre ai falsi mostri, si popola di tutta una serie di esseri umani dallo sfortunato destino, “scherzi della natura” presentati a Barnum da affaristi senza scrupoli oppure da genitori desiderosi di liberarsene.
Ecco allora Charles Stratton, il “Generale Pollicino”, un nano di otto anni che viene sfarzosamente unito in matrimonio con Lavinia Warren, una nana bambina; e poi il “Gigante del Colorado”, ovvero Jack Earle, alto 2 metri e 32 centimetri; e ancora il russo Fedor Jeftichew, “l’uomo cane” affetto da ipertricosi, il “torso vivente” principe Randiam, nato senza gli arti superiori e inferiori, Francesco Lentini, “l’uomo dalle tre gambe”, un italiano nato con una terza gamba leggermente più piccola delle altre due, fino ai “pinheads”, ovvero sfortunati affetti da microcefalia esibiti come gli ultimi degli Atzechi.
Sono i freaks, meraviglie mostrate per lo stupore di grandi e piccoli, che anni dopo vedremo su grande schermo nel famoso e controverso film di Tom Browning. Questo mondo a parte, irriducibilmente altro rispetto alla vita sociale quotidiana delle persone rispettabili, rappresenta il grottesco, lo stigma, il bizzarro che, in quanto anticonvenzionale e perturbante, costituisce una potenziale minaccia per la cosiddetta normalità, da circoscrivere pertanto nei confini di uno spettacolo dal sapore carnevalesco.
Ma è proprio questa la scommessa di Phineas Taylor Barnum, e nell’America puritana del tempo il Museo delle Cose Impossibili solletica la curiosità morbosa di centinaia di migliaia di visitatori all’anno, pronti a pagare i venticinque centesimi del biglietto di ingresso per ammirare le più incredibili stranezze viventi. È quella, in definitiva, una delle prime forme di intrattenimento e svago per famiglie.
Le conseguenti fortune economiche permettono a Barnum di ideare uno show ancora più innovativo, visto il continuo proliferare nelle città della costa atlantica di similari musei degli orrori con entrata al costo di dieci centesimi.
Nel 1870, Phineas Taylor Barnum inventa “The Greatest Show in the Earth”, uno spettacolo che rivoluziona il concetto di intrattenimento e che fa il suo debutto a Brooklyn, per poi stabilirsi al Madison Square Garden, un teatro capace di ospitare diecimila posti a sedere. Lo show è composto da un serraglio di animali ammaestrati, di fatto, il circo equestre come poi lo conosceremo, e da una esposizione minore, il sideshow, astutamente fatto passare da Barnum come corollario al circo ma che lui considera l’attrazione principale.
Caratteristico del sideshow è il “dieci in uno”, un numero di “atti” aventi per protagonisti freaks disposti lungo una piattaforma, dove il pubblico, accompagnato da un imbonitore, passa da una sequenza all’altra, fino al ritorno al primo atto, che segna la fine dello show. Ma a Barnum tutto ciò non basta e, grazie a un’altra geniale intuizione, trova il modo di rendere itinerante il suo spettacolo.
Lo fa acquistando un treno, che permette a “The Greatest Show in the Earth” di essere trasportato su rotaie nelle principali città americane. La mossa si rivela decisiva per le fortune del suo spettacolo, e l’imprenditore anticipa lo svolgimento dello show con una serie di innovative strategie pubblicitarie fatte di opuscoli, cartelloni e, soprattutto, autentiche parate cittadine, nelle quali decine di carri addobbati a festa sfilano per le strade con i clown ad annunciare “The Circus is in town”.
È un mago del marketing ante litteram, Phineas Taylor Barnum, e la filosofia sottesa ai suoi spettacoli è efficacemente riassunta dal celebro motto: “Abbiamo qualche piccola cosa per ognuno di voi”, una strategia commerciale che cerca di accontentare i gusti di tutti.
Nel 1880, consapevole della prepotente ascesa di un altro abile impresario circense, James Anthony Bailey, Barnum propone al rivale l’opportunità di unirsi per formare il più grande circo del mondo. Bailey accetta e nasce il “Barnum & Bailey”, primo circo a tre piste della storia, rimasto celebre per performance indimenticabili, come quelle del leggendario e gigantesco elefante Jumbo, e capace di dare lavoro a più di mille persone.
Un personaggio come Barnum non può rimanere insensibile al fascino della politica, e per due mandati consecutivi viene eletto legislatore nel Connecticut.
Nella notte del 7 aprile 1891, all’apice del successo, Barnum muore nel sonno. Viene sepolto nel cimitero che egli stesso si è fatto costruire a Bridgeport.
Nel Novecento, le sue strategie saranno riscoperte e studiate. Nel 1950, lo psicologo Paul Meehl conierà per primo l’espressione “effetto barnum”, locuzione con la quale si descrivono personalità-tipo convenzionali e generiche in cui chiunque, trovando necessariamente qualcosa che corrisponde alle proprie caratteristiche, può riconoscersi. Proprio come negli spettacoli di Barnum, dove c’è sempre qualcosa per ognuno.
Un altro psicologo americano dell’Università della California, Bertram R. Forer, approfondirà l’analisi di Meehl. In un esperimento rimasto famoso, Forer distribuirà ai suoi studenti dei profili psicologici generici, in realtà tutti uguali, chiedendo di attribuire un punteggio da zero a cinque, sulla base di quanto i profili possano assomigliare alle caratteristiche psicologiche di ciascuno. Come ampiamente previsto da Forer, tutti gli studenti otterranno punteggi alti, con più di quattro di media, confermando la teoria “barnumiana” del qualcosa per ognuno; un po’ di tutto, quindi, in modo che chiunque possa trovare caratteristiche tali da identificarle con il proprio carattere. Barnum anticipa un modus operandi che sarà ampiamente seguito da astrologi ed esperti dell’occulto, nel loro sforzo di generalizzare presunti responsi divinatori: vaghezza e generalità al servizio del cliente, l’effetto Barnum, o Forer, come poi sarà abitualmente chiamato, ovvero la naturale tendenza dell’individuo a credere che un oroscopo possa essere ritagliato a propria misura anche se formulato in termini generici.
Geniale pubblicitario e fine persuasore? Anticipatore delle strategie di marketing? Oppure scaltro impresario senza scrupoli? Tutto questo e ancora altro è stato Phineas Taylor Barnum.
Oggi vivrebbe nel web, visto che quello è il benchmark, il metro di giudizio di riuscita di ogni iniziativa; magari nelle vesti di un guru dispensatore di felicità per anime sole, youtuber con un canale da milioni di iscritti; oppure come strapagato influencer dell’agorà immateriale instagrammiano o facebokkiano, impegnato di piazzare per conto terzi questo e quello a un popolo di follower selfisti dal like facile. Qualche piccola cosa per ognuno…
Written by Maurizio Fierro