“Trattato sulla tolleranza” di Voltaire: la condanna del fanatismo religioso
In questi tempi di recrudescenza della guerra, del terrorismo, dell’intolleranza verso i migranti e gli stranieri, in Europa e nel mondo, ho voluto andare a rileggere un testo direi fondamentale nella storia del pensiero politico del nostro continente: il “Trattato sulla tolleranza” di Voltaire, certamente una delle sue opere più popolari e anche famose, se non la più famosa.

Il Trattato sulla tolleranza, pubblicato in Francia nel 1763, costituisce un trattato fondamentale sulla libertà di credo religioso, sul rispetto delle opinioni diverse e su molti di quegli aspetti con cui oggi identifichiamo una società come civile, tanto da sembrare scritto per il mondo attuale.
In questo trattato, che si rappresenta come polemica civile e politica, Voltaire chiama a raccolta l’Europa illuminista per fare della tolleranza una prassi da promuovere contro ogni forma di superstizione e di pregiudizio.
Ho comprato la presente edizione del Trattato sulla tolleranza in quanto incuriosito anche dalla prefazione scritta nel 1948 da Palmiro Togliatti, il quale mi ha stupito per la sua capacità di cogliere appieno, già in quell’epoca l’attualità del messaggio di Voltaire, con il suo portato di invito alla lotta per i diritti civili.
Per Togliatti la vittoria di Voltaire della battaglia per l’affermazione della tolleranza sull’intolleranza: «fu una grande vittoria del razionalismo moderno contro l’oscurantismo della Controriforma, il punto culminante di uno svolgimento di pensiero partito dal Rinascimento, sostenuto dalle rinnovate ricerche scientifiche, dalla demolizione del metodo della filosofia scolastica, dal trionfo dei principi del libero esame e del materialismo.»[1]
Lo spunto per scrivere il trattato è stato offerto a Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet) da una tragica vicenda, quella accaduta alla famiglia Calas.
Una sera di ottobre del 1761 i Calas, commercianti di fede ugonotta, cenano con Gaubert Lavaisse, un giovane amico di famiglia. Quando Pierre, fratello minore di Marc-Antoine, accompagna alla porta il giovane ospite, trova nella bottega, accanto all’abitazione, Marc-Antoine impiccato.
Si diffonde la voce per cui l’intera famiglia Calas, aiutata da Lavaisse, lo avrebbe ucciso, per il motivo che Marc-Antoine si sarebbe voluto convertire al cattolicesimo. In realtà Marc-Antoine si suicida per tutt’altri motivi, del tutto personali e indipendenti da aspetti religiosi.
Marc-Antoine viene sepolto in chiesa, divenendo un martire della fede cattolica.
I Calas, invece, pur professandosi innocenti, sono arrestati insieme all’amico e alla domestica cattolica e subiscono un processo che si conclude, il 9 marzo 1762, con la condanna a morte di Jean Calas, il padre.
Il giorno seguente si esegue pubblicamente la sentenza. Lo sventurato Calas, dapprima trascinato per le strade di Tolosa viene poi messo alla ruota, dove, gli vengono spezzate le gambe e le braccia e dopo due interminabili ore di agonia viene soffocato e il suo corpo bruciato.
Da notare che fino all’ultimo Calas rivendica la sua innocenza e addirittura perdona in punto di morte i suoi carnefici.
Il figlio minore viene rinchiuso in un convento di domenicani e le figlie sono tolte alla madre.
Nonostante tutto ciò la vedova Calas trova la forza per recarsi a Parigi per chiedere giustizia, che otterrà nel 1765 grazie a Voltaire, il quale prende pubblicamente le difese della famiglia incriminata, scatenando una campagna per la riabilitazione di Calas e denunciando l’intolleranza religiosa che sta alla base della condanna (i capitoli conclusivi in cui Voltaire espone la riapertura della vicenda giudiziaria dei Calas, con la definitiva riabilitazione della memoria di Jean Calas e l’innocenza dell’intera famiglia, nonché di Gaubert Lavaisse, viene aggiunto al testo originario nel 1766).
Si tenga presente che Voltaire è tra i primi pensatori a parlare di diritti umani, perché a quei tempi ancora non si parlava di diritti umani né in campo filosofico né in quelli più propriamente sociali o politici, al massimo si accennava in ambito giusnaturalistico al diritto naturale, vale a dire quel tipo di diritto connesso con l’uomo fin dalla nascita.
Scrive a tal proposito Voltaire: «Il diritto naturale è quello che la natura addita a tutti gli uomini […] Il diritto umano non può in nessun caso essere fondato che su questo diritto di natura; e il grande, l’universale principio di entrambi è su tutta la terra: non fare agli altri ciò che non vuoi che ti sia fatto. Quindi non si vede come mai, secondo questo principio un uomo possa dire a un altro: credi ciò che io credo e che tu non puoi credere, o morirai» [Cap. VI].

Voltaire assume dunque a imperativo la tolleranza e la ricerca della verità. Condanna il fanatismo religioso in quanto fonte di odio, violenza, persecuzioni e guerre.
Scrive a questo proposito: «Infine, la tolleranza non ha mai suscitato guerre civili; l’intolleranza invece ha ricoperto la terra di massacri».
Per lui, tolleranza significa, in estrema sintesi, accettare il fatto che gli esseri umani, naturalmente diversi in aspetto, situazione, lingua, comportamento e valori, abbiano il diritto di vivere in pace e continuare ad essere come sono. Significa anche che le proprie opinioni non devono essere imposte agli altri. Il Trattato sulla tolleranza si può ritenere quindi un vero e proprio manifesto per la libertà e per il valore universale della tolleranza religiosa.
Concludendo, la tolleranza, per Voltaire, che andrebbe sempre esercitata da chi governa, è il caposaldo del suo pensiero politico.
Written by Algo Ferrari
Bibliografia
Voltaire, Trattato sulla tolleranza, EDUP s.r.l., 2025
Note
[1] Dalla Prefazione di Palmiro Togliatti (p.10)