“Chi dice e chi tace” di Chiara Valerio: un thriller che muta
Un enigma m’attanaglia la mente, ma non troppo, consentendomi la lettura, già dalle prime pagine di “questo breve romanzo” (così lo definisce l’autrice Chiara Valerio), Chi dice e chi tace: perché sento un così intrigante odore di Leonardo Sciascia? Ne parlo anche con l’amico Gino Ruozzi, che su Il sole 24 ore già esaminò l’opera. Perché, gli chiedo, ho questa piacevole e urticante sensazione? Perché occorre sempre capire tutto nella vita? A che serve? Per vivere meglio? No.

Leggo altrove un pensiero dello scrittore Raffaele Catà, secondo cui: il mistico è internamente violentato dal mondo. Il logico ferisce superficialmente la mente. Il filosofo vive e muore cercando di portare guarigione e riconciliazione tra i due, dentro e fuori di sé. Si tratta, nel migliore dei casi, della medesima persona.
E Leonardo Sciascia e Chiara Valerio, che fanno? Patiscono, lottano, cercano di adattarsi alla realtà. Talora osservano, ascoltano, giudicano e, quando pare a loro, tramandano.
Uno può essere mistico, logico, filosofo, ma quando è scrittore si limita a scrivere. E a tacere. Nessuno saprà mai quanto ha cancellato, su quanto ha deciso di sorvolare, quasi fosse un aliante, di negare agli altri, di fuggire via. Quanto ha deciso d’offrire è una serie di affermazioni. Le negazioni restano sottese, sottaciute, covate al di sotto della scrittura, nell’alveo del fiume che scorre sulla pagina diretto al mare, che talvolta può essere un oceano.
The thrill in inglese è il brivido, to thrill significa procurare brividi, emozionare. Il romanzo Chi dice e chi tace di Chiara Valerio è un thriller. Fino all’ultimo, il lettore non sa come andrà a finire. Questo capita in tutti i libri, si può dire. Ma spesso senza emozionare più di tanto, almeno fin quasi alla fine. Nel caso in questione l’autrice pare celare fin dall’inizio la soluzione finale del mistero e il lettore ignora se alla fine la di lei anima la concederà.
Quesito: come può una donna come Vittoria (nomen omen?), provetta nuotatrice, morire affogata in una vasca da bagno? Fu la fine che fece Whitney Houston nel 2012, per collasso cardiocircolatorio si disse a quel tempo, dovuto a… Lasciamo perdere.
Qui la situazione è ancor più avvolta nel mistero, che sarà svelato oppure no. Sto pensando al gatto di Schrodinger. S’ipotizza che esso resti sia morto che vivo finché non sarà attestato il suo stato. Si tende a dimenticare una terza ipotesi (i gatti hanno sette vite e mille astuzie) che, in un modo o nell’altro, magari per uno scherzo effettuato da chissà chi, il fisico entri nella stanza e non trovi più niente. Solo un biglietto beffardo con su scritto: Ora venisti, ah! Il gatto era originario di Racalmuto (AG).
A pagina 14 de Chi dice e chi tace, con risicata soluzione di continuità, l’io narrante passa dalla descrizione di un violento alterco fra due ragazzetti ad alcuni giudizi in merito all’“incidente” (il vocabolo è replicato in una riga limitrofa) occorso a Vittoria. Il romanzo è spesso così, passa di pala in frasca e, mi si creda, è il suo bello. Nulla è stabile nel pur ordinato Kósmos, tutto è in equilibrio precario; si pensa a una cosa e, all’improvviso, cogente s’è fatta innanzi la sua alternativa. La prima sarà poi ripescata, quando gli effetti del nuovo incidente ha cessato di rompere, l’equilibrio, tanto per evitare sconcezze.
Leggo su linea che Chiara ha conseguito la laurea e il dottorato in matematica presso un’università napoletana (la più celebre, mi pare), e che è dotta nel calcolo delle probabilità: ideale per saper scegliere fra questo o quello, Enten-Eller, direbbe Søren Kierkegaard. Chissà se ce la farebbe a fottere un incantatore delle tre carte, che le si proponesse in un vicolo di Napoli. Alcuni personaggi, fra cui il mio preferito (un don), sono di quella città anche alcune espressioni, tipo questa di pagina 51 de Chi dice e chi tace: “capèra” – parrucchiera, qui nel senso di pettegola.
Alcune espressioni matematiche sono irrazionali, altre immaginarie, altre composte da numeri complessi (in parte immaginari e in parte reali) e io vorrei che qualcuno che se ne intende mi spieghi come certe azioni quantistiche siano definibili in tal modo (complesso), come a dire che la realtà in parte c’è e in parte è una finta. Lasciamo perdere. Altre cogenze ci attendono.
Da qui sortiscono certe espressioni che terminano poco dopo, senza puntini di sospensione, né virgolette (che Chiara evita accuratamente), tipo questo “Ma io” – che spunta a pagina 63 de Chi dice e chi tace.
Nella vita capita. Uno lascia un discorso interrotto, parzialmente taciuto (non necessariamente a metà), un mozzicone ne rimane, lì, come l’aratro in mezzo alla maggese – direbbe con un filo di voce Giovanni Pascoli.
Mi piacciono i tuoi dialoghi, Chiara, anche se a volte devo tornare indietro per capire chi ha detto e chi ha taciuto, in quanto a te delle virgolette, tipo “ ”, o alternative varie, non ne vuoi sapere. Sei fatta così! O è un momento che passerà? Dovrò cercare gli altri tuoi romanzi per saperlo, non necessariamente il prossimo, uno pregresso va benissimo. Mo’ virimmo!
Il paese in cui succede la storia è Scauri, frazione di Minturno, comune di Latina. Allorché, mensilmente, solevo scendere verso il sud, il mio punto di riferimento più amato era Gaeta: allorché rivedevo il mare. Bei ricordi ho, della tua zona, “Lea” io narrante, detta anche “Le’”.
“Scauri, il posto nel quale ero nata…” – anche Valeria, sai? – “… nel quale ero riuscita a vivere, e che funzionava come un polmone…” – e io ho imparato a esistere un po’ dappertutto, ma non è stato facile, ma solo nel tornare al terzo piano, interno cinque, di casa mia, riesco a dire: “Ahhhh!” – anche per questo uso mettermi un paio di scarpe con due numeri più bassi, così che l’esclamazione di ritrovato respiro sia ancor più catartica! Ma scherzo! A volte sparo sciocchezze. Porta pazienza.
Quando descrivi il tuo antagonista legale, l’“avvocato Pontecorvo”, mentre tu sei l’“avvocato Russo” – ognuno intento a risolvere il guaio di cui dissi (il bisticcio finito male fra i due ragazzetti) – ne parli bene e male, ne esalti qualche bellezza e alcune bruttezze, legate all’età, sei un po’ impietosa. Come vedi io i puntini li metto, talvolta.
Parliamo un po’ di “Padre Michele” – o “Padre Miche’” – che dice: “Ah, chill’ ‘u guaglion’ s’adda sta’ accuort’.” – napoletano col pedigree, per citare un’espressione del milanese Giorgio Porcaro (che era nativo di Benevento, gran bella e vetusta città, ne convieni?).
Secondo me quel prete è il filosofo di cui dice Raffaele Catà, di una specie calma e dolce, e (apparentemente) mai tribolata. Lui è sereno come colui che ha deciso di prendere il mondo come viene, come lo invia da lassù il suo Datore di Lavoro, l’Imperscrutabile. Mi ricorda mamma.
Tu reiteri assai. L’espressione “Vittoria era mezza sexi” è a pagina 74 e 82 de Chi dice e chi tace e pure altrove.
M’attrae (doppio senso) un pensiero che colgo a pagina 79: “Non importa il senso in cui ti piace qualcosa, importa che ti piaccia, e alla fine, quando ti piace e ti avvicini abbastanza, ci finisci dentro.” – la vita è un cangiante e intrigante orizzonte degli eventi. Cadere in un precipizio è la fine che attende ognuno di noi. Allegria, dai! – e “ci finisci dentro” pure a pagina 80.
Poi descrivi la tua gabbia cittadina, Scauri, usando diverse volte espressioni come “prigione”, “galera”, “evadere”, “cella” – per fortuna che anche colà “Vittoria era mezza sexi”.
Non intendo narrare la storia, che deve restare lì, a galleggiare, nelle tue pagine. A me importa il tuo modo di narrare, Le’ o Chiara che tu sia. Dice lui, tu e io sappiamo a chi mi riferisco, ma basta leggere il tuo libro e lo si capisce: “Vittoria e io ci siamo amati molto.” – e il concetto viene replicato poco dopo. A pagina 97 parli di una “iguana” – che c’entri Anna Maria (Ortese?). Domanda oziosa, lo so. Ma l’ho fatta.
Anche a pagina 100 “Vittoria è mezza sexi” – mi mancava! – “Sono state amanti” – sia a pagina 102 che nella successiva. Luigi è il tuo maritino fisico (alto, gran bel fisico), calmo e pronto a incavolarsi di brutto, ma solo quando serve, a cui tu rivolgi sempre un sacco di domande che non ammettono tentennamenti, e lui ce ne ha, ma solo appena, quantisticamente, un margine d’incertezza serve sempre, come assicura la fisica modellista Lisa Randall.
A volte salti a pie’ pari qualche “che”, tipo in: “e volevo qualcuno mi dicesse”, “e aspettavo bollisse”; però quando è auspicabile lò metti: “desiderava che gli amici prendessero”.
A pagina X (112?) leggo “tauto” e non capisco che intendi; per cui cerco su linea. Ah! conoscevo il tavuto, o tavuto nun tene sacche – ma è la stessa cosa. Una frase analoga la si dice anche dalle mie parti, che non ricordo più dove siano localizzate.
“Si calmi, avvocato Pontecorvo. Lei moderi i toni, avvocato Russo.” – ovvio che le virgolette le ho piazzato io perché, se devo aspettare te.
Che Mara (una delle protagoniste del romanzo) “sia una signora che, come le ho detto, ci ha portato male.” – è un pensiero con cui quel leguleio ha ammorbato tante pagine: non le conto manco.
Anch’io amo Tex Willer – qualche problema? Tu parli della “bistecca alta due dita. E una montagna di patatine.” – ma non accenni al fatto che questo Tex e il pard Kit se lo pappano una tantum, quando approdano in un saloon, ché di solito, in itinere, si cibano di carne secca. Anche tu fumi, come Tex (Kit no). Lucky Luke ha invece smesso.
“Vittoria aveva fatto per Scauri più di quello che Scauri aveva fatto per Vittoria.” – come lo sai?
Lo ripeti, ‘sto concetto, la pagina dopo, vabbè. Di lei, Vittoria, ricorderò questo: “sorride a qualcuno abbassando la testa e alzando la mano fa ciao ciao…” – anche al suo ex fece così.
A pagina 192 de Chi dice e chi tace ti chiedi che fine ha fatto il quaderno di Vittoria che conteneva le “quattrocento parole” che conosceva “Sibilla, il suo cane”. Il che mi fa fremere. Che l’uomo vada a vedere l’erba dalla parte delle radici (orrida espressione) è il suo destino, ma le cose scritte no, devono restare! Non so perché penso ciò. Lo penso e basta.
“Ma io.”, “Sì, ma.”: espressioni che meritano una lucente e dorata eternità.
“Vittoria è una che si prende cura, non che si fa curare.” – questo dev’essere salvato. Era una dottoressa, un’esperta di medicine, d’erbe, di veleni, di tutto quello che poteva guarire o stroncare l’esistenza. Sua e di altri. Ma con gli altri era disposta alla pena, li faceva sopravvivere.
“… dove l’appicichi?” – a pagina 245; “… Le’, dove la appiccichi?” – a pagina 247.
I dubbi e le titubanze, le domande senza risposte, da pagina 250 in poi (ma anche prima) mi confermano sempre di più, senza che ne potrò aver mai la certezza, che il romanzo sarebbe piaciuto a Leonardo (sempre Sciascia intendo, ah!).
“Era un rompicapo.”

Vorrei capire, anche se è ormai tardi: com’è che Vittoria vinceva sempre a briscola, a poker, e se perdeva veniva da dire: “… Vittoria l’ha fatto vincere.” – le carte, non solo le cosiddette (ad Amalfi) francesi, con jack, donne e re, per intenderci, sono misteriose, ineffabili, come un romanzo di chi sai tu, come il tuo, Lea-Chiara. Lei vinceva sempre, lei sapeva far nascere i bimbi podalici senza usare il cesareo. Boh!, che è un romanzo di Alberto Moravia, come sai.
“… semplicemente colgo le ripetizioni, le ricorrenze, pure questo fa parte del mestiere, no?” – sì!
Anche l’andare avanti e indietro nel tempo, alla ricerca del ricordo perduto, come intendeva Marcel (Proust), come quella volta che “Era stato un Santo Stefano…”.
La finisiòun – la fine secondo l’arşân materno, del romanzo – l ĕ mòca, non monca, ma che lascia ammutoliti… it’s mocking! – leggere per credere. Le ultime parole sono “… mi erano sembrati topi.” È buio, mentre scrivo. La lente d’ingrandimento m’è cascata sul pavimento. S’è rotta. Riposi in pace.
Cessati gli abiti di scena, nella Nota, tu, Chiara, dici tante cose belle. Quella che preferisco è questa: “… ascolto i racconti di persone conosciute e sconosciute e li intreccio…” – you entangle everything, aggrovigli, fai su la matassa di lana, la sciogli, confezioni belle e calde coperte, ma ogni tanto uno spiffero entra dalla finestra ed è meglio chiuderla, come anche ‘sta mia reazione, che mi auguro non sia anafilattica, ma accettabile da vari punti di vista, specie il tuo, cara, a presto!
No… Aspetta, c’è dell’altro: “… oltre le cose qui dette, restano quelle taciute, o dimenticate.” – o reiterate, secondo il l’uosemo, l’usta, il fiuto.
Tu, scrittrice, sei come lei, Vittoria, un’esperta di medicamenti, e di veleni. Vittoria è la grande assente ed è, ogni volta che torna, la grande presente. L’autrice è ognora qui. Immobile e fluida. Come quel fiume.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Chiara Valerio, Chi dice e chi tace, Sellerio Editore Palermo, 2024