“La ragazza della 9” di Luana Ceruti: sul miracolo della guarigione

1. Il fare un libro… “Il fare un libro è meno che niente,/ se il libro fatto non rifà la gente.” Forse in questo epigramma l’ottocentista Giovanni Giusti esagerava, affermando cosa che, se si potesse verificare su tutto quanto vien pubblicato, metterebbe in crisi depressiva editori, autori e professori. Certo, rifare la gente con i libri è forse programma troppo ambizioso, però…  che le Lettere oltreché essere Belle debbano avere qualche utile per iscopo (come Alessandro Manzoni si esprimeva nella Lettera al marchese Cesare d’Azeglio sul Romanticismo del 1823) – a prescindere dal pur legittimo utile economico – mi pare cosa lodevole e auspicabile, anche se noi siamo molto più avanti (?!?) di Giusti e di Manzoni.

La ragazza della 9 Luana Ceruti
La ragazza della 9 Luana Ceruti

A questo ho pensato leggendo “Il mio sogno”, una delle ultime pagine del libro di Luana Ceruti, La ragazza della 9 (Letteratura Alternativa edizioni, Asti 2024), dov’è scritto: “raccontarmi mi ha sempre aiutata e se questo può servire a dare coraggio a qualcuno che sta vivendo la mia stessa esperienza ne sarò davvero felice. […] Il mio più grande sogno è che la mentalità delle persone possa cambiare… (pag. 58)”

Molto a proposito Romina Tondo, nella sua “Prefazione dell’Editore”, cita quanto affermato da Fabrizio Benedetti, professore di Fisiologia umana e Neurofisiologia all’Università di Torino: “Oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni e simboli astratti in vere e proprie armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre… le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l’aspirina. (pag.9)”

La tematica del libro La ragazza della 9 e la biografia dell’Autrice sono desumibili dalle alette di copertina di una “fatica letteraria” che risulterà vieppiù di aiuto nell’impegno a “rifare la gente”, almeno per quel che riguarda la mission dell’Aido (Associazione Italiana Donatori Organi Tessuti e Cellule): promuovere, in base al principio della solidarietà sociale, la cultura della donazione di organi, tessuti e cellule; provvedere, per quanto di competenza, alla raccolta di dichiarazioni di volontà favorevoli alla donazione di organi, tessuti e cellule post mortem. Nell’ottobre del 2018 l’Autrice ha avuto la buona ventura di un trapianto di fegato che le ha consentito di risolvere il suo grave problema di salute. Da anni il suo “grazie” per il dono ricevuto lo esprime portando la sua testimonianza nelle scuole. Dal 2020 è segretaria della sezione provinciale di Alessandria di Aido.” (cito dall’articolo di Franca Nebbia su “Il Monferrato” del 20 ottobre 2023, in occasione dell’incontro con la classe 5ªA, Liceo Scienze Umane del Balbo-Lanza).

Ci auguriamo che la diffusione del libro La ragazza della 9 renda sempre più frequentemente reale il sogno dell’Autrice: “Ma il mio più grande sogno è che la mentalità delle persone possa cambiare: donate! Donare significa dare la possibilità ad altri di vivere quando la nostra vita ormai sarà finita.» (“Il mio sogno”, pag. 58) «nel momento in cui uno studente mi consegna il modulo Aido compilato e firmato per me è una gioia immensa, lo ringrazio ed è come se ringraziassi Il mio angelo, e per me si chiude il cerchio»” (“Quando il cerchio si chiude”, pag.51).

2.L’angelo. Quasi a compenso, sia della lucida, realistica consapevolezza, sia di essere viva grazie a qualcun altro morto per lei (“un enorme senso di colpa quando forse in fondo al mio cuore speravo che qualcuno morisse, la disperazione fa pensare anche a questo” – pag. 44), sia del legittimo quanto irrealizzabile desiderio di sapere chi fu il proprio donatore per ringraziarlo, l’Autrice si affida a un piccolo “credo” religioso: che il donatore continui a vegliare su di lei, come un angelo che, dopo averla graziata col miracolo della donazione, è diventato il suo custode e le manda prodigiosi segni della sua presenza: “Io credo, credo in qualcosa che mi dia la forza, credo negli angeli e mai avrei pensato che un giorno avrei avuto il mio angelo” (pag. 21) – “Quando mi è apparso nel fondo della tazzina del caffè quel cuore mi sono detta: “basta non ti cercherò più, ti sarò riconoscente per tutta la vita ma non voglio più cercarti. La tua presenza c’è, il mio angelo c’è, tutti i giorni. (pag.34) – Oggi so di avere il mio angelo, un angelo che mi ha donato una seconda vita, che non voglio sprecare ma che voglio solo vivere. […] Il mio angelo si manifesta con dei cuori, io li vedo, li vedo ovunque e ci credo. Ho promesso al mio angelo che non sprecherò nemmeno un attimo, farò volontariato e oggi sono volontaria Aido” (pag.48).

Come scrisse Mariarosa Loddo dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” di Vercelli, “il momento della malattia assume il valore di una rivelazione di verità in ogni caso altissime, dal senso del dolore alla piena consapevolezza della propria esistenza, al pari della folgorazione che nelle esperienze di conversione porta a dare alla propria vita un’altra direzione.»” (Scritture patografiche a confronto: la nascita di un nuovo genere?, in “Ethymema”, XIII, 2015, pag. 34).

3.Patografia. È il termine dotto per indicare l’autobiografia del malato e del suo percorso alla ricerca di una guarigione o di una convivenza con la malattia; è la ricostruzione scritta dell’esperienza soggettiva della malattia che coinvolge anche emozioni e sentimenti, aspetti sociali, relazionali, familiari e lavorativi. Non la malattia, ma l’essere malati è l’oggetto della patografia: un narrare che in tanti libri databili alla fine del XX secolo è «luogo prediletto per la riflessione sulla perdita della salute e sulla sofferenza» (come afferma nel già citato suo saggio – pag.16 – Mariarosa Loddo). Nell’esperienza della malattia si stravolgono le aspettative e i progetti futuri. Ma proprio quando viene meno la convinzione di poter esercitare un controllo sulla propria vita, il malato è spinto ad una ancora più affannosa ricerca di senso (“Perché io?” è infatti il titolo del primo paragrafo), che può rivelarsi una risorsa per affrontare le situazioni più difficili, attraverso la composizione di una storia. Una storia che per forza di cose è anche una discesa agli Inferi, per tanti non mitici Eroi chiamati all’avventura di una lunga e perigliosa degenza in ospedale, luogo della Cura ma anche della Sofferenza e della Morte. Lungo è l’elenco dei disagi e delle privazioni patite: lo sconforto quando si sente “sfigata rispetto agli altri” (in “Emozioni”, pag.43), la reclusione presso gli ospedali dove soffre per la mancanza di privacy e dell’aria e del sonno (in “Mancanze”, pagg.26-27); gli incubi causati dalle dosi massicce di morfina (“immagini scure, nere, paurose, spaventose” – pag. 42); i capelli che cadono, inevitabile stigma della chemioterapia; l’angosciosa attesa della data del trapianto; la paura di non svegliarsi dopo l’anestesia o di morire a seguito di una severa reazione allergica ai farmaci antitumorali; il torturante “sondino nasogastrico”, oggetto di un intero paragrafo (pag.40); le cicatrici, cui è dedicato l’omonimo capitoletto: “Tanti interventi e tante cicatrici, grandi cicatrici, fuori e nell’anima. Il mio primo intervento… avevo 29 anni, quando ho visto quelle graffette unire i due lembi di pelle, mi è caduto il mondo addosso. Quando mi hanno tolto i punti li ho contati uno ad uno: “uno, due, tre, quattro…” fino a trenta. Ogni graffetta un pugno nello stomaco.” (pag.41)

4. Lottare. Però… però… l’Autrice sa vedere “il bicchiere mezzo pieno” (paragrafo a pag.20) perché possiede un’innata e perseverante forza d’animo che la spinge a una lotta continua. “Lottare” è il titolo della sesta annotazione, dove si legge: “Sempre la stessa frase: “sei una guerriera, sei una forza, come fai?”. […] A volte non si vince ma l’importante è lottare sempre per quello in cui si crede. La lotta è intrinseca nel nostro vivere, la forza, se si vuole, la si trova.” (pag.19)

L’eroica protagonista compie un viaggio nel regno degli Inferi da cui riesce a tornare alla vita dopo uno strenuo combattimento contro il nemico insediatosi nel suo organismo. Un piccolo ma significativo esempio della forza d’animo della protagonista è la sua costante preoccupazione per l’outfit: un termine inglese che anticamente indicava la preparazione di un mezzo o delle attrezzature necessarie prima di una spedizione, anche militare – eccoci di nuovo al tema del combattimento contro la malattia!), ma che oggi indica tutto quanto si ritiene necessario per presentarsi in mezzo agli altri, fuori di casa, in modo decoroso e appropriato.

La forza d’animo della protagonista è corroborata da tre essenziali elementi facilitatori. Due sono doni innati: l’utilissima predisposizione all’ironia e una modica tendenza alla trasgressione che le permette di appagare qualcuna delle sue “sane pazzie”. Il terzo fattore che la favorisce riguarda l’ambito relazionale: l’Autrice è aiutata dai famigliari, dal marito e dal loro cane, dalle amiche, dal medico di base, un gruppo di belle persone che nell’insieme fanno da “contenitore” dei disagi della malata, aiutandola a vincere lo sconforto, a non lasciarsi vincere da una mortifera disperazione.

4.1. Ironia. Se rileggiamo l’intera notazione intitolata “Le cicatrici” (una delle pagine più riuscite del libro), dopo il già citato passo iniziale si trova scritto: “ora guardo questi segni sulla pelle e a distanza di anni mi rendo conto che son stati la mia salvezza. Ne vado fiera, non li nascondo più, rappresentano la mia vita, le mie sofferenze, ma soprattutto la mia guarigione, le mie vittorie. Perché vergognarmene? Anzi devo esserne orgogliosa. A volte ci scherzo sopra, l’ironia non mi manca mai, conto i punti totali raccolti, come i punti del supermercato, la tessera punti me la consegnano all’ospedale e il premio che ritiro è la vita” (pag.41)

Un altro esempio di quanto la protagonista sappia tenersi lontana da un approccio luttuoso all’esperienza del cancro è la perdita dei capelli, inevitabile marchio della chemioterapia. Il capitoletto, che porta l’esponenziale titolo di “Risate”, inizia con il ricordo di un “momento difficile”: “stavo per perdere i capelli, la tragedia di tutte le donne: confermo, quel veleno li faceva morire. Cadere al tappeto come foglie in autunno […] come quella ciocca scura volata via di colpo mentre la parrucchiera mi stava asciugando i capelli…” (pag.17)

“Momento difficile” subito ribaltato in un crescendo di liberatoria leggerezza: e in quel momento [la parrucchiera] mi ha fissata negli occhi e siamo scoppiate a ridere, me li ha dovuti incollare con la lacca pareva un’impalcatura, perché resistessero ancora un giorno, un ultimo giorno, per poter fare due foto alla cena del mio compleanno, solo quella sera poi li avrei salutati, i miei capelli. […] … quando i capelli stavano ricrescendo riccissimi e mi davano le sembianze del Cicciobello di colore che avevo da piccola, anche in quel momento, lei [l’amica Rita] con il suo fare comico mi prendeva in giro e io ridevo, ridevo a crepapelle. Quanto mi faceva bene!” (pag.17)

4.2. Trasgressioni. Rivolgendosi al suo cucciolo, il cane Sparky, nel finale del capitoletto a lui dedicato, l’Autrice ricorda: “I medici mi dissero: “mi raccomando Luana stai attenta, non baciare il cane e non farti leccare, sei debole stai attenta.” Ma appena sono tornata a casa ti ho riempito di baci, ho la foto come prova…” (“Il mio cucciolo”, pag.52)

Ecco dunque: ha ignorato un divieto, la protagonista che si autodefinisce “paziente, indisciplinata”, e che talora si permette qualche trasgressione: ma, lungi dal nuocerle, la violazione del divieto ha un effetto paradosso, ossia risulta decisamente terapeutico, in quanto soddisfa un bisogno profondo, il cui appagamento è però sconsigliato o proibito dai medici. È il caso dei tatuaggi. “Ricordo di aver fatto, mentre ero in attesa del trapianto, un tatuaggio di nascosto. No Luana non puoi farli né prima né dopo. Io cosa ho fatto? L’ho fatto sia prima che dopo.” (pag.30)

Ai tatuaggi è dedicato un intero capitoletto (pag.55): Luana ne ha due fatti identici, rispettivamente con Simona e con Rita, a suggello di un vincolo spirituale che la unisce alle due “amiche, quelle vere, quelle sempre presenti”; altri due tatuaggi immortalano momenti memorabili: “dopo la fine della chemio”, “prima del trapianto”. “I tatuaggi parlano”: la farfalla sulla caviglia rappresenta la libertà, e dietro il braccio sta “una chiave di violino con note musicali e un cuore a rappresentare la mia famiglia”.

Luana Ceruti citazioni
Luana Ceruti citazioni

Il viaggio è un’altra trasgressione che può liberare (momentaneamente ma in maniera molto efficace) dalla cattività ambientale e psicologica della malattia e dei suoi postumi. Il viaggio riscatta il malato dalla condizione di recluso e lo restituisce del tutto alla comunità dei viventi. Durante il viaggio la malattia appare tenuta ai margini di una vita che si vuole seguitare a condurre al di sopra del cancro. Eccola dunque a Roma “con la scorta delle amiche” in udienza dal Papa, perché “volevo trovare conforto, non so, qualcuno che potesse darmi la forza che in alcuni momenti veniva a mancare. Tutti mi hanno scoraggiata, ma io sono così, se mi pongo un obiettivo lo raggiungo a tutti i costi” (pag.21); eccola col marito Raimondo e il loro cane in Provenza, dove s’immerge nella bellezza rasserenatrice di un campo di lavanda: “quei campi di lavanda con il loro profumo mi facevano sentire libera, tutto era bellissimo, ho scattato una marea di foto… […] La foto che parla: io arrampicata sopra all’auto per scattare una foto al campo viola più bello che avessi mai visto. Se mi avessero vista i dottori, si sarebbero messi le mani nei capelli. (pag.22); e poi ancora col marito in Albania e anche in Grecia (dove Raimondo risolve una situazione che per lei poteva essere funesta), e a Firenze per il concerto di Ed Sheeran, e a Londra con l’amica Rita per festeggiare il primo anniversario del trapianto.

4.3. Il “contenitore”. Rita, Ramona, Simona sono le “amiche, quelle vere”, con cui l’Autrice condivide momenti di “sana pazzia”, come s’intitola uno degli ultimi capitoletti, che inizia così: “Ho deciso che la mia vita dev’essere circondata da persone positive. Le persone tristi, malinconiche, vittimiste non le voglio, tenetevele pure.” (pag.61)

Con le amiche si ride e si scherza, anche in videochiamata al tempo del Covid, quando per Luana la vita “sembrava un film girato nel futuro, noi i protagonisti “le categorie fragili”. Io ne facevo parte. Mi sentivo presa in causa ogni sera al telegiornale, tutti i giorni sentivo dire la stessa frase: “i fragili sono a rischio”. […] All’inizio la paura è stata tanta ma poi tutto mi risultava tragicomico.” (pag.37)

Assolutamente da leggere, quelle due gustose pagine intitolate Covid ne La ragazza della 9: un’ulteriore prova della vena umoristica della Ceruti (“l’appuntamento il sabato sera con il presidente del consiglio, da commentare in diretta in videochiamata con le amiche…”, con quel che segue); ma qui ho ricordato Rita e Ramona e Simona perché sono alcune tra le persone che nella vita dell’Autrice hanno fatto da “contenitore” nei confronti dei suoi disagi. Nell’ambito della sociologia e della psicologia questo termine designa uno o più individui e/o ambienti sociali che contribuiscono a rendere meno penose le difficoltà di una persona, attenuandone le amarezze e sostenendola nel suo percorso di vita.

La ragazza della 9 presenta un unico personaggio negativo, seppur sostanzialmente incolpevole. È Bettina, colei che dà il titolo al tredicesimo paragrafo: “Sicuramente di mente non sana, con già brutte esperienze familiari alle spalle. Ossessiva, maniaca, confusionaria, problematica, pessimista. […] Ansiosa da morire, indecisa sulle decisioni da prendere, e poi parlava, chiedeva, sempre in continuazione le stesse domande, io non la reggevo e mi sentivo pure in colpa. Poi ho capito che era una ragazza sola, molto sola. […] E la solitudine uccide. Io ho sempre avuto la grandissima fortuna di avere una famiglia che mi vuole bene e buone amiche che mi hanno sempre sostenuta”. (pag.25)

Si conclude con la medesima succitata affermazione (“la solitudine uccide” – pag.65) anche il capitoletto dedicato a “La famiglia Ceruti”: che è “una famiglia di matti”, ma elogiata senza se e senza ma, per il sostegno che tutti i componenti, ciascuno a suo modo, hanno saputo e voluto offrirle.

Il cancro si è manifestato nel 2004 (come detto nel secondo paragrafo, “Il mio cammino”, a pag.15), lo stesso anno in cui l’Autrice aveva sposato Raimondo. È un marito “borbottone”: durante le degenze – si legge nel capitoletto intitolato “Mancanze” – “mi mancava il borbottare di Raimondo, ma anche le sue coccole” (pag.27). Ma lui è sempre presente, anche nell’intera mezza giornata del trapianto, mentre attende di rivederla: “Raimondo che per 12 ore mi ha aspettata… non so chi altro avrebbe potuto reggere quello stress” (pag.23); è sempre premuroso, sempre efficiente ed efficace nel risolvere le inaspettate situazioni difficili della sua compagna. Un personaggio cui va non soltanto il saldo amore dell’Autrice, ma anche l’ammirazione di tanti lettori (e cinefili) bombardati da figure di maschi negativi, dispotici o addirittura sadici nei confronti delle loro compagne. A casa col marito la attende il cane Sparky (“frizzante, pieno di energia, intelligente, di piacevole compagnia” – mi traduce Google), che si merita un paragrafo tutto per sé (“Il mio cucciolo”) e che si fa amare anche da quanti comprendono e apprezzano il linguaggio canino: “Non mi ha mai abbandonata, mi ha sempre aspettata nei lunghi periodi di ricovero, lui è stato sempre lì ad aspettare che io tornassi. Come si muoveva quel codino al mio rientro! Batteva il tempo.” (pag.52)

Poi c’è il medico di base, definito già nel titolo del paragrafo a lui dedicato “Il mio secondo papà”: un diagnostico dotato di un ottimo “occhio clinico” e ammirevole per la sua umanità che fa di lui un esempio per quanti dovrebbero esercitare la professione medica secondo scienza e coscienza: “Ci vede lungo e quando tutti pensavano a una gastrite lui già sapeva che non era quello ma ben altro. Va sempre a fondo su tutto finché non ha delle risposte. […] Durante i ricoveri mi telefonava tutti i giorni e una volta dimessa passava a casa da me a farmi visita.” (pag. 57) Un “secondo papà” simpatico, che non è un superuomo ma risulta amabile per certe sue caratteristiche: “Quel suo parlare in dialetto piemontese mi fa scassare dalle risate, come pure la sua imbranataggine con la tecnologia. Quanto ridere quando ha scoperto cosa fosse wa [WhatsApp] e quando ha scoperto di avere una mail personale.” (pag.57)

5. Un libro che canta. Anche da quest’ultima citazione si desume il registro linguistico dell’Autrice: colloquiale, sciolto e disinvolto, vivace e accattivante per il lettore. È lo stile diaristico: che punta all’essenziale e al concreto, che rifugge dalla prolissità nell’espressione e nell’esposizione, che evita indugi patetici e digressioni descrittive di luoghi e persone. L’Autrice ha avuto anche un originale accorgimento: ha alleggerito la sua “patografia” riportando al termine di dodici paragrafi qualche verso tratto da canzoni italiane o straniere, in tema con l’argomento trattato. Sicché leggiamo pagine “patografiche” che però sembrano aver voglia di cantare e di farci canticchiare: “Senza fare sul serio/ come vorrei distrarmi e ridere” ( Malika Ayane, Senza fare sul serio); “Senza perdersi d’animo mai/ e combattere e lottare contro tutto” (Vasco Rossi, Vivere); “My life is brilliant, my love is pure/ I saw an angel, of that I’m sure” ( James Blunt, You’re Beautiful); “Mi chiamano con tutti i nomi/ tutti quelli che mi hanno dato/ e nel profondo sono libera/ orgogliosa e canto” (Fiorella Mannoia, Mariposa).

6. Un libro da vedere. Sulla copertina de La ragazza della 9 c’è un selfie dell’Autrice stessa: in primissimo piano, il dettaglio di una fronte femminile, sopracciglia e occhio con pupilla, il tutto semicoperto da lunghi capelli lisci e scuri. Osservando più attentamente, nella pupilla si vede riflesso qualcosa di indefinibile, che proprio per questo rende l’immagine molto intrigante e fascinosa.

Undici dei quarantacinque paragrafi de La ragazza della 9 sono accompagnati da disegni in bianco e nero. Alcuni sono stilisticamente essenziali e di chiaro rimando ai temi dei capitoletti; azzardo l’ipotesi che chi li creò – una persona davvero capace, come mi ha assicurato un amico competente in materia – abbia voluto farli assomigliare a quei disegni che una volta si trovavano sui diari scolastici, soprattutto delle studentesse. Qualche esempio: la mano che scrive impugnando una biro, il bicchiere (più che) mezzo pieno, l’immagine molto naif di una casetta in campagna, un cuoricino, un ingenuo “skyline ideale” di Londra, un grande “9” a chiusura di libro. Poi ci sono figure che si distinguono per una creatività grafica volutamente più fantasiosa e per una conseguente significazione simbolica più complessa: la bella chioma nera di un volto che è un vuoto bianco, un cuore realisticamente rappresentato ma dotato di ali… E al termine del paragrafo intitolato “Paura di morire 2” (pagg.47-48) ritorna l’occhio, non più inserito tra fronte e capelli com’era in copertina, ma disegnato a sé stante: nell’iride nera contiene un quadretto a sfondo bianco dove c’è, forse… una mano nera pronta a ghermire, forse… un sole nero in parte coperto (forse) da una nube bianca…

7. In conclusione…

7.1. Bildungsroman. È una parola tedesca che significa “romanzo di formazione”: un genere letterario imperniato sulle esperienze formative del protagonista che matura progressivamente il proprio carattere e la propria identità morale. La malattia grave è una condizione sconvolgente, ma può diventare un fattore di crescita e di maturazione personale: mette in “contatto con il limite, il dolore e la morte, può condurre al nichilismo e alla disperazione, oppure a un livello più alto di consapevolezza e di responsabilità”, come scrive il pedagogista Daniele Bruzzone dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Ricerca di senso e narrazione nell’esperienza di malattia, in “Encyclopaideia”, n.59, 2021, pag.31).

Luana Ceruti è una donna lucida e realista: non cede alla tentazione di rimuovere o minimizzare la sua condizione di malata; cosciente che la malattia è un elemento di disturbo che ha importanti conseguenze per la sua vita, ha saputo scendere a patti con le sue patologie e reinterpretare la propria esistenza alla luce della nuova situazione, affrontando i cambiamenti necessari, rivedendo priorità e obiettivi, maturando nuove prospettive di valore, trasformando i limiti in insospettate risorse: “voglio fare qualcosa di utile, qualcosa per gli altri. Voglio aiutare chi è in lista per un trapianto, chi dovrà fare il mio stesso percorso, voglio che queste liste di attesa si accorcino, voglio fare volontariato.” Aido faceva per me.” (pag.48)

È stata capace di prendere le distanze dai propri sintomi, di guardarsi dall’esterno con sorridente ironia; di dedicarsi a qualcosa d’altro rispetto a sé stessa: persone da amare, compiti da portare a termine, sfide a cui rispondere. Così ha saputo sottrarsi al vittimismo e al fatalismo che rende impotenti e depressi molti malati. La ragazza della 9 è dunque la storia della formazione di una giovane donna che appena ventottenne, a motivo di inaspettati serissimi motivi di salute fu ricoverata all’ospedale Molinette di Torino e che adesso (vent’anni dopo) è la “signora Ceruti”: impiegata, sposata, vicepresidente della sezione Aido della provincia alessandrina con il compito di informare e sensibilizzare sulla donazione di organi: Avevo vent’anni la prima volta che sono entrata in ospedale. Per tutti, medici, infermieri e personale sanitario ero “la ragazza della 9”. Effettivamente ero una ragazza della nove, perché la mia stanza era la numero nove. […] Oggi invece, ho quarantotto anni, quando vado in ospedale per sottopormi ai soliti controlli, per tutti sono la signora Ceruti e questo è bellissimo, in queste semplici parole c’è tutta la mia vita, ho infatti avuto il privilegio di invecchiare.” (pag.66)La signora Ceruti, la rompiscatole, la polemica, diventata tale anche grazie alle esperienze vissute in questi anni di malattia. La signora Ceruti, a dimostrazione che tutto è possibile, anche guarire.” (pag.67)

7.2. Exemplum. “A dimostrazione…”. Ecco: nel libro La ragazza della 9, la sua protagonista e i suoi “aiutanti” (medici, familiari, amiche, marito e cane) sono figure esemplari, non solo sul piano morale, ma anche su quello letterario. Infatti l’exemplum è un genere letterario, un racconto veridico in cui il protagonista, grazie a un determinato comportamento, ha raggiunto un risultato positivo. Narrare per persuadere e per rassicurare, scrivere una storia affinché il lettore malato sia indotto a imitare la forza d’animo, il coraggio, l’ironia e la volontà di mantenere positive relazioni familiari e sociali dell’Autrice – protagonista (“se ce l’ho fatta io ce la farete anche voi” – pag.54), e affinché qualcuno, dopo aver letto questo libro, si decida a firmare il modulo che lo ascriverà nel numero (purtroppo ancora esiguo!) dei donatori di organi.

 

Post scriptum. La ragazza della 9, il libro fatto da Luana Ceruti, oltre a “rifare la gente”, almeno persuadendo qualcuno a diventare donatore di organi, ha regalato momenti di felicità e di orgoglio ad un ultrasettantenne ex professore del liceo “Palli” di Casale Monferrato, che per cinque anni, dal 1991 al 1996, ha insegnato Italiano a un’allieva sveglia, tranquilla e diligente: Ceruti Luana, secondo banco nella fila destra.

 

Written by Vincenzo Moretti

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

OUBLIETTE MAGAZINE
Panoramica privacy

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.