“Paula” di Isabel Allende: romanzo denso come l’esistenza umana
Ieri sera, la terza che ho passato a leggere le tante pagine di Paula di Isabel Allende, romanzo autobiografico molto bello, molto pesante, molto vivo, molto letale, che non consiglio a chi è depresso quanto a chi vuol assistere in diretta allo sbocciare della propria malinconia.
Isabel Allende, sei una scrittrice che sa farsi voler bene. Sei anche molto carina e dell’altezza giusta: a Reggio Emilia si dice rôba cîna, rôba fîna: un che di piccolo è sempre prezioso. I monili sono per lo più minuscoli, intagliati, ridotti nelle misure e fanno sempre la loro inclìta figura. Tu sei circa un metro e mezzo, nonostante, a quanto leggo, i tentativi assurdi da parte dei genitori di farti crescere un po’ di più: per me la tua è l’altezza ideale. Altro detto mirato al problema (ammesso che sia tale): il vino buono sta nella botte piccola. Noi che non siamo tanto alti (anche se, rispetto a te, svetterei un po’) siamo più essenziali, più concentrati e occupiamo meno posto a letto…
Solo per azzardare una spiegazione sintetica del romanzo Paula (che tale è, pur essendo basato sulla realtà in un modo fin troppo sincero), riporto l’inizio dell’esergo: “Nel dicembre 1991 mia figlia Paula si ammalò gravemente, e poco dopo entrò in coma. Queste pagine furono scritte durante…” – la tua e la sua vita e ora le leggo durante la mia. Trattasi di correlazione, i fisici nucleari la chiamano entanglement: quando le particelle vengono a contatto fra loro, diventano, esistenzialmente, unite una all’altra, per tutta la loro, pur breve, eternità…
“Ascolta, Paula, ti voglio raccontare una storia, così quando ti sveglierai non ti sentirai tanto sperduta.” – io ho avuto dei pensieri simili quando la tua suddetta ammiratrice era senza coscienza a causa di una malattia che per fortuna risolta in un paio di mesi.
Le chiedi: “Dove vaghi, Paula? Come sarai quando ti sveglierai?” – e poi le rivolgi altre due domande che sono sempre lì, a pagina 15, per chi fosse eventualmente interessato.
In La fisica dell’immortalità, Franck J. Tipler, docente di fisica, ipotizza che, se a ogni stato di ogni particella fosse abbinata un’informazione (un bit), è ipotizzabile una Super Macchina in grado di riprodurre, a piacere, il Kósmos intero. Il saggio mi fece rimanere con lo sguardo sospeso e diffidente, ma ne fui ammaliato. Un Dio Riproduttore in VHS o simile (allora non esistevano manco i DVD) era affascinante. Che ne dici? Mi piacerebbe sapere se, in quella memorizzazione infinita, possa rientrare anche la vita onirica. Ho letto con emozione Il libro dei sogni di Jack Keroauc, che è fra i miei autori più cari, però le sue ricostruzioni, per quanto preziose, sono limitate. Folle come sono, io punto al Tutto! Non al Quasi. O Kósmos (Ordine) o Entropia (Disordine)! Anche se s’è poi scoperto che, localmente, ‘ste due tendenze universali, forse forse un poco collaborano. Chissà!
La quarta domanda che poni a tua figlia (la terza non la riporterò mai, nemmeno sotto tortura) è: “Avrai memoria o dovrò raccontarti pazientemente i ventotto anni della tua vita e i quarantanove della mia?” – e qui acquisisco finalmente la risposta che potrei dare a mio suocero Aniello (ieri 10 agosto sarebbe stata la sua festa patronale), che si chiedeva perché Ernst Hemingway avesse scritto Quarantanove racconti e non cinquanta, visto che c’era. Forse pensava alla tua età di ora! Ma è solo una piolata, tranquilla! va tutto bene!
A pagina 17 scrivi quasi un Vangelo (o Buona Novella, in quanto narrata da un Buon Messaggero): “… mi viene da pensare che se dò forma a questa devastazione potrò aiutarti e aiutarmi, il meticoloso esercizio della scrittura può essere la nostra salvezza.” – … che serve a passare il tempo in quella gattabuia che è la nostra esistenza. Ringrazio en passant il tuo traduttore dallo spagnolo Gianni Guadalupi per quell’ò accentata: così si scriveva quando andavo a scuola io. Tutto scorre, per fortuna e ahimè! ci fu un tempo in cui si diceva càlcare per individuare le rocce ricche di calcite, ma ora non si differenzia più col verbo che significa pestare coi piedi: per chi avesse dei dubbi ho in casa Il Piccolo Palazzi che testimonia a favore dei miei ricordi.
Qualcosa che scrivi di tua figlia (a proposito di un suo “… ritiro spirituale con le suore del collegio in cui lavoravi per quaranta ore alla settimana come volontaria aiutando bambini poveri…”) m’induce a cercare il suo visetto on line: lo trovo e non posso che ammettere che non potrebbe essere diversa!
“Da quel momento la vita si arrestò per te e anche per me, varcammo entrambe una misteriosa soglia ed entrammo nella zona più oscura.” – e io sono ora con voi, coraggio!
A pagina 29, usi due volte l’espressione “il mio passato”: che ora, ti giuro, fa parte del mio presente. Ma non accetto il tuo ragionamento: “… credo che il tuo non esista più…” – trattasi di una verità religiosa e indimostrabile finché non sarà messa in funzione la macchinetta di Tipler.
Le storie degli antenati raccontati da tua madre (che tipino dev’essere stato!) “furono la cosa migliore di quei tempi. Lì è nata la mia passione per il racconto, a quella memoria ricorro quando mi siedo a scrivere.” – e io, un po’ di tempo dopo, mi siederò a leggerti…
Mi turbi, allorché dici: “… risento sempre la stessa incredibile emozione dinnanzi al paesaggio, il passaggio della cordigliera delle Ande è scolpito nella mia mente come uno degli istanti di rivelazione della mia esistenza.” – ci credo, essendo rimasto anch’io abbagliato dalle montagne del Trentino Alto Adige e poi dalle più maestose montagnacce (così le chiama la mia amica Manuela) della Val d’Aosta. Voglio venire in Cile, a vedere tutta ‘sta meraviglia anche se so che tutto è relativo: forse pure il mio scombiccherato divano blu pare un prodigio per le formichine che lo stanno or ora valicando.
Dici poi che “… è come il viaggio della mia vita stessa.” – ognuna ha la sua, pure quegli imenotteri così pensano, forse.
“Nella casa di mio nonno…” – credimi che è così ovunque: “… i sogni si mescolavano…” – quel che cambia è la loro qualità, e la voglia che si ha di narrarli, e poi d’interpretarli.
All’inizio di un anonimo (cioè senza titolo) capitolo, a pagina 55, scrivi: “La vita di mia madre è un romanzo che mi ha proibito di scrivere, non posso rivelarne segreti e misteri fino a cinquant’anni dopo la sua morte, ma allora sarò già diventata cibo per pesci, se i miei discendenti eseguono le istruzioni di gettare le mie ceneri in mare.” – invia le tue coordinate alle mie, allora: così ci potremo dire tutto.
Una delle persone che più hanno influito sulla tua vita è “Zio Ramón” – il quale “era povero come un topo di sacrestia…” – ma assai motivato a vivere. Hai delle belle similitudini, davvero!
Un ricordo proustiano della pagina seguente ti dona poi “l’idea che l’abbondanza è a portata di mano, se la si sa cercare”.
Nel paragrafo successivo inizi a scrivere questo: “I ricordi della mia infanzia sono drammatici, come quelli di chiunque, ritengo, perché le banalità si perdono nell’oblio…” – ma mentre accadono alcune di esse paiono miracolose.
Tua madre, ti diede un quaderno: “Prendi, sfogati a scrivere, mi disse. Così feci allora e così faccio adesso in queste pagine…” – dopodiché affermi la solita negazione (piaciuto l’ossimoro?), che non riporto per principio. Ringrazia però tanto la tua Francisca Llona Barros, detta Doña Panquita!
Accanto al letto di Paula, il solito (pure degente) “don Manuel piangeva” – quell’altrui guaio lo aiutava a distrarsi dal proprio.
Incontri tuo genero e dici a Paula: “Com’è strana la vita, figlia mia! fino a poco fa io ero per Ernesto una suocera distante e un tantino formale, oggi siamo confidenti, amici intimi.” – non so se esiste in spagnolo il detto: Non tutto il male viene per nuocere – a cui però aggiungerei un solo.
Non racconto il metodo pazzesco che usate (come si legge a pagina 91), ma alla fine tu e tua madre potete dire “che il registro delle nostre vite è al sicuro dalla dimenticanza.”
L’episodio col “pescatore” mi colpisce tanto, forse troppo, per cui non ne dico nulla.
“Abbiamo concordato con il neurologo…” – questo riporto serve solo a dire al mio eventuale lettore che tu passi dallo ieri all’altro ieri e, d’incanto, all’oggi come se fosse una cosa normale. El tiempo es una ilusión – appena ho un attimo di tempo (!) ti parlerò delle teorie di Julian Barbour e di Carlo Rovelli. Magari te ne parlo de visu…
Il tuo amato “Willie” – anche la sua faccia l’ho cercata sul web – “… è un buon compagno nelle difficoltà”. Bene! A qualcosa serviamo, talvolta, noi ometti! E poi scrivi: “Piango di pena per te, figlia mia, ma credo di piangere anche di felicità per questo amore tardivo che è venuto a trasformarmi la vita.” – ancora: Bene! Continua così finché puoi!
“Oggi è morto don Manuel.” – il quale non potrà mai più commuoversi per Paula, per te, per Ernesto etc, a meno che… Chissà! Forse è meglio usare il corsivo: Oggi è morto don Manuel.
“Adesso che sono sola, i giorni si fanno più lunghi e le notti più buie. Mi avanza il tempo per scrivere, perché una volta compiuti i rituali delle tue cure non c’è più nulla da fare, tranne ricordare.” – e dici poco?
“Zio Ramón non ha ispirato nessun personaggio dei miei libri, ha troppa dignità e buon senso. I romanzi si fanno con dementi e villani, con gente torturata dalle proprie ossessioni, con vittime degli ingranaggi impalcabili del destino.” – Allegria! Penso però che tu abbia ragione, che sai quel che dici. Questo romanzo-verità, conterrà pure qualche fandonia, ma mi sembra abbastanza sincero. L’altrui comportamento falso lo chiamiamo ipocrisia, il nostro è colmo di bugie bianche.
Ti metti poi a raccontare storie ai tuoi giovani consanguinei: “Ogni notte, quando vi mettevo a letto, mi davate l’argomento o la prima frase, e in meno di tre secondi io fabbricavo una storia su misura; non ho più goduto di quell’ispirazione istantanea, ma spero che non sia morta e che in futuro i miei nipoti riescano a risuscitarla.” – anch’io ne ho ideate ad hoc a uso di mio figlio Michelangelo, e poi trascritte, e ci sono ancora, immagino, in un qualche sconsolato cassetto. Quando ci incontreremo, se vuoi, ti narro quella di Loreta e Coccodè.
Scrivi: “… e per quel senso tragico proprio della mia famiglia pensavamo al peggio…” – è una bella tattica ma, specie se la questione si annerisce sempre di più, ricordati del detto di mia madre: piânşer fa trî, réder fa trî, il risultato rimane lo stesso. Facile in linea di principio, eh?
A pagina 156 si capisce (a metà) l’epilogo di quello che vivesti a pagina 110: comunque sia, che quello strambo tipetto riposi in Pace, se può! A pagina 163 dici a Paula una cosa che sogni: “… e ti burlerai di me con quell’ironia con cui usi demolire i miei sentimentalismi.” – questo ti auguri: fortemente!
Lessi due autobiografie di sudamericani: Vivere per raccontarla di Gabriel García Márquez e Confesso che ho vissuto di Pablo Neruda. Pare che il primo, che tanto ho amato per il suo Cent’anni di solitudine, fino alla fine dei suoi giorni abbia avuto dei problemi ortografici (lo dice lui, nel suo libro), che tu ammetti talvolta per te: e che alla fine, almeno tu, hai superato. Sento che la grandezza di un artista prescinda da certi suoi difettucci: ci pensano poi i loro correttori di bozze ed editorialisti. Neruda lo conosco poco, se non per quel libro di memorie, che non me l’hanno reso troppo simpatico. Né trovo piacevole quello che ti dice a pagina 181. Pablo ti definisce “la peggior giornalista di questo paese” – ma lo fa con simpatia, anche perché poi t’invita a diventare una scrittrice di romanzi, ché quello gli è parso il tuo destino. Guarda te, mi tocca pure ringraziarlo! Io, che finora l’avevo considerato un umano impettito come un tacchino! ¡Mil gracias!, mi Pavito, pardon: Pablito!
Grazie a te, Isabel, a pagina 186 scopro che “… Augusto Pinochet, un oscuro militare di cui nessuno aveva mai sentito parlare, amico e compare di Prats, che giurò di rimanere legale alla democrazia…” – fu nominato da Allende stesso. Ma non sarebbe cambiato nulla a scegliere qualcun altro. Come dice in un suo monologo il comico Enzo Iacchetti, chi comanda il mondo lavora in smart morning, comodamente sprofondato in una poltrona. Questa gentaglia decide le sorti del nostro disgraziato pianeta. Non tanto i loro scagnozzi.
Alterni la storia della tua vita (rispettando, anche se non in modo rigido, la cronologia degli eventi) a quella del rapporto che stai avendo (mentre scrivi) con colei che ora non ti può più rispondere.
Paula è ammalata di porfiria, malattia così terribile che, solo a cercarne la definizione nel web, fa già sentire male. Paula, che è sempre a letto, oppure seduta su una carrozzina, non dà segni di vita, respira ma non reagisce quasi per nulla di quanto le viene detto o fatto: oppure sì, ma le sue espressioni sono così minime che sgomentano soltanto.
“Ho tentato di rilassarmi e di respirare con te, al tuo stesso ritmo, imitando ciò che fanno Celia e Nicolas nei corsi di parto naturale…” – ma tutto ciò non sembra dare alcun risultato.
Poi narri di quell’“11 settembre 1973” – che non si saprà mai se la data dell’attentato alle torri gemelle, occorso esattamente 28 anni dopo, fu identica per caso, o per destino. Occorre soltanto provare pietà per tutte le vittime di quell’orrore che è (inevitabilmente?) l’uomo. Si chiude in tal modo la Parte Prima.
E inizia ora la Seconda. Le date di riferimento sono mirate al fatto di Paula e non a quelli del tuo paese e della tua ormai lunga esistenza. Tra il ‘91 e il ‘92.
“Il 23 settembre 1973, dodici giorni dopo il colpo di Stato, morì Pablo Neruda…” – povero ragazzo, mi sento in colpa per certe mie ironie cercherò e leggerò qualche tuo volume di poesie, caro, e mi farò perdonare.
Posso riportare un breve tuo pensiero? Sai, a volte mi sento ipocrita!: “La selezione della specie non è servita a far fiorire l’intelligenza o a far evolvere lo spirito, alla prima occasione ci dilaniamo l’un l’altro come topi prigionieri in una gabbia troppo stretta.” – Amen e Così sia!
A pagina 224 ritorna in ballo quel fatto di cui parli a pagina 110 e a pagina 156 e che sicuramente ha segnato la tua vita. Ti sono molto vicino, cara, credimi! Spesso parli dello scrivere e io mi nutro delle tue osservazioni. A pagina 228 spieghi: “I figli, come i libri, sono viaggi all’interno di noi stessi in cui il corpo, la mente e l’anima mutano direzione, si volgono verso il centro stesso dell’esistenza.” – sono gli agenti della nostra memoria. Non so se anche a te capita: io cerco di portare i miei consanguinei nei luoghi della mia giovinezza, per esempio una città in cui, quarant’anni prima, ero avvolto dalla Naja esistenziale. Capitò nella candida Trieste e poi subito dopo a Sgonìco (ove rivissi insieme a mia figlia Anna e a mia sorella Mariagrazia l’emozione che provai decenni prima nella Grotta Gigante).
Concludi pagina 229 con questa frase: “Silenzio prima di nascere, silenzio dopo la morte, la vita è puro rumore fra due insormontabili silenzi.” – Nietzsche scrisse che la vita è un ponte fra due nulla! Però, dico io, quel Nulla è foriero (si spera!) del Tutto…
“Prigioniere, siamo entrambe prigioniere in questa brutale parentesi.” – e come finirà il libro, vi lascerò? Sì, necessariamente lo farò. Ma sarò sempre, in qualche modo, accanto a voi due! A te e a tua figlia Paula!
Incontri “un pittoresco agopuntore giapponese” che, dici: “… mi riservo di inserire come personaggio in un romanzo, se mai tornerò a scrivere narrativa…” – una nota enciclopedia on line mi assicura di sì: tornerai a farlo!
Alcune cose che narri di te, della tua sessualità mi fanno esclamare (fortuna che sono solo in casa!): come sei sincera, Amore Mio! Sei una donna passionale, sì, ma capita, dai! Sarebbe peggio essere gelida come un lingotto d’oro lasciato a covare per decenni a meno duecento gradi sotto zero! Se ne trovassi uno usando dei guanti termici, lo infilerei immediatamente nella stufa!
Pagina 256 ottiene il record stagionale di segni (miei) di matita. Parli ancora della tua scrittura! Riporterò soltanto una frasetta dorata, da te messa giustamente in corsivo: “quando scrivo racconto la vita come mi piacerebbe che fosse, come un romanzo.” – io ami inseguire le vie che ancora non ho percorso, questo sia quando leggo che quando scrivo e pure quando cammino da solo.
“Forse la vecchiaia è un altro inizio…” – parliamone. Chissà! Forse hai ragione!
A pagina 258 parli del “vizio dell’innamoramento” – avendo già dato anche troppo, a quell’epoca, beh, anch’io. Si tratta di una stramba malattia, penosa sia quando ti coglie (sempre un po’ impreparato), sia quando ti pare d’essere (illusoriamente) guarito… Due pagine dopo definisci Paula una “ragazza rósa dall’ostinazione di imparare: prendeva i migliori voti a scuola…” – e faccio il paragone con mia figlia Anna: sento che dovrà prima o poi leggere ‘sto tuo tragico librone. Deciderà lei, però!
A pagina 261 scrivi che, in Venezuela, “mi mancava solo di parlare con accento caraibico…” – il che mi suggerisce la solita banalità: per una sudamericana, immagino non ci siano differenze fra chi parla parmigiano o reggiano… oppure modenese! Come disse, un po’ ghignando, Albertino, tutto è relativo! A fine pagina proponi una metafora che evito accuratamente di trascrivere. Mi reca pena, ma la vita è questa. Occorre andare avanti, soli o quasi. Ma è quel quasi che ci salva!
Tu sai essere tremenda! Il gesto taumaturgico che descrivi a pagina 266 meriterebbe un Vaffan… Non so che ti avrei detto e fatto se fossi stato al posto di Michael. probabilmente t’avrei gettato addosso un sacco di cose brutte, senza però toccarti, credo.
Scrivi che, a tua figlia “è stato stroncato lo slancio quando cominciava a chiedersi il senso delle cose, e mi ha lasciato l’incarico di trovare la risposta.” – credo che la tua sia un’immaginazione: non te l’ha lasciato lei, te lo sei preso tu perché non potevi fare altro… Era anche questo destino…
“Sono una zattera senza timone che naviga in un mare di pena…” – e poi ti lanci in alcune metafore: esse sole ci restano fra le grinfie, quando ogni cosa pare sfuggirci.
Una curiosità: parli del “Capodanno 1981” – in cui ti prepari ai tuoi primi 40 anni. Forse che dalle tue bande si festeggia il nuovo anno col numero del vecchio?
Quello che scrivi a pagina 273 di “Cervantes” mi fa rabbrividire: “… aveva scritto il Don Chisciotte con la penna di un uccello, alla luce di una candela, in prigione e con l’unica mano che gli rimaneva.” – quando si dice che si fa di necessità virtù…! Tre pagine dopo parli ancora di Neruda: lo devo proprio leggere, sennò mi ammalo! Affermi: “è l’argomento a scegliere me, il mio lavoro consiste semplicemente nel dedicargli abbastanza tempo, solitudine e disciplina perché si scriva da solo.” – facile a dirsi, nevvero?
Parli del tuo martoriato Cile: l’uomo è senz’altro la bestia più atroce: lupus lupi homo!
“Il problema della finzione è che deve essere credibile, la realtà raramente lo è.”: basta questo per consegnarti alla storia (della finzione stessa).
La mia consanguinea maggiore giura che sei una scrittrice sublime. Comincio a crederle.
A pagina 302 ripeti per la terza volta “il monito di zia Ramón: ricordati che gli altri hanno più paura di te.” – e ora io lo trasmetto ora ai miei 823 lettori.
Differenzi, nella pagina appresso, fra “romanzo” e “racconto”: non è che sia del tutto d’accordo, ma apprezzo il tentativo. Per me è un romanzo quando il protagonista va a letto la sera e si sveglia la mattina. Ma anche la mia è solo una mezza sciocchezza.
Bellissimo è questo: “Se scrivo qualcosa temo che accada, se amo troppo qualcuno temo di perderlo; eppure non posso smettere di scrivere né di amare…”
E no! A pagina 307, ancora citi Pablito… ok! Ho capito! Entiendo! Stasera cercherò un suo libro! A pagina 319 c’è L’Epilogo! Ciao Paula! Salutami chi sai tu!
Conclusione: la mia consanguinea maggiore ti adora ma non sa se leggerà mai questo tuo libro (più no che sì, ma può sempre cambiare idea).
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Isabel Allende, Paula, Feltrinelli, 1996