The Rumble in the Jungle: il famoso match dello Zaire, l’attuale Congo

Il 30 ottobre 1974, nell’ex Congo del terribile Mobutu, il campione del mondo dei pesi massimi George Foreman sfida Muhammad Alì per un duello che l’istrionico organizzatore Don King pubblicizza con queste parole: “un combattimento fra due negri in una nazione negra, organizzato da negri e visto dal mondo intero; questa è una vittoria del mobutismo”. Le stesse parole impresse sugli innumerevoli cartelli verdi del governo, disseminati sulla strada che da Nsele conduce alla capitale Kinshasa.

The Rumble in the Jungle Muhammad Alì
The Rumble in the Jungle Muhammad Alì

Il match, che verrà per sempre ricordato come “The Rumble in the Jungle”, ispirerà un episodio della serie cinematografica Rocky e il famoso romanzo di Norman Mailer “La Sfida”. 

Joseph Désiré Mobutu aveva fatto le cose per bene. Il Presidente fondatore della nuova rivoluzione congolese, settimo uomo più ricco del mondo, voleva cancellare dall’immaginario occidentale la vecchia Leopoldville conradiana evocata in “Cuore di Tenebra”: nessun Kurtz occidentale avrebbe dovuto sentire mai più l’esigenza di guardare nelle tenebre del proprio cuore e gridare all’orrore del colonialismo senza scrupoli.

Quel 30 ottobre 1974, allo stadio XX Maggio di Kinshasa, costruito per l’occasione The Rumble in the Jungle, tutto il mondo avrebbe assistito a un evento indimenticabile, motivo di orgoglio per un paese e una moneta preziosa da conservare nel salvadanaio dell’iconografia di un intero continente. Il campione del mondo dei pesi massimi George Foreman avrebbe sfidato Muhammad Alì, in un duello che l’istrionico organizzatore Don King aveva pubblicizzato con parole che sembravano un guanto di sfida lanciato all’occidente, queste: «Un combattimento fra due negri in una nazione negra, organizzato da negri e visto dal mondo intero; questa è una vittoria del mobutismo”.

Le villette bianche del quartiere residenziale Nsele, intonacate e sistemate per l’occasione dietro a mura di cinta decorative, riservate alla stampa e agli ospiti occidentali, avrebbero rappresentato il biglietto da visita della propaganda di regime, nascondendo la realtà della Cité, la città interna, dove i nativi vivevano in labirinti di fatiscenti botteghe e squallide stamberghe. Don King, un ex fuorilegge che a sorpresa era riuscito ad accaparrarsi l’organizzazione dell’incontro, promise agli sfidanti una borsa di cinque milioni di dollari ciascuno, garantita da Mobutu attraverso la tesoreria dello Zaire.

Preso il potere con un colpo di stato il 25 novembre 1965, Mobutu, che si autodefinisce “Padre della Nazione”, con lo sguardo ammiccante della CIA in breve tempo instaura un regime fra i più corrotti e sanguinari a memoria d’uomo. Fonda il Movimento Popolare Rivoluzionario, unico partito politico legalmente riconosciuto, e cerca di raggiungere la chimera di un nazionalismo basato sul raggiungimento dell’indipendenza economica, punto d’arrivo di una africanizzazione che voleva tagliare i ponti con tutto quello che poteva richiamare al colonialismo e agli orrori di conradiana memoria.

Vengono sostituiti i nomi delle città di origine belga, come pure tutti i nomi di origine cristiana, a favore di quelli della tradizione indigena. Mobutu chiama lo stato Zaire[1] e non più Congo, lui stesso diviene Sese Keko Ngbendu waza Banga, ovvero “Guerriero irresistibile, che andrà di conquista in conquista lasciando il fuoco dietro di sé”. Il dittatore riesce a riunire in un solo partito gli aspetti oppressivi del comunismo con quelli peggiori del capitalismo. Famoso in Zaire per essere uno stregone, aveva un pigmeo personale come feticheur, evocatore di spiriti. Mobutu, come tutti i paranoici di successo, da Hitler a Stalin, grazie al suo carisma diffonde un contagio psichico che porta un intero popolo ad asservire la sua lucida follia. Ossessionato dai complotti, è attentissimo ai dettagli; l’esercito è la base del suo potere, ma viene accuratamente evitato che i generali possano essere al comando di truppe della loro stessa tribù. Viene imposto ai militari l’uso del lingala, la lingua nazionale, evitando l’utilizzo dei vari dialetti locali, in modo da scongiurare possibili ribellioni tribali. Tutti gli oppositori vengono brutalmente uccisi nelle loro abitazioni, e i corpi dei più rappresentativi esposti per giorni nelle pubbliche piazze. Si calcola che poco prima di morire, dopo essere riparato in Marocco nel 1997 a seguito dell’irresistibile avanzata delle forze democratiche per la liberazione del Congo, il suo patrimonio personale fosse stimato in 4 miliardi di dollari, pari al debito estero del suo paese.

Eppure, in quegli anni Settanta, il suo Zaire rappresentava la grande speranza dell’Africa, ed era un polo di attrazione per gli investimenti stranieri.

Don King, nella migliore tradizione americana, definì la sfida con una locuzione che entrò nella storia del pugilato ma non solo: “The Rumble in the Jungle”, il terremoto nella giungla, e il ring, una volta di più, si dimostrò luogo d’elezione per l’allegoria.

Alì si era autoproclamato campione del panafricanismo e si presentava come l’ideale liberatore di un intero continente; nei “Walls of Respect”, i murales del rispetto e dell’orgoglio nero che nelle città americane erano espressione del movimento delle arti visive e che rappresentavano gli eroi della cultura nera, Muhammed Alì veniva raffigurato insieme Malcom X, John Coltraine, Marcus Garvey, Charlie Parker e James Brown. 

Nel mondo del cinema, erano gli anni dei film blaxploitation, genere interpretate da attori afroamericani e destinati a un pubblico di colore, le cui trame evocavano la rivincita black nei confronti di una società americana ancora contagiata dalla piaga razziale.

A Kinshasa, proprio nel cuore dell’Africa nera, Alì, obiettore di coscienza durante la guerra del Vietnam, paladino del Movimento per i diritti civili e, per un certo periodo, vicino a Malcom X e al movimento di liberazione dei Black Panthers,  avrebbe incrociato i guantoni con Foreman, il pugile che, dopo aver vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Città del Messico, aveva sfidato le proteste a pugni stretti del Black Power sventolando la bandiera americana e invocando il potere degli Stati Uniti. Insomma, sul quadrato di un ring il simbolo dei diritti violati della gente di colore incrociava i guantoni col rappresentante del più bieco colonialismo. Foreman era il favorito, aveva sette anni in meno del rivale, ed era arrivato a Kinshasa solo con l’idea di conservare il proprio titolo. Era sceso dall’aereo con Dago, il suo pastore tedesco, e questo fu il suo primo errore, dato che i pastori tedeschi evocavano ai congolesi i cani utilizzati dai colonizzatori durante la tirannia di re Leopoldo, per terrorizzarli. Il secondo errore fu sottovalutare il suo avversario.

Il match The Rumble in the Jungle, a causa di una ferita subita in allenamento da Foreman, aveva subito un rinvio di un mese rispetto alla data originariamente stabilita del 25 settembre. Il contrattempo aveva inizialmente spiazzato Mobutu che, per celebrare adeguatamente l’evento sportivo, aveva pensato di organizzare un grande spettacolo musicale, invitando artisti del calibro di James Brown, BB King, Miriam Makeba e Manu Dibango. Per evitare il fallimento della kermesse, il dittatore decise di rendere gratuito l’ingresso allo stadio, e lo spettacolo rappresentò uno dei più leggendari concerti svoltosi nel continente africano.

La notizia del rinvio fu ben accolta dal clan di Muhammad Alì. Il clan di Alì temeva Foreman, specie dopo averlo visto battere Joe Frazier a Kingston, in Giamaica, il 22 gennaio del 1973, quando, in solo due riprese, l’ormai logoro “Smoking Joe” fu messo al tappeto sei volte da Foreman che, nell’occasione, aveva dato un terribile dimostrazione di forza. Il texano di Marshall, che arrivava alla sfida con un record di imbattibilità che durava da 40 incontri, di cui 37 vinti per ko, si era sbarazzato, sempre in due riprese, anche di Ken Norton, “l’ercole nero” di Jacksonville e mandingo cinematografico nell’omonimo film, che aveva a sua volta battuto Alì, fratturandogli la mandibola, in un incontro disputato a San Diego il 31 marzo 1973.

Durante le settimane che precedettero l’incontro “il labbro di Louisville” diede inizio a una strategia di comunicazione con l’obiettivo di demolire le certezze del campione in carica. Alì dette sfogo a tutto il suo talento istrionico, ipnotizzando gli ingenui africani con la sua spavalderia. Tutta quella fiducia in se stesso, le sue proverbiali iperboliche autoesaltazioni, erano percepite come qualcosa di soprannaturale dai nativi, tanto da indurli a pensare che le forze della magia fossero al suo comando.

Durante un allenamento, in uno degli interminabili giorni che precedettero il match, Alì si fece atterrare più volte volutamente dal suo sparring partner, il futuro campione mondiale Larry Holmes, salvo rimettersi in piedi ogni volta con lo sguardo spiritato. In uno di questi stand up, si rivolse all’interprete chiedendogli di esortare il pubblico che assisteva a bordo ring a urlare qualche incitamento. E gli spettatori non si fecero pregare, urlando “boma ye”, uccidilo, secondo la lingua locale, Quell’invocazione divenne il tormentone di ogni allenamento di Muhammad Alì, aspirante stregone.

Dal canto suo, Foreman non smentiva la fama di atleta impenetrabile e poco loquace. Uscito da un’adolescenza problematica segnata da problemi con la legge dovuti al suo carattere rissoso, salvato dalla boxe e pronosticato vincitore da tutti gli addetti ai lavori, il texano era in quel periodo nel massimo del suo vigore e negli ultimi incontri aveva dato una devastante dimostrazione di forza, tanto da meritarsi l’appellativo di “Marciano nero”. Il suo strapotere fisico, unito al carattere diffidente e scontroso, non ne faceva un campione di simpatia per il grande pubblico e, soprattutto, celava una fragilità emotiva che il suo avversario aveva intuito.

Alle operazioni di peso, la sottile guerra psicologica di Muhammad Alì raggiunse l’apice, e le sue continue provocazioni portarono a una rabbiosa reazione di Foreman, trattenuto a stento dal suo entourage.

Finalmente arrivò il grande giorno. Si sfioravano i 40°, l’umidità era insopportabile. L’orario del match fu stabilito per le 04:00 del mattino, per evitare l’afa ma soprattutto per consentire agli americani di assistere, in un orario consono, alla diretta televisiva dell’incontro. Tutto lo Zaire aveva atteso l’evento da mesi e quel 30 ottobre quasi centomila spettatori assiepavano gli spalti dello stadio, ben lontani, però, dall’avere una visuale decente dell’incontro, che si svolgeva al centro di un campo di calcio, con una tettoia che proteggeva il quadrato e i duemilacinquecento posti a sedere a bordo ring da un acquazzone tropicale sul punto di scatenarsi, visto l’inspiegabile ritardo della stagione delle piogge.

Foreman indossava scarpe bianche, pantaloncini di velluto rosso, con una striscia verticale bianca e una banda blu in vita, i colori della bandiera americana. Alì, in scarpe e pantaloncini bianchi, appariva molto tranquillo. Quando l’arbitro Zack Clayton li fece avvicinare al centro ring, si assistette a un pre-match molto significativo: era la cosiddetta guerra degli sguardi, il momento in cui ciascuno dei due pugili cercava di intimorire l’altro. Inaugurato da Sonny Liston anni prima, questo rito faceva impazzire il pubblico che poteva vedere i due contendenti, fermi a centro ring, letteralmente sfiorarsi, lo sguardo fisso sull’avversario in una dichiarata guerra psicologica.

In un’atmosfera quasi sciamanica, con i centomila che cantilenavano allo sfinimento “Alì boma ye”, il match The Rumble in the Jungle durò otto riprese durante le quali si assistette a un unico ripetuto copione: Foreman che colpiva o cercava di colpire uno sfidante che “non c’era”, che pareva sottrarsi alla sfida, rendendosi per quanto possibile imprendibile. Le serie di colpi rabbiosi al corpo e al volto venivano incassati, oppure evitati, da un Muhammad Alì in costante atteggiamento passivo e rinunciatario, tattica che aveva l’evidente intento di sfibrare e sfiduciare il detentore del titolo.

Da parte dello sfidante non mancarono le provocazioni verbali, che sortirono l’effetto di innervosire ulteriormente Foreman: “sei un debole”, “pensavo che i tuoi pugni fossero più potenti”, “sei finito”, alcune delle frasi sussurrate al rivale. Alì per l’occasione affermò di aver inventato una nuova tattica denominata rope-a-dope, che consisteva nell’appoggiarsi con la schiena alle corde proteggendosi il volto, in modo da sfiancare l’avversario. Era in realtà una banale tattica difensiva, ma “Il labbro di Louisville” riuscì a farla passare per un suo brevetto.  Poi, nel corso dell’ottava ripresa, come se si fosse d’un tratto svegliato da un apparente torpore, Alì sorprese l’esausto Foreman con una combinazione veloce di destri e sinistri e, al grido di “Alì boma ye”, urlato da migliaia di africani eccitati, con un formidabile gancio sinistro tenuto in serbo per tutta l’incontro mise al tappeto il detentore del titolo, atterrato per la prima volta in carriera. L’arbitro contò Foreman, che non riuscì a sollevarsi, e decretò la vittoria di Alì per ko.

Il match The Rumble in the Jungle, a cui si ispirerà anni dopo Silvester Stallone nel suo Rocky 3, segnerà nel fisico e nella mente entrambi i pugili.

George Foreman attraverserà un lungo periodo di depressione, dal quale uscirà con molta fatica. Tornerà a combattere solo due anni dopo, quando affronterà Ron Lyle, in uno dei più selvaggi incontri a memoria d’uomo. Foreman vincerà per ko, pur essendo stato atterrato più volte. Dopo un radicale cambiamento interiore causato da una esperienza di pre-morte, George Foreman si ritirerà dal ring. Sarà ordinato ministro di culto, e aprirà un centro per il recupero per bambini disadattati. Rientrerà clamorosamente nel circuito a trentotto anni, riuscendo a riconquistare il titolo di campione mondiale all’età di quarantacinque anni, per poi ritirarsi definitivamente tre anni dopo, nel 1997, all’età di quarantotto anni.

Muhammad Alì, all’epilogo di una straordinaria carriera iniziata con la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma, continuerà a combattere perdendo il titolo nel 1978, battuto da Leon Spinks. Tenterà la riconquista due anni dopo, a 38 anni, in sovrappeso e fuori forma, e verrà sconfitto dall’astro nascente Larry Holmes, suo ex sparring partner a Kinshasa. Si ritirerà l’anno successivo, dopo un match perso malamente contro Trevor Berbick, di 14 anni più giovane. Poco dopo gli sarà diagnosticato il morbo di Parkinson.

Quando quindici anni dopo, ad Atlanta, completamente vestito di bianco e in preda a un evidente tremolio, accenderà la torcia olimpica e commuoverà il mondo mostrando la propria fragilità e, in quell’occasione, vincerà forse il round più importante della sua vita. Era un Alì ferito, impacciato, ma la testa e lo sguardo erano sempre dritti. Si spegnerà il 5 giugno 2016, all’età di 74 anni.

Muhammad Alì è considerato il più importante peso massimo della storia della boxe, ed è stato nominato migliore sportivo del Novecento.

“Se ne è andata la parte più grande di me”, dirà George Foreman, appena saputo della morte del grande rivale.

 

Written by Maurizio Fierro

 

Note

[1] Zaire è parola che non deriva dai vari dialetti indigeni ma ha origine portoghese. Nessuno ritenne mai il caso di evidenziare il particolare a Mobutu.

 

Bibliografia

Norman Mailer, The Heat, Feltrinelli

Kasia Boody, Storia della boxe, Odoya editore

 

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