“Perché il vento era nero” di Savina Dolores Massa: nel mirto di acerbe bacche viola

Perché il vento era nero. Evocativo e inquietante il titolo dell’opera di Savina Dolores Massa edita da Il Maestrale nell’aprile dell’anno in corso.

Perché il vento era nero di Savina Dolores Massa
Perché il vento era nero di Savina Dolores Massa

Dopo l’attraversamento del globo e la lunga sosta a Parigi dei suoi ultimi romanzi l’autrice getta il suo sguardo incantatore su un piccolo lembo della nostra terra che si fa subito mondo. Per quella sua inesauribile universalità in cui il contingente diventa infinito, l’introspezione si fa scala di satira sociale, l’amore sposa in unione indissolubile il dolore, i fantasmi del passato e del presente si ridisegnano in poesia di parole e di immagini.

La magia illusionistica dell’autrice fa ergere, accanto a un vecchio binario, oltre i ruderi di un antico portale oggi inutile guardiano di lussureggianti erbacce, la magnifica villa ottocentesca “lascito, con la clausola di ricovero di mendicità, alle suore del sacro costato da parte di un certo Vandalino Casu onorificato cavaliere a vita conclusa.”

In spazi sovvertiti dalla dimensione onirica ove bellezza e inferno degli oppressi, i due termini del binomio camusiano, si fondono in un’unica realtà, ci si sente risucchiare da vortici e peripli inimmaginabili

Con una potenza di scrittura sempre più difficile da eguagliare in un panorama teso alla rassicurazione della banalità.

Un tessuto fitto di monologhi, flussi interiori, sogni, bizzarrie, vizi umani, grandi e piccole bugie rivela quanto sia “esangue la verità accanto alla menzogna.”

Soprattutto se quest’ultima sgorga dalla penna di un inizialmente misterioso narratore che nasconde sotto un temperamento fumantino la necessità di soccorrere personaggi con il “singhiozzo al cuore”.

E rivendica lo stupore allucinato, un tormentato rapporto con il mondo, il caleidoscopico sprigionarsi di lapidanti definizioni. Nonché la necessità di affondare in lussureggianti scenari di possibile umanità.

L’alveo immaginifico della poesia e il ritmo dissacrante della farsa si mescolano in geometrie di ritmi spesso cruenti e blasfemi, impulsi egotici e istinti auto protettivi. Ma anche sottili palpiti di tenerezza e stupore. In cuori e braccia pronti ad accogliere e liberare.

L’ingranaggio della storia, costruita con precisione assoluta su una assoluta anarchia, è infatti modulata sui difficili meccanismi della farsa classica, capace di dare leggerezza e portare con sé, nel profumo antico di un canto mimato, tutta la luce, l’oscurità e la complessità dell’esistenza. Dentro e fuori il baratro del dolore.

Pantomime ritmate da percussioni sonore si snodano attraverso movenze istrioniche dirette con maestria da gesti imperiosi.

L’enfasi degli eccessi sa dunque di lacrime clownesche, mentre mostra ferite e slabbrature dell’animo umano. Senza tacere le contraddizioni e gli inganni della psiche, in un continuo attestare e negare l’amore, ad ogni pagina, ad ogni immagine

Ed è per questo che si piange e si ride, in un continuo alternarsi di dubbi e sberleffi per tutti i detentori di verità.

“Per imparare a non morire a causa del troppo vero.”

Intrecci, sorprese, invenzioni, colpi di scena resi più colorati da sussulti della sintassi e ardimenti del lessico emergono dal gioco di tante voci, tante cronache dell’interiorità spesso in falsetto, da febbrili gestualità.

Ci investono in un fuoco di lapilli, tasselli di un unico magmatico mosaico, frammenti che via via si intrecciano, si mescolano, si scontrano, esplodono e poi si raccolgono e si uniscono nell’unico nucleo di una iridescente perla barocca. Quel che Savina è.

Pensiero incarnato, espressione di una corporeità che produce vibrazioni sottili e rivelatrici luminosità tra simboliche epifanie di realtà durissime.

Perché le emozioni sono gioco di sensi. E viaggiano tra vista e udito, colori, forme, suoni e timbri.

La paura ha un odore, l’innocenza un profumo, un sentore agrodolce l’amore.

Nessuna certezza in questo teatro dell’assurdo, gioco tragicomico in quella partita a dadi con la morte che è la vita.

Mentre grammatica e sintassi della finzione acrobatica pongono interrogativi radicali si propagano autentici incendi nella coscienza dei lettori.

E brucia, ma in nero, la notte in cui ha origine la storia raccontata in questo libro.

La vicenda de Perché il vento era nero incrocia gentiluomini benefattori dell’umanità nati dal parto di una poesia e dodici piccoli orfani, di cui solo due, Tomaso e Lisabè, sopravviveranno a un maldestro tentativo di fuga per inseguire un treno.

Infine un manipolo ridotto di suore, sei per l’esattezza, spedite in esilio dal convento sotto la direzione di una Dolores degli angeli tradita dalla vita, mentre affoga il desiderio “di cecità al proprio cuore nel mirto di acerbe bacche viola…”

Tutto ha inizio, dicevo, in una notte nera. Nera nonostante una luna perfetta, nonostante una nebbia molto pallida. Perché il vento era nero. 

Nero sul quindicesimo compleanno di Lisabé, sul nero dei suoi orecchini di ossidiana, sulle rotaie di un treno. E su un cavallo baio compagno di sogni e malasorte.

In quella che poche pagine prima, o dopo, era l’esatta metà del 900.

Non c’è dubbio fosse autunno “perché a quei baldi tempi nessuna stagione usava rubare un giorno all’altra.” Ma il narratore è mendace, si sa, lo dichiara.

E quale fosse la stagione, l’ora, l’anno, il Tempo, questa volta scritto con la maiuscola perché dotato di cuore, ritiene superfluo imbastirlo

Siamo di fronte a un cancello sigillato, frontiera di ghisa tra due dei tanti mondi al mondo.

Basta un istante e quei due mondi deflagrano. In un silenzio nero che neppure una campana innamorata riesce a rompere sforzandosi invano di ancheggiare.

Da quegli istanti terribili nel tempo, stavolta senza T maiuscola, sarebbero nate nelle campagne di Aristanis, seminate dal dolore silenzioso e testimone dei contadini, cespugli “con bacche di lacrime così trasparenti da risultare invisibili…”

Solo alla fine lo sapremo: “Il tempo è… un arcobaleno incarcerato in una stanza.”

Aristanis dimenticherà in fretta, ma in quel mondo da allora sigillato la memoria ha scritto una storia con bava di lumaca.

Perché nella marcescenza del sottosuolo non si decompone, “cammina sui tetti dove il vento costruisce per essa nidi di ramoscelli incontrati nel viaggio.”

Invisibili ai più, non a coloro ammalati di sofferenza alle retine che già hanno imparato a proteggerla, guerreggiando coi cervelli desiderosi di inganni e di comandi.

Collusioni poetiche nascono da retine malate, per svelare, ri-velando. A occhi appannati dalla presunzione di verità.

Perché, come dicono i versi di Savina: “Non è opportuno conservare la lucidità/ né iridi di matematica perfezione… rinascere dagli occhi/ può essere vagito/ quanto calcolo nuovo per finzione. E occhi appannati dalla presunzione di verità…”

L’opera Perché il vento era nero è dedicata ai dottori degli occhi dell’autrice; e sclere, retine, palpebre dominano tra le pagine dove si procede per visioni e allusioni simboliche, talvolta per folgorante ed enigmatica oscurità, in una continua fioritura di impulsi.

Viene in mente l’esordio poetico di Magrelli, “Ore serrata retinae”.

Ma qui non si tratta di indagare sul rapporto intellettuale tra visione e realtà, qui, mi sembra, si delinea una personalissima geografia dove si entra solo con l’immaginazione, una sorta di seconda vista capace di indagare oltre la tridimensionalità. Per scendere in ogni anfratto, risalire le più aspre e più insperate verticalità. In un piccolo universo circoscritto che è sempre e comunque davvero il centro del mondo, assediato dalla storia di un tempo ricco di tonache.

Tra preti, frati, vescovi e suore in preghiera verso le innumerevoli chiese, conventi, basiliche… dove una Eleonora scalza calca le orme di donne violate, tra i cunicoli che nascono sotto una chiesa dai muri d’arenaria, in un abilissimo gioco di inganni disegnati in sottile filigrana, in musica da controcanto, la memoria ha lasciato la sua orma sottile ma indelebile.

E tutto un mondo di bellezza si erge, a disturbare un presente inerte e inerme.

Pagine bellissime in cui il corpo di Lisabè si confonde con quello della mitica Bellanna, e tra muggini in volo e anguille dagli occhi di brace sfilano figoli, canestrai, fabbri.

E possessività di uomini.

E umiliazioni di un femminile costretto a rifugiarsi in una maternità da quadro sacro.

Bimbi figuranti del dolore tra chi sta al buio e chi si gode il cielo.

E la boria iconoclasta di Oristano per tutto ciò che fu.

Ma…  “forse fa comodo così, a volte il passato quanto il presente, disturba il futuro…”

Vediamo vite segrete sprigionarsi tra faglie che si aprono e assestamenti veloci a richiuderle.

Savina Dolores Massa citazioni
Savina Dolores Massa citazioni

Nell’inganno di false memorie quale irraggiungibile conferma del proprio essere al mondo.  Talvolta tradite dall’unico ricordo certo.

Tra gli oscuri e misteriosi presagi di una natura capace di commuoversi, tremare, trepidare, arrendersi o vendicarsi. Un universo materico dove la storia è ferita e freccia verso un futuro che sentiamo tra noi.

Se ogni scrittore ha il suo mestiere, quello di Savina è decisamente la poesia.

Alla quale ancora una volta è chiesto di essere resistenza e rispetto per l’umanità, in storie che sempre raccontano l’essere umano, la sua forza e la sua fragilità, la generosità infinita e l’aridità del cuore. Le paure, la fame inestinguibile e inestinta di felicità e amore.

L’amore negato, sognato, calpestato.

In un dove in cui ogni oggetto palpita di attese deluse. Anche un legno con destino da credenza.

Abbiamo già visto la penna di Savina, protesi di un’anima, volteggiare tra mille arabeschi, distruggere a colpi d’ascia, incidere in punta di bulino. Ma sempre, come la magica bacchetta di un direttore d’orchestra, sottolineare la stratificazione e la libertà di una scrittura poetica anarchica e antiretorica. In una fusione di immagini e musicalità dalle tensioni le più diverse. Che scivoli o bruci, caustica, esploda in risate crudeli o si stemperi in divertente ironia, sempre ci stordisce aspirandoci in vertiginose climax dalle percussioni incalzanti e “sacrileghe”.

Il corpo della strega.

Corpo nella strega quale luogo del sapere, unico autentico in una società che uniforma e uccide ogni respiro ribelle.

Una sola richiesta: stare nudi di fronte alla realtà.

Un’unica consapevolezza: l’immaginazione “sa essere capestro perfetto, nave spersa in un mare senza sale, rancore verso chi le ordina il silenzio, vento nero intento a fissare la crudeltà.”

 

Written by Anna Maria Capraro

 

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