“Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa: non fargli mai capire che ti hanno ferito
Susan Abulhawa è nata da una famiglia palestinese in fuga dalla sua terra dopo la Guerra dei Sei giorni.
I suoi primi sei anni li ha vissuti in un orfanotrofio a Gerusalemme poi, da adolescente, trasferitasi negli Stati uniti, ha completato le scuole, si è laureata in scienze biomediche e ha avuto una brillante carriera nell’ambito della medicina.
È rimasta sempre legata alla sua Terra attraverso i racconti e i ricordi dei suoi familiari e ha scritto molti saggi e racconti sulla Palestina. È anche fondatrice di una associazione che si occupa dei bambini dei Territori occupati.
Di questa scrittrice avevo già letto “Nel blu tra il cielo e il mare” ed ero rimasta affascinata dalla sua scrittura, dalla sua pacatezza nel raccontare tragedie che in alcuni Paesi sono la realtà quotidiana.
Visti gli eventi che sono accaduti in questi mesi ho voluto approfondire la mia conoscenza in merito a questo popolo e alla sua storia proprio attraverso un romanzo che, pur usando nomi di fantasia, racconta una vicenda realmente successa, come scrive anche l’autrice nelle sue note.
“La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza fa piangere le pietre.”
In “Ogni mattina a Jenin” (Feltrinelli, quattordicesima ristampa gennaio 2024) Amal è la nipote del patriarca della famiglia Abulheja ed è attraverso la sua voce che conosceremo l’abbandono della casa dei suoi antenati nel 1948, durante la prima nakba (catastrofe) che vide diventare profughi più di 700000 palestinesi a cui fu negato il diritto di ritornare nelle loro terre.
Ci narra la tragedia dei suoi fratelli costretti a diventare nemici in quanto uno, rapito da neonato, diventa un soldato israeliano, mentre l’altro consacra tutta la sua vita alla causa palestinese.
In parallelo c’è la vita di Amal, la sua infanzia, gli amori, i lutti, il matrimonio e la maternità e il desiderio di raccontare questa storia a sua figlia perché continui il ricordo non solo delle traversie della loro famiglia, ma anche le vicende di un popolo intero perché questa storia diventa quella delle famiglie palestinesi e dà voce a chi voce non ha.
“La sopportazione diventò una caratteristica distintiva della comunità dei profughi. (a Jenin) Ma il prezzo che pagarono fu l’annientamento della loro dolce vulnerabilità. Impararono a esaltare il martirio. Solo il martirio offriva la libertà. Solo nella morte potevano essere invulnerabili a Israele. Il martirio diventò il rifiuto supremo dell’occupazione israeliana. ‒ Non fargli mai capire che ti hanno ferito ‒ era il loro credo.”
L’autrice non cerca i colpevoli di tanto dolore fra gli israeliani che, anzi, spesso descrive con pietà e anche con rispetto, piuttosto mette in risalto la storia di tante vittime che sono state capaci di andare avanti grazie all’amore per il proprio popolo, per la propria Terra e per la vita stessa.
Written by Beatrice Benet
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