“A scuola non si muore” di Gaja Cenciarelli: il killer è parte integrante della vittima?
Leggo A scuola non si muore di Gaja Cenciarelli e non mi capacito: sono forse io l’assassino? O lo è la vittima? O lo è chiunque, lettore, scrittore, editore? Che lo sia ogni homo sapiens?
Se non esiste una perfetta innocenza non può nemmeno prospettarsi l’idea di un’esaustiva colpevolezza. Ognuno è un crogiuolo di candore e di delinquenza, perennemente indagato e giudicato dall’Altro.
“Ma Croci è solo pettegola, rompicoglioni, ignorante, volgare, invadente, stupida…”: perciò è da eliminare? O è da proteggere, come lo è, ecologicamente, una rara specie di serpe?
La protagonista de A scuola non si muore è Margherita Magnani, insegnante di inglese, una persona così ricca di umanità che continuamente deborda da lei, anche e soprattutto se non è il caso. È amata dagli studenti e da questi è protetta, come se fossero i suoi tutori, e lei la discente.
“Per spiegare Keats, Margherita si sta inerpicando in una scalata tra il livello preconscio del linguaggio e l’attualità della parola.” – e io che credevo che John fosse principalmente un creatore di mantra del tipo: A thing of beauty is a joy for ever…
Margherita è una prof di inglese, non scordiamocelo, come lo è pure la Gaja autrice. La quale è una persona simpatica. Questo m’è parso di intuire allorché la scorgo accettare con serenità le ilari provocazioni dell’amica Chiara Valerio, editor-in-chief (così definita nel primo telematic uncle in cui vado a sbattere) di Marsilio.
Dopo aver ascoltato i due spezzoni della pseudo-intervista, ne esco come frastornato, senza che mi sia fatta un’idea del romanzo A scuola non si muore. Meglio così: me la farò vivendo.
Se c’è un genere letterario in cui lo spoiler dev’essere perseguito a norma di legge è il thriller. Ascoltando l’intervista, mi rendo conto di quanto ignorante io sia. Fra gli autori citati dalle due amiche conosco appena Agatha Christie, la quale diceva che normalmente si ammazzava per tre motivi. Alla fine scopro che, nel caso in parola, non c’è stato né furto di preziosi né conato di vendetta né passione amorosa. Semmai tanta rabbia, la quale è la più egocentrica delle esagerazioni sentimentali.
Mi limito a dire (ma devo stare attento a quel che scrivo) che il colpevole appare ogni tanto, come per caso, quasi fischiettando. E che, quando confessa, pare lui la vittima più tragica. Anzi: lo è, poverino…
Vorrei chiedere alle due solidali quanto conoscano dell’opera di Cornell Woolrich, il mio più amato noir-man, nonché lo scrittore che ho più temuto. Lui sì che era colpevole di tanti attacchi cardiaci!
Siamo in una scuola dove esistono due specie di adulti: i professori e gli studenti dell’ultimo anno. Sto leggendo, al contempo, Lasciate che vi parli di foglie di Stefano Sturloni – Educatori e bambini alla scoperta di un mondo insospettabile (probabilmente innocente, ma non ci giurerei). Ogni tanto Stefano inserisce, mischiate alle foto, dei disegni fatti da bimbi in età prescolare, di età media di 4,56282 anni.
Ecco quel che quasi manca in questo romanzo di Gaja: l’innocuità ingenua, di chi sta scoprendo un mondo, ergendosi in punta di piedi. Unica, essenziale, eccezione è forse lei: Margherita Magnani.
Un’altra idea dedotta dalla sturlonesca lezione: chi ha rapporti col mondo, in primis l’insegnante, deve mantenere vivo la propria eterofillia, che è la tendenza a creare, a difendere e a diffondere la varietà, il carisma che ogni allievo, collega, operatore scolastico dovrebbe recare insieme a sé.
La foglia è parte integrante dell’albero. L’albero è parte integrante della foglia. La foglia si diversifica dalla pianta. La pianta si diversifica dalla foglia. Ognuna di esse è l’altra, essendone, in tutto e per tutto, la conditio sine qua non.
Ognuno di noi è strettamente collegato a chi gli è limitrofo, anche se pare talvolta divergere. Il killer è parte integrante della vittima, ed è anche vero il contrario.
In ‘esta scuola de’ Roma ognuno calza scarponi da marcia bellica, giberne psicologiche, munizioni, e una o due bombe a mano. Crescendo, ogni persona fa sfoggio della sua personale perfidia. E tutti quanti, a partire da Gaja, Chiara, Margherita, me, l’assassino e le tre vittime, nessuno è escluso.
“Hanno più corazza loro a diciotto anni che quella donna più che adulta, che conosce la letteratura ma ha qualche problema a far pace con la vita.” – ecco un’altra figura crudele: la propria esistenza.
L’“omicidio” è una disgrazia che colpisce il colpevole, più ancora che l’assassino: “Bisognerebbe trovare le parole giuste per spiegarlo, per chiarirlo, ma non è facile. Nominare qualcosa di spaventoso vuole dire depotenziarlo, circoscriverlo. Spesso la traduzione, anche quella dei pensieri in parole, è un mestiere in perdita.” – ma io non sono per nulla d’accordo. Si tratta di uno reciproco scambio di massa e di energia, come quello che avviene fra le stelle doppie. Scrittore, eventuale traduttore e lettore sono tre tipi a caso che interagiscono, avvolti nel più buio dei misteri. Newton rinunciò a definire i dati dell’interazione di tre o più corpi. Quel che ivi succede è cosmologicamente elaborato e ordinato dalla Natura, non da una sua timida propaggine.
I calcoli del più geniale degli studenti, tale Ferzetti, che si leggono intorno a pagina 104 de A scuola non si muore, sono un insieme di inclìte sciocchezze che rendono il suo discorso tanto intrigante… Vanno perciò lette in quanto partecipano a quel crimine che è il Kaos che va a confondere il Creato.
Margherita è innocente (questo lo scoprono per primi i ragazzi e poi il lettore) – “… ma la voce le trema. Lei ha paura della polizia.” – anch’io ero così quando capitava che nell’uffiicio presso cui lavoravo spariva per caso (o per necessità?) un portafoglio.
La scrittura di Gaja è gaia, simpatica, caciarona nei dialoghi, molto romana… Mi ammalia il suo troncare le parole, inaspettatamente, come avviene nel mondo reale, nella vita di ogni dì: “… se mi raffredd-”, “… preven-”, “… Indagand-” – il togliere la parola al prossimo è un crimine comunemente accettato nella vita quotidiana, allorché si cerca di prevalere sull’Altro, impedendo se stessi di ascoltare compiutamente il discorso altrui.
Margherita così definisce l’ambiente scolastico: “… ecomostro…”. Una diagnosi, non so quanto azzeccata, è che: “La scuola è più efficace e indolore della menopausa nell’addomesticare gli ormoni.” – essendo un incrocio dove uno è tenuto a scegliere fra la verginea castità e il delittuoso meretricio: chissà se in misura maggiore che ogni altro ambiente umano. Dove gli astanti giudicano, in attesa di essere giudicati: “Marco dice che…” – “Daniele dice che…” – “Sofia dice a…” – e via discorrendo… e criticando…
“Lei è sempre in anticipo, purtroppo.” – sugli orari decidi per gli appuntamenti. Come la capisco, anch’io da svariati decenni sono affetto dalla sindrome di Rolando, resa celebre da mio padre, che m’ha trasmesso ‘sta bieca forma d’ansia che l’Altro perda del una parte suo tempo ad attendermi, e così io amo sacrificare (con gioia) il mio.
Averla avuta una prof come lei!: “La Magnani gli fa ciao con la mano e dopo avergli scoccato un sorrisone si allontana.”
E lei è una che urla, quando è il caso: “Mettete via quei telefoni se volete evitare le pene corporali!” – per cui “La classe scoppia a ridere. ‘E aprire il libro. Oggi introduco Virginia Woolf’.” – la quale scrittrice non ci sta tutta all’interno di una provetta, tanto è immensa e sguizzante. Qualcosa poi accade e tutto si conclude senza più accadere: “Niente Virginia Woolf, niente stanza tutta per sé”.
Una mezza identificazione: “Se lei fosse stata un maschio e più giovane di tre decenni e passa, di sicuro sarebbe stata Ferzetti.” – questo capita quando un se di troppo t’ostacola la tua esistenza.
A pagina 205 de A scuola non si muore, colgo 6 volte in 10 righe il cognome del collega “Lavorino” – se c’entrasse Agatha Christie il lettore potrebbe pensare a lui come al colpevole, salvo ricredersi ventitré pagine dopo, per poi, infine, confermare la prima impressione nel corso delle ultime 3 pagine. Con Gaja non so come butti, non la conosco ancora bene.
Posso dire che la parola “Dies” da subito mi ha dato un input diverso da quello intuito in primis (!) da tutti? Non esiste inglese che, per quanto zotico, non ponga sempre un soggetto davanti alla forma verbale. Sul fatto che quella della perfida Albione sia “La più morta fra le lingue vive” – beh, qualche healty doubt me lo tengo ben stretto: I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving, hysterical naked…
Anche la Magnani sa essere intollerante e volgare, se ci si mette, quando crudamente afferma: “Che merda che sei…” – e, subito dopo: “Sei il padre di tutte le merde.” – in pratica un deretano.
L’incontro fra la mite Margherita e quel romanaccio bartender, mi fa ricordare quella volta che, tossendo malamente, sparsi tre quarti di cappuccino (uno dei peggiori mai assaggiati) sul bancone e quell’aspro barista, che non era di certo ispirato dal Metodo Montessori, così mi gracidò addosso: Ma che! M’ha sporcato tutto! – io credo che i Romanacci dovrebbero essere protetti dall’Unesco.
E un solo grido si leva nell’aria: Sora Lella Santa Subito!
“Comunque io me chiamo Pietro, piacere.” – non esiste romano che, almeno un paio di volte al dì, non si ricordi d’essere un’anima gentile e (quasi) leggiadra; nonché uno psicologo: “Te c’hai troppo da fa’ a fatte del male da sola, nun c’hai tempo pe’ ammazza’ l’altri. Ma che ne sanno questi.” – e in ‘sta riga ho colto l’unico refuso del bel tomino: der male, s’ha da scrivve!
A pagina 242 e 243 de A scuola non si muore si torna a parlare della sindrome di papà. C’è tanta umana incomprensione per noi umani sofferenti: “Margherita sa che i collaboratori scolastici odiano i professori che arrivano in anticipo.”
A pagina 251 colgo un virtuosismo: “M’ ch’era la t’zia?” – e poi, appena un po’ dopo: “Scusa, stavo masticando…”.
L’autrice è una che ama gli idiomi! Nonché le frasi storiche (tragicamente sognate): “E la scuola è ovunque ci sia un ragazzo.”
Ecco un’altra perla: “Il ‘se’ è una porta socchiusa, è quella saracinesca che si alza a poco a poco, è l’orrore.” – e qui mi viene in aiuto il poeta, da me vilmente trasfigurato: l’orrore si sconta vivendo.
Spiega l’assassino, a pagina 287: “Ho ammazzato tre persone perché…” – perché così gli dettava er core, forse anche la cistifellea e il pancreas. Uno delle tre vittime pare fosse gay. Per cui mi viene da dire che una delle rare prove dell’esistenza di dio è il liquore del finocchino selvatico, che intendo qui celebrare. Me la potevo pur risparmiare! Ma è andata!
“… ‘Normalità’. Che parola inutile e sontuosa.” – ogni ossimoro, per quanto celato, contiene una briciola kósmica.
A pagina 308 Margherita si chiede quale sia la sua eventuale “paura” – io potrei risponderle con un placido Non lo so mica!
Per ultimo vorrei dire qualcosa sul termine “hybris” che una futura vittima, a pagina 224, usa per indicare la “Magnani”. Hybrĭd significa bastardo, chi porta il basto, che poi sia un mulo, un bardotto, un ciuccio o un cavallo nulla cambia. L’importante è che lo rechi sulle spalle.
This is the burden to bear, che ogni insegnante (due ne ho avuto in famiglia e so quel che dico) deve reggere sulle sue curvate spalle. Diversamente, è meglio che cambi professione.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Gaja Cenciarelli, A scuola non si muore, Marsilio, 2024