“Un bene al mondo” di Andrea Bajani: imparare a vivere nonostante il dolore

Un racconto illuminante, sottile e così profondamente sagace da trasformare il dolore in un prezioso bene al mondo.

Un bene al mondo di Andrea Bajani
Un bene al mondo di Andrea Bajani

Senza un tempo preciso e con una ripetizione di gesti, il libro “Un bene al mondo” di Andrea Bajani avanza come una fiaba attraverso un susseguirsi di echi che fanno della narrazione un potente specchio della vita interiore che ‒ sebbene con situazioni dai particolari più diversi ‒ assomiglia a quella di ognuno di noi. Il racconto pone al centro un bambino con il suo cucciolo di dolore, del quale infatti, siamo tutti “portatori sani”.

Quel fanciullo crescerà attraversando consuete situazioni esistenziali, incontrerà difficoltà non lontane dall’ordinario e si trasfigurerà presto in quell’uomo che scrive alla fine del libro: un uomo devoto che imparerà ad usare la pagina bianca come catalizzatore di quel dolore, facendo di essa un fiume che scorre, in cui concedersi di lasciarlo andare.

E chi può dirlo, se quell’uomo che scrive ‒ così sì del resto traspare sul finale ‒ sia proprio il nostro l’autore che tenta di passarci la sua testimonianza.

Bajani utilizzando uno straordinario potere evocativo, compone una delicata allegoria della sua vita a singhiozzi, rendendoci testimoni di una partecipazione attiva rispetto al rapporto che intercorre tra l’essere umano e il suo dolore.

La sua rivelazione dolce-amara è, alla fine, che dal dolore non c’è scampo: perché la verità è che per inoppugnabili ragioni il dolore lo incontriamo da piccoli ed esso ci accompagnerà negli anni. Come qualcosa però, che se sia capaci di ascoltare, può anche indicarci la strada da seguire, facendosi esso stesso interprete e portavoce dei bisogni più intimi che ci animano.

Una volta in seduta di analisi, chiesi alla mia analista, che cosa significasse la sanità di mente. Lei mi diede l’approssimazione di una risposta sorprendentemente rivelatrice. È sano, non già colui che sta necessariamente bene, ma colui che viaggia sul medesimo asse del tempo. Che in altri termini significa accettare di incontrare la realtà ‒ con il dolore che essa comporta ‒ evitando di radicarci in un pensiero che lungi dall’essere razionale, ci porta a credere di poterlo evitare con meccanismi di controllo o, viceversa, di non poterlo affatto sostenere, inducendoci a sentirci vittima di ogni dolore che incontriamo. Se vogliamo veramente imparare a vivere, dobbiamo farlo nonostante il dolore. Dobbiamo lasciare che l’Io abbatta le sue difese. Che apra le porte alla dimensione del cuore. Che scenda da quella poltrona notarile che lo conferma in una posizione di regalità, per concedergli di sgranchirsi le gambe e farsi le ossa, camminando fuori, sulla stessa strada dei suoi stessi severi esattori. A chiedere pegno sono le forze prime dell’esistenza: il tempo, la morte, le contraddizioni del reale, le sue negazioni, i suoi strappi, i tradimenti, i traumi ecc.

Il dolore c’è e deve essere considerato. A questa verità, l’autore accosta però, un’altra potente rivelazione: ovverosia che il dolore non solo non ci esenta affatto dalla possibilità di essere felici, ma è una grazia ricevuta perché è come un portale da cui possiamo imparare a filtrare la luce. Solo dobbiamo smettere di rapportarci alla vita con l’autarchica di cui vorremmo la chiave ed affrettarci ad avere cura del dolore, a trattarlo bene ed accudirlo, proprio come fosse un cucciolo di cane.

Un bene al mondo”, è a mio avviso, una garanzia epistemologica del dolore. Un libro capace di convertire queste riflessioni in un delicatissimo balsamo di parole. Bajani parla infatti del dolore facendo scorrere sul foglio un serie continua di meravigliose metafore, suscitando stimoli costanti a delicate e profonde riflessioni. La più vincente e insieme più tenera metafora che l’autore poteva a tal proposito trovare, è quella che fa del dolore un’imprescindibile fondamentale primo dell’esistenza:

“Così come il bambino era un cucciolo di essere umano, il dolore era un cucciolo di dolore. Aveva il pelo corto e gli occhi che chiedevano tutto. Per questo il bambino lo accarezzava e gli dava tutto quello che aveva.”

L’autore, grazie ad un abile tocco d’arte, riveste l’indissolubile legame tra la vita umana e la presenza del dolore, di un’affettuosa relazione amica. Indicandoci in questo modo ‒ con questo “eroe-bambino” che funge da esempio positivo ‒ anche la strada da percorrere: che è principalmente proprio quella della cura. La vita del bambino si presenta come “affetta” da un dolore comune, ancor cora docile e giovane, ma comunque segnata dalla sua indubbia partecipazione. L’esistenza di quel bambino si svolge nell’anonimato di un paese qualunque, in posto nel mondo qualunque. Qui ci sono montagne, una scuola, una piazza, un cimitero, un bosco, ed una ferrovia che segna il confine oltre il quale il mondo non ha più occhi per il bambino.

Fin dall’inizio quindi, con un luogo “che non stava da nessuna parte”, l’autore marchia volutamente la fiaba della preminenza aspecifica del dolore. L’assenza di particolari in cui il dolore si colloca è intimamente connessa alla natura stessa del dolore, che invero risulta totalmente indipendente da qualsiasi “buona causa”, sorgendo spontaneamente anche in assenza di quei presupposti che giudicheremmo razionalmente validanti. Come a dire: il dolore accade ed è di tutti.

La vita del bambino scorre dentro la semplicità di una casa, che lui però chiama cubo, perché di essa sente tutte le pressioni e l’insondabile claustrofobico schiacciamento che ne deriva. Lì infatti vive con i suoi genitori, una madre vuota e un padre invece, fin troppo pieno del suo spaventoso ed ingombrante dolore. Si potrebbe dire che vivessero tutti prigionieri dell’apatia della madre e del brutto dolore del padre. E che anzi loro, del tutto inconsapevoli del dolo, gli avessero anzi tempo affidato il peso di quei dolori che non riuscivano essi stessi a portare. Infatti quando il bambino nacque, nonostante fosse un giorno di mezza estate e tutti i suoi esami dicevano che era in buona salute, la mamma non produceva il latte.

“… all’inizio aveva provato ad offrire il seno al bambino ed il bambino ci si era attaccato. Solo che il seno era vuoto e quindi era solo il vuoto quello che il bambino beveva dal capezzolo di sua madre […]”.

Così i medici fornirono dell’altro latte alla madre ed il bambino riprese a mangiare, ma lei era molto stanca, dormiva tutto il giorno e non gli sorrideva perché era infelice, sicché “… il terzo giorno gli lasciò in serbo il dolore, gliel’aveva messo dentro la culla metallica e poi aveva ricominciato a dormire.”

Il bambino si affezionò presto al suo dolore. Insieme trascorsero anni felici, andavano a scuola ogni mattina, giocavano nei boschi, attraversavano la piazza sfuggendo agli sguardi degli altri bambini e si accoccolavano insieme a letto quando veniva la sera.

Il cucciolo di dolore che il bambino accudiva, non solo era bravissimo a tenergli compagnia, ma fu eccezionale anche nell’intercettare ciò di cui il bambino aveva tanto bisogno. Fu infatti grazie al suo dolore che il bambino scovò la bambina sottile e scoprì, pian piano, la misura dell’amore che lo avrebbe appagato. La comparsa sentimentale della bambina sottile, si caratterizza come un altro grande veicolo del valore che l’autore sottoscrive al dolore. Il bambino fu attratto e folgorato da quella bambina, perché lei, fra tutti ‒ compresi i suoi genitori ‒ fu l’unica che si accorse del suo dolore. Capitava che il bambino transitasse nella piazza assieme al suo dolore e che, di fronte alle panchine affollate da altri bambini, venisse ignorato o che ancor peggio, i bambini scagliassero parole contro il suo dolore.

Un giorno invece, “… una delle bambine invitò il dolore ad avvicinarsi”. Lo chiamò piegandosi in avanti ed offrendogli il palmo della mano. Era il gesto sicuro di chi l’aveva già fatto altre volte e, insieme una specie di istinto”.

La bambina “… era alta come il bambino ma così sottile che sembrava dovesse spezzarsi. Guardava sempre dritto negli occhi, perché era solo lì che sapeva guardare. Così fece con il bambino e così fece con il suo dolore.  […] fu facile fargli sentire anche il calore di quella mano. Disse al bambino che era morbido, che il suo pelo era il più soffice che avesse mai accarezzato. Poi lo prese tra le braccia, lo strinse con gli occhi chiusi, e dopo poco lo rimise giù”.

Dopo quell’intesa, quella squisita sensibilità ricevuta, il bambino potette confidare nel suo dolore, che lui “la riconoscesse e le andasse a scodinzolare vicino”. È in questo modo che l’autore ci palesa che se da un lato la presenza del dolore è capace di isolarci e di animarci di un oscuro sentimento di solitudine, dall’altra, ci apre a quel “sentire” necessario che crea legami e inaugura l’amore.

I rapporti umani importanti, gli amici che possiamo contare sul palmo di una mano, quel colui o quel colei che rappresentano la nostra misura vincente dell’amore, hanno a che fare con questo: non hanno paura del nostro dolore, sanno viceversa avvicinarlo e prendersene cura. Si calano nel tessuto intimo, si saldano in un incontro complice di dolori che danzano e si nutrono del loro affiatato e tenero gioco.

Del resto è proprio in virtù di quel dolore “colpito” che scuote e chiama, che il bambino va a cercare la bambina sottile per il paese e, viceversa, è la famigliarità al dolore della bambina sottile, che le consente di riconoscere quello del bambino e di farsi avanti.

Non è un caso poi che, proseguendo nella lettura, scopriremo che la bambina sottile da allegra compagna d’infanzia, oltre la distanza e le difficoltà, resterà un inscalfibile e dolce, seppur doloroso ‒ per via della separazione ‒ ricordo.

Si trasformerà nel destinatario invisibile di un’infinità parole, di lettere spedite e talvolta mai ricevute. La sua figura, resterà per il bambino negli anni avvenire un messaggio sbiadito in tasca, come un pezzo da collezione cui appare impossibile di separarsi, come un rimando, un’eco cui attaccarsi. La sua figura sarà anche più di tutto un mezzo di paragone grazie al quale il bambino imparerà a discernere e a riconoscere la sua forma specifica dell’amore, sarà desiderio capace di fornirgli la chiave della propria personale ricerca.

L’amore del resto, non sempre si corona con il marchio dell’unione tout court tradizionale, “nel vissero per sempre felici e contenti”. Talvolta nella vita, le situazioni e le circostanze, ci impongono la distanza, spingendoci a compiere scelte faticose, ma necessarie.

Il bambino infatti dovette scegliere di partire, di spingersi oltre quel confine che non aveva occhi, per farsi grande e redimersi da quel penoso dolore che lo imprigionava dentro la casa dei suoi genitori. Del resto “se il dolore che uccide non è quello degli altri ma il proprio, tutti si chiudono in casa”.

La madre ‒ lo abbiamo detto ‒ si era chiusa in casa perché era vuota. Ella aveva per paura di vivere, soffocato e seppellito il suo dolore, relegandosi in un’esistenza priva di vita. Aveva scelto di abitare in una fondata roccaforte, aveva scelto una vita sicura, ma fatta principalmente di tristezza e negazione. Il padre invece aveva per qualche ragione trascurato il suo dolore a tal punto, da ritrovarsi a vivere in una gabbia interiore, in preda alle sue frequenti crisi. Il dolore era diventato talmente grande e cattivo, che era per lui impossibile contenerlo. Prendeva così facilmente il sopravvento da fare spavento e mutava le sembianze in qualcosa di tremendo: qualcosa che noi, con la giusta parola, chiameremmo piuttosto rabbia.

“[…] tutti i giorni e tutte le notti il dolore del padre si lanciava contro la porta. Erano quei colpi sordi a battere il tempo dentro la casa.”

Il bambino si era dovuto abituare a prendere in considerazione il dolore del padre, in quanto lui, appellandosi al famigerato “dovere di figlio”, gliel’aveva proprio messo in mano, sottoponendo il figlioletto ad un peso ‒ che si direbbe così per ogni figlio ‒ troppo opprimente ed inadeguato.

“Il padre consegnò al figlio il proprio dolore un tardo pomeriggio. Lo fece come se fosse una cosa normale.”

Il padre fece irruzione nella sua stanza mentre come di consueto il bambino stava leggendo un libro al suo dolore, per consolarlo, per mettersi insieme a lui al riparo da tutto. Il padre a quel punto, tolto il guinzaglio al suo dolore, disse al figlio che da quel giorno doveva occuparsene lui.

“Gli disse che se la sarebbe cavata, visto che era così bravo ad occuparsi del suo. […] Gli disse di accarezzarlo, di portarlo fuori, di parlargli, di farlo sentire importante.”

Com’era prevedibile, il bambino ci provò e nonostante fosse anche piuttosto bravo ad accudire il dolore del padre, non poteva di certo alla lunga contenere un dolore che non era il suo. Il dolore del padre fece danni: la prima volta aggredì fino a fare scappare la bambina sottile, la seconda invece fece a pezzi la casa.

Un giorno quando il bambino rientrò a casa, vide che c’erano molte persone davanti alla porta. Una signora si staccò dal gruppo e andò verso di lui per digli “che doveva farsi coraggio, perché dentro c’era la polizia. […]

“Il bambino non disse niente e aprì la porta di casa. L’ingresso era buio e per terra c’era un lampadario in pezzi. Il bambino prese in braccio il dolore perché non si tagliasse. C’era un’anta dell’armadio divelta e buttata contro il divano. E c’erano piatti rotti sul pavimento e scarpe e chiavi di casa.”

“Il bambino si guardò le mani perché non aveva più spazio per altre rovine.”

Il bambino raggiunse il punto di saturazione e dopo il trauma, dopo il vuoto, dopo avere esperito l’assenza più totale dei pensieri, delle parole o di qualsiasi ricordo che lenisse l’amaro d’un presente così straziante, in cui al bambino non restava che raccogliersi le gambe al petto, abbracciarle e appoggiare la fronte sulle ginocchia, ci fu la partenza.

Il bambino, che “si faceva conchiglia in fondo all’abisso”, capì che dal fondo dell’abisso, nell’oscurità più assoluta, sarebbe stato l’unico capace di nuotare fin laggiù per venirsi a salvare. Si diede dunque la spinta per riemergere. Lo fece la notte stessa salendo su un treno. Lo fece partendo una volta per tutte. Quel bambino che si allontanava sul treno e vedeva passare le cose dal finestrino, si accorse presto di avere lasciato a casa un altro identico a sé: perché “chiunque va via, infatti, lascia sempre un altro identico a sé a chi resta”.

Con sorprendente e fine propalazione, l’autore a questo punto della storia, illumina i lettori con questa dichiarazione: “Qualcuno a questo punto della storia si stupirà di sapere che quel bambino sul treno non era un bambino, ma un uomo di un metro e novanta. E che aveva piedi lunghi e barba sulle guance. Qualcuno si sorprenderà, forse, nell’apprendere che quelli che in questa storia sembrano giorni, in realtà furono anni”.

“Tutto ciò si deve a una di quelle brutte infezioni che a volte ammalano il tempo. In questi casi, nulla possono i medici più bravi del mondo. Anche se il cuore batte, la sua, è solo vita apparente”.

Con questo commovente cambio di prospettiva, Bajani ci insegnerà proseguendo con un finale d’eccellenza, che quell’uomo che si era dato alla fuga, in realtà non era mai davvero scappato. Quell’uomo infatti benché ormai grande e oltre il confine, continuava a soffrire, risvegliando, con quell’altro identico a sé che aveva lasciato a casa, la sua triste storia.

Man mano però scopriremo che nonostante la fatica iniziale, il distacco messo in atto con un gesto così incisivo e perentorio come quello della partenza, gli avrebbe permesso di arrivare all’emancipazione emotiva più vera e profonda: ripercorrendo il suo viaggio a ritroso, l’uomo si eleva dolcemente all’indulgenza e al perdono. Quest’uomo avrebbe quindi cominciato a sladinare il rapporto morboso con il suo dolore, per riiniziare a vivere, per concedersi pian piano di fare esperienza e di liberarsi da tutti i condizionamenti di quel dolore.

Quest’uomo-bambino diverrà dunque un uomo-adulto: un uomo cioè non già esente dal dolore, ma affrancato a sufficienza dalla sua stazionata, persistente ed ostacolante presenza. Un uomo capace di lasciarlo andare e di saperselo fedelmente riprendere quando torna a casa.

Ecco a tal proposito l’inizio e la fine de “Un bene al mondo” a confronto.

Se all’inizio “c’era un bambino che aveva un dolore da cui non voleva mai separarsi”. Un bambino talmente coinvolto che il suo dolore “se lo portava dappertutto” ; alla fine invece “il dolore se ne andò poco prima che arrivasse la notte e l’uomo lo lasciò andare. Non fu una fuga perché se fosse scappato gli sarebbe corso dietro: l’aveva già fatto tante volte e tante volte lui l’aveva cercato spaventato”.

Quest’ultima volta fu per scelta. Tant’è che si divisero il peso delle cose, la paura per esempio “la divisero in due perché ce n’era troppa: anche dimezzata la casa ne era ancora piena”.

Poi il dolore con uno zaino in spalla partì. Trascorso un po’ di tempo “quando ormai non l’aspettava più, il dolore ritornò. Lo fece semplicemente perché quella era la sua casa”.

Rientrando l’uomo lo trovò sdraiato accanto al letto come sempre.

[…] Dove fosse stato il dolore in quel periodo non importa. L’uomo se lo chiese qualche volta, provò ad ipotizzare una risposta, e poi se ne dimenticò. Lo trovò sporco abbastanza da sembrargli libero”.

L’uomo fu contentissimo di rivederlo e prese ad accarezzarlo, “poi con un salto il dolore, portò sul letto lo zaino che il padrone gli aveva regalato. Era pieno di cose colorate. Per qualche ora sembrò la notte di Natale. L’uomo prese i regali tra le mani e li scartò”.

“Dallo zaino vennero fuori un fischietto e un vetro rotto, poi un fiore preso da una tomba […], una dichiarazione d’amore disegnata sopra uno scontrino…” e tante molte altre cose preziose.

Andrea Bajani citazioni
Andrea Bajani citazioni

L’uomo distribuì quel tesoro nascosto per la casa, poi guardando insieme al suo dolore quel bottino, “pensarono che così poteva andare”.

Si abbracciarono e il dolore dopo poco tempo, ripartì con il suo zaino vuoto sulle spalle.

“Da allora il dolore andò e torno senza preavviso”.    

Il lieto fine è questo. Scoprire il dolore come parte ineludibile del viaggio e il “giusto” rapporto che è possibile intrattenere con lui. Quando capiamo questo, per assurdo, il dolore diventa progenie di un’esperienza positiva, dell’esperienza che in generale, ci consegna all’esistenza, contribuendo ad emancipare la nostra vita. Non a caso esperienza, nel suo etimo latino, viene proprio da ex-pèrior, che significa letteralmente morire. Ogni esperienza ha in sé una piccola morte. Una disposizione dell’Io a morire, o in altre parole, a soffrire incontrando la realtà, perché se viviamo ‒ lo ripeto ‒ dal dolore non c’è scampo.

Questo libro, “Un bene al mondo”, incentiva ad un lucido processo di metacognizione che come un buon percorso d’analisi conduce delicatamente alla liberazione del soggetto, ponendo il lettore nella posizione esatta di comprendere il significato primo del dolore. “Un bene al mondo” è una grande occasione. Un antidoto. Da divorare in ventiquattro ore.

 

Written by Elisa Magnani

 

Bibliografia

Andrea Bajani, Un bene al mondo, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2022

 

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