“I mostri del buio” di Pina Irace: una strana storia di amicizia
I mostri del buio, scritto da Pina Irace e illustrato da Chiara Lamieri, è una favola o una fiaba? La questione è vecchia come una fiaba e morale come una favola, e quasi ha stancato perché pare non avrà mai una soluzione. Entrambi i termini si riferiscono alla medesima radice, che è fari, parlare, narrare, da cui anche favella, infante, nefando e, fere dulcis in fundo, fola e poi, ancora e ancora, folla, tantissima folla: il che mi turba un po’.

Essendo una storia narrata pochissimi anni fa I mostri del buio è forse una favola, in quanto la fiaba è tale se è antica come il cucco e mai del tutto analizzabile (il cuco è stato il nonnino dei fischietti). Leggendo un testo io non m’arrendo mai. Voglio capire, anche rischiando d’inciampare, di ‘ntruppechià, come dicono a Positano, che è il luogo natale di Pina Irace.
Inoltre m’appassionano gli anagrammi. Il primo, banale e poco attrattivo, che mi vien in mente, a proposito di Pina Irace, di cui ho già apprezzato la favola (autobiografica, forse) Io sono Nina, è pia narice: che non è che mi soddisfa assai. Conto di capirne il motivo sotteso, sempre che ve ne sia uno. Intanto inizio a leggere e a commentare ‘sta storia.
Camillo detto Millo è quello che si dice un ragazzetto sorridente e triste, e “un po’ sovrappeso”, con qualche paura allorché la luce del giorno pensa bene di andare a farsi un pisolino. Sua madre (che alla lontana e al buio somiglia a Pina) “È tutto e il contrario di tutto, come solo le mamme sanno essere.” – quando lo sanno essere, ché alcune un po’ lo ignorano. A mo’ d’augurio, Camillo detto Millo si dice “pronto per la partenza.” – e poi, dice alla mamma: “Giocavo” – si sappia che in inglese joke è lo scherzo, e lo stesso vale per il napoletano: sto a jucà – sto a scherzare; ma si dice anche: sto a pazzià. Il gioco, anche quello con le carte, è un andare dritti a sbattere contro una logica che si basa sia sul caso che sulla necessità (me l’ha detto l’amico Jacques Monod), utilizzando simboli che consentono di bastonare senza recare male, compensare con dei falsi ori, ferire con delle molli spade e di brindare con delle coppe vacanti (cioé vuote), da cui il detto cantammo e ridimmo ma la panza vacante tenimmo, che così dicevano a Napoli nel ‘45.
“– Tulusplop – uno strano verso rompe il silenzio della stanza.” – non so se si è capito, ma Camillo detto Millo è davvero un gran fifone.
“– Allora? Ti ho fatto paura? – chiede la voce del buio.” – che poi si palesa: niente di pericoloso, è solo “il Mostro della scrivania!” – detto “Scrì”: un incontro che a me capita ogni giorno di fare. Scrivere è incidere con una specie di scalpello (scalprum in latino) i propri immortali pensieri. Nulla è però del tutto eterno, tranne la speranza che, se poi muore, nessuno potrà mai scoprirlo. Chiamalo, se vuoi, destino entropico. L’entropia è quasi peggio di mia zia! Non riesco a trattenerlo: un mio amico cavese soleva dire: la speranza è l’ultima a morì, prima murimmo noi e poi éssa.
La scrivania è il luogo dove Pina sta ora scrivendo la sua fola. Se provassi a descrivere la mia farei ridere le mattonelle della stanza.
Dice quel tale: “… tutti noi Mostri del buio siamo allergici alla luce e non è il problema più grosso.” – la particella fotonica ha almeno un paio di effetti, anzi, di eccessi: va troppo veloce (ben più di Superman!) e ha un tempo così azzerato che qualcuno ha ipotizzato che ve ne sia uno solo di quei brighelli che va sbattendo di qua e di là, dando l’impressione d’essere un esercito di granatieri. Luce è fuga. Il buio è il restare immoti. Una via di mezzo, no?
Roberto Escobar (bravo ragazzo e filosofo, che un giorno presenterò a Pina) m’ha indotto a capire che il terrore immobilizza, ma la paura fa 90, ce fa move. L’importante è non partire mai per l’ultima tangente.
Quel Mostriciattolo illustra per bene il suo compito: “spaventare i bambini” serve ad “aiutarli a diventare grandi” – la quale è una frase dubbia anche se forse sapida. Ma perché mai l’anziano teme che l’indomani potrebbe essere un evento a lui negato? Da piccoli mica ci si pensa.
I due piccoletti sono oramai solidali e insieme vanno a penetrare in un Altrove, dove s’imbattono nel “mondo dei Mostri dell’Armadio” – i quali “odiano i Mostri della Scrivania.” – mai che si possa andare d’accordo fra noi omuncoli! Armadio deriva da arma, la quale a sua volta ha lo stesso etimo di ramo, nonché del termine inglese arm, che vuol dire braccio. È un protendere verso l’Altro, non sempre a seguito di motivazioni pacifiche.
Mostro, da parte sua, è il segno misterico che t’ammonisce, t’avvisa. Tutto dipende da quel che ti vuol dire. Ogni mostro ha la sua Storia da raccontare, e si sa che essa è raccontata dai vincitori, che non sempre sono gli stessi. La Storia è mobile, qual piuma al vento!
Storia ti fa Vedere e Sapere (dal greco íd-tor che sta per fíd-tor: le radici sono íd-, fíd-, víd-, da cui vedere. Il citato Vedere e Sapere era l’enciclopedia che tanto amai nella mia prima infanzia, che leggevo ancor prima di imparare a leggere! Lag è una radice che indica il raccogliere (il seme del leg-ume che sta a terra).
Ora la scena appartiene in tutto e per tutto al “Mostro Volante delle mensole” – che pare proprio un pipistrello… Non vorrei che fosse un vampiro! Mensola deriva da mensa, che viene, come pure mento, dalla stessa radice sanscrita ma-, che indica la misura. A tavola non s’invecchia, ma si lotta con la morte. Per cui è meglio tacere (senza nemmeno fischiare) mentre si mangia, per non rischiare di fare andare di traverso un boccone. Un’usanza delicata che ho imparato quando ero di casa nel sud Italia è che, nel richiedere, che so, l’ampolla con l’olio, si dice: Ti voglio bene, mi passi il sale? No, scusa! Ti voglio bene! Intendevo l’olio!
Camillo detto Millo è sfiduciato, anche Scrì, che è pure un po’ affamato. Il quale Scrì ha un pensiero che riesce a turbare pure me (e pure Pina, immagino): “… i Mostri Volanti delle Mensole hanno paura dei personaggi delle storie, preferiscono le mensole con i giochi a quelle dei libri!” – ma a me mi piace così tanto alternare! Sono un po’ smisurato, lo ammetto.
È il turno adesso dei “Mostri della Scatola dei Giochi” – e, com’ho detto, gioco è scherzo, andare un po’ sopra le righe, ma è bello se dura l’espace du matin, o anche meno, nel caso.
Che dire ora dei “Mostri del Cuscino”? – se non che cuscino è dove si appoggia la coscia, intesa come persona intera, e come testa della stessa. Un tempo seduti sui cuscini si mangiava! Pare che derivi dal sanscrito kurc’a: vavu a curca dicono a Pixuntum (Pisciotta), a cuccà, dicono ad Amalfi.
“Ma io sono staaaanco” – sta sbadigliando Millo.” – detto Camillo; io no, essendo appena le sette e mezza del mattino, e sono appena due ore che me so’ scetato.
Si arriva, infine, ma mica è finita la storia, “Nel mondo dei Mostri del Comodino.” – cun modo, dicevano i latini, comme il faut, dicono i francesi: come dev’essere, nella perfetta (si fa per dire) misura. Ma chi lo stabilisce, chi sta comodo in du lietto o chi ha da faticà dalle cinque di mattina? Non sempre è il proprio io! A volte è così ingiusto…
A un Millo detto Camillo, il quale vorrebbe finire “di ascoltare almeno una storia…” – Scrì obietta che a lui “piace sbocconcellare un po’ di qua e un po’ di là. Ogni storia ha il suo gusto, ci sono le saporite, le insipide, le aromatiche, le dolci, le amare e anche le acidule – esattamente come le pietanzine che prepara ogni tanto agli amici l’eclettica Iside Bersanetti, per metà barese, per metà mantovana e per sei settimi carpigiana, come le sue (adorabili!) tigelle, che di solito le fa con: Prosciutto crudo, Salame, Pancetta arrotolata, Coppa, Pesto composto da: lardo pestato (non di colonnata ch’è troppo saporito), più pancetta comune, aglio e rosmarino fresco, Stracchino con eventuale rucola, Gorgonzola. E, per finire, l’ultima con Nutella (solo per chi ne è appassionato: io!).
Una notizia curiosa per concludere (così dicevano un tempo al telegiornale): “La Sarta del Buio e l’Uomo delle Stelle sono marito e moglie ma non si incontrano mai.” – e non li han visti bisticciare manco mezza volta! Che coppietta inossidabile! Il bisticciare è utile, se non si esagera, ché serve a sentirsi vivi, e magari, alla fine, ancora più uniti. Ad Amalfi si dice appiccecàrse.
Il fatto di quei con-sorti separati solo temporalmente lo va narrando “un Mostro del Comodino Giallo brillante” e Millo detto Camillo “è tutto preso dal suo racconto.” – idem pure me, Pina e Roberto (sei ancora in linea, caro?).

Intanto i due amiconi si sono ampiamente gozzovigliati! Ma che termine ho inventato! Però è tanto saporito! Il cibo va su e giù per il gozzo e le cose che vanno su e giù non sono poi così male!
Si sappia, inoltre, che non è mangiando che ci s’ingrassa, ma solo digerendo…
Ora, che tengo la panzélla bella chìna, mi tocca entrare in questo “mondo dei Mostri Afferrapiedi” – dove mi limiterò a segnalare che piede deriva dalla radice pat-, come anche penna, e forse anche l’inglese path, che è sentiero: indica il continuo e a volte frenetico muoversi di qua e di là.
Qualcuno dice che le mie reazioni letterarie io le faccio coi piedi!
Anche grazie ai piedini di Pina e a quelli di Chiara (e nessuno è più luminosa e colorata di lei!) sono giunto alla conclusione della storia: “Finalmente l’uscita.” – è il Buco Bianco che, secondo una densa e variegata folla di fisici e cosmologici ci assicurerà un nuovo mondo…
Il viaggio è stato lungo e a volte un po’ scuretto, ma ne è valsa la pena! Ma no, che dico! C’è ancora almeno un piano da andare a visitare. Uffa! Sono stanco! Voglio dormire!
“– Ma quanti piani sono?
– Credo un milione, o giù di lì.
Ecco siamo arrivati.” – meno male cominciavo ad avere la sindrome di Houdini… che non esiste ancora, mi sa! Si tratta del “Posto delle Parole” – queste fin troppo chiacchierone!
Haim Baharier in Il cappello scemo, m’ha gentilmente spiegato che arca in ebraico è tevà[1], cioè parola. Essa ci permette di navigare anche, e soprattutto, allorché va diluviando. Ed è dotata di una salvifica àncora che ci tiene miracolosamente a galla. Ogni tanto affondiamo un po’, ma questa è la vita. L’importante è ogni volta poter riemergere e sorridere.
L’ultima parola am fa sighêr, manco fossi una sega che cigola, me fa chiàgnere, it makes me cry, me fait pleurer, me hace llorar, das bringt mich zum Weinen!
L’ultima parola del testo di Pina è: “Buio.” Ma rimane una luminosa speranza, che è covata in un verso di John Ketas, sempre quello, sempre lui: A thingh of beauty is a joy for ever – tanto che, quando mi capitò di incontrarlo in quel bel localino sito nei pressi della Piramide Cestia, sai che gli dissi, all’ormai placido Johnny? A latere, amicus! L’importante per me è averti visto ancora una volta. Alla prossima!
Amico deriva dal sanscrito kam’a, che è passione, come anche amore e, chiedo scusa, kāma sūtra.
Ora a Pina posso finalmente dire che aggio pazziato! Questa frase la si dice sempre congiungendo le due mani, come se si stesse pregando.
L’etimo di etimo è, appunto, etymos, che è la ragione originaria delle parole. Come se ci fosse un’origine al mondo! E prima, che c’era? Io amo le filosofie antiche e moderne che giudicano il pur ordinato Kósmos, un gran mattacchione.
Si tratta di una ludica illusione, un il-ludere, ‘nu juoco, insomma. Le prima a iucà siete state voi, vero? Io ho soltanto reagito come sono stato capace. Tanto per passà ‘o tiempo! E per farme ‘na risàta!
Pina, torniamo ora al tuo anagramma (con Chiara poi ci penserò): pia narice va benissimo. Grazie a essa ho respirato della gran bell’aria. Quella che si nasa quando si è nella tua Positano!
Vi faccio i miei complimenti, ragazze! Ognuno di noi, nel proprio modo, ha svolto il suo compito. Buonanotte!
Written by Stefano Pioli
Note
[1] N.d.E.: Igor Sibaldi fa notare nel volume intitolato “Vocabolario” (Anima Edizioni, 2009) che “tevà” è la pronuncia della parola “thebah”.
Bibliografia
Pina Irace, Chiara Lamieri, I mostri del buio, Read Red Road Editore, 2021