“Una favolosa eredità” di Giuseppe Benassi: le parole celano le impurità?

Una favolosa eredità è l’ultimo romanzo di Giuseppe Benassi, pubblicato per i tipi di Extempora edizioni.

Una favolosa eredità di Giuseppe Benassi
Una favolosa eredità di Giuseppe Benassi

Non si tratta (solo) di un giallo o di un noir, in quanto tanti colori e non colori, per lo più scuri e tetri, sono stati utilizzati dall’autore, il cui fine è di rappresentare una specie di commedia in cui i personaggi vagano o controvoglia o per fini mirati al proprio egoismo, in una specie di universo orrendo, come lo chiamava Pasolini, in cui la ricerca di un mondo ideale (il migliore possibile), di una luce verso cui dirigersi appare come l’unica alternativa alla tetra immobilità, ma che rischia di portare l’anima dell’idealista a scontrarsi con una realtà che tende o all’immobilità entropica finale o verso quella tetra singolarità che tutto ingerisce dentro di sé.

Il protagonista de Una favolosa eredità, l’avvocato Borrani (come del resto anche l’autore), è un uomo di legge.

Legge ha lo stesso doppio etimo di religione: il latino legem è tratto dalla radice di ligare; ma c’è chi ipotizza l’origine dal greco lègein, scegliere. Il senso, duplice, s’interseca fra sé e sé: io scelgo un libro da leggere, il quale poi mi lega fino al termine della sua funzione. Dopo di cui cambio libro, nume, credenza, scaffale a cui attingere.

Passata la lettura, gabbato e cambiato li santo a cui rivolgere la prece.

“Avvocato ci scappa il morto… qui ci scappa il morto, glielo dico io.” –  si legge nella quarta di copertina de Una favolosa eredità l’urgente avvertenza di colei che sarà la prima persona assassinata.

L’uomo non è, come invece disse Plauto e in seguito Hobbes, un lupo per gli altri uomini. È a volte un benefattore o un assassino, o una vittima, o colui che deve investigare sulle ragioni di un misfatto. Un più elevato grado di civiltà esiste fra i lupi a quattro zampe, nel cui gruppo sociale chi desidera primeggiare va ad affrontare direttamente il capobranco, dopo di cui il perdente offre la gola al vincente, che avvicina le zanne e simula l’atto di azzannare. Poi tutto rientra nella normalità. L’uomo è un lupo evoluto, che, da millenni, è andato ben oltre. L’uomo azzanna veramente, nel piccolo e nel grande. Chi ha dei dubbi a proposito, per superarli, basta che accenda la televisione e guardi il primo telegiornale che gli capita.

Giuseppe Benassi è nativo di Reggio Emilia, dove svolge da anni la sua professione, ma si sente, almeno quando scrive, un livornese, città ove dimora quando gli impegni glielo permettono. Leggendo i suoi romanzi, imparo vari termini toscani: “… quei vaini, li volevano loro…” – a Reggio diciamo bèsi (i bezzi erano antiche monete venete d’argento): Bezzi è a Reggio un cognome abbastanza diffuso. Ignoro l’etimo di vaini. È soprattutto per essi che si fanno le guerre e si compiono i reati.

Come in un precedente romanzo di Benassi (Tra le tue sgrinfie), anche in Una favolosa eredità gli aventi diritto per nascita alla successione la perdono, se non tutta, almeno in parte.

In questo caso la dante causa è un’anziana che è più affezionata alla sua cameriera, che ai suoi tre figli maschi. Lascia a tutti e quattro una fetta dei suoi copiosi beni, esercitando una preferenza nei confronti della prima. E questo non va giù ai suoi consanguinei, che si oppongono, in vario modo, non solo giuridicamente.

La mia frequentazione del sud Italia m’ha imparato l’espressione i figli so’ piézzi ’e core, ma a volte anche, per magia, so’ piézzi ‘e… – e uno si domanda chi sia il maggior responsabile di tale alchimia. La risposta è nella genetica, oltre che nell’imprinting, come suggeriva Konrad Lorenz, che accomunò nel suo studio animali a due e a quattro gambe, comprendendovi per la prima volta gli umani.

Riporto il cognome dell’anziana che, morendo, scatena tutta questa confusione: Malanima, che era anche il cognome della cantante Nada, un cognome che turba.

“Malombra” – e qui mi viene in mente il celebre romanzo di Fogazzaro – è il nome del “sostituto procuratore di Pisa” che, insieme ai “carabinieri” è ora “Sul luogo del delitto”. A uno sgarbo della “segretaria del procuratore”, “Borrani rispose di malagrazia” qualcosa che la costrinse ad annunciare la sua presenza al capo.

“… maledetta avidità umana!” – cogita fra sé e sé Borrani “nell’attesa” d’esser ricevuto, mentre il suo pensiero torna poco dopo a “quei tre Malanima maledetti”.

Abituato ai lauti pasti di Soneri dei romanzi di Valerio Varesi e a quelli di Montalbano delle storie di Andrea Camilleri, non posso che rimanere deluso quando leggo che il nostro leguleio “… si fermò al bar davanti al tribunale, era quasi l’una, per divorare un panino.” – non tanto perché non possa essere succulento, quanto perché l’atto indica una fame che è vista come un bisogno corporale da zittire al più presto, e non quel sano appetito che ti porta a conciliare l’anima al resto del creato.

Dopo di cui, “Placata la fame, andò alla sua macchina” – e la vita continua a scorrere, in modo né peggiore né migliore che in precedenza.

“… Pontedera, altro luogo che metteva tristezza solo a sbirciarlo di sottecchi.” – al che il baby boomer evoluto che si cela, neanche tanto, in me si rivolge (manco fosse un taxi) al primo e ormai unico motore di ricerca per scorgere qualche immagine di questa città che, essendo toscana, non può che essere magnifica. E so già che un bel dì andrò a rimirare, chissà quando, “quell’orribile paese, proprio il più brutto di tutta la regione…” – e pare quasi che l’autore mi stia provocando apposta, quando al termine del capitolo scrive: “… quella giornata aveva preso una piega storta, quel paese era così orrendo, così moderno, troppo brutto per rimanerci ancora solo due minuti, e decise di…” – eccomi, inclìto paesello! Presto mi appropinquerò!

“Ma era impossibile liberarsi dalla faccia di Luisa Curina, dalle prime parole che gli aveva detto: ci scappa il morto!…” – dopo di cui nella mente di Borrani tracima dagli argini un flusso di coscienza che termina solo allorché “… finalmente, si addormentò.”

Considerando il mestiere dell’autore, nonché del principale personaggio dei suoi romanzi, che dire di quanto segue: “Far l’avvocato richiede molta ipocrisia, a Borrani ciò riusciva a malapena…” – una carenza di vizio che ha la sua origine in un difetto caratteriale.

Leggo ancora ne Una favolosa eredità, due pagine dopo:Sempre stimolante, per un carnivoro e per un avvocato, l’immagine del sangue.”: che ha lo stesso etimo di succo, che è quel che scorre, sottile, per tenere in vita un corpo. È quasi un’immagine sacrificale: finché c’è sangue, c’è speranza di vita. Dopo di cui, tutto si zitterà, irrigidendosi per sempre.

Il vivace erede cerca un avvocato o un notaio, non più il terreo deceduto.

Quando il tutto pare dirigersi “in un mare sempre più sporco di sangue”, giunge l’ora di “strappare il sipario delle apparenze.”

Nel capitolo XXV si aggrava sempre più il malanimo della scrittura, specie nella descrizione dei “cessi” di “Un obitorio, un ospedale per malati incurabili. La tristezza di un monastero unita a quella della burocrazia fascista.” – in realtà si trattava del “tribunale di Pisa”, che “era allocato in un vecchio palazzo barocco del centro, grandiosamente funereo, che girava attorno a un…” – e anche in questo tetro luogo vorrei farci un salto, prima o poi.

Cito ancora, pentendomi quasi subito ma non riesco a evitarlo!,I faldoni con i fascicoli delle cause, appoggiati ovunque, senza apparente criterio, parevano bare zeppe di cadaveri che nessuno poteva riesumare o almeno pietosamente seppellire.” – in Italia la giustizia tende a ibernare il paziente per decenni, dopo di cui si saprà che quel Pinocchio, se non è vivo, è morto.

Mi precipito correndo al capitolo successivo, dove leggo quel che già so: “l’avvocato detestava anche il telefono” – oltre che il computer e i vari social, a cui però non può fare a meno di ricorrere per rovistare nei meandri della verità che si annida nella rete.

A pagina 126 de Una favolosa eredità occorre l’ennesimo elenco di dati, che non sono rari nel romanzo, che non sarebbe spiaciuto a Georges Perec. Un termine cilentano (conosciuto anche in Sicilia) è ammuccia’, cioé nascondere dietro a un mucchio (che contiene di tutto, proprio di tutto). È questo l’aulente compito del bravo scrittore, specie di thriller noir. Una verità patente è oscura e nuda come quel re. Le parole sono i panni che celano le impurità. Senza la corretta dose di moralismo uno scrittore è banale. Pateticamente sincero. Poco umano.

“Ci voleva un salto controcorrente, come quello che fa il salmone”questo pensa il nostro eroico avvocato, che si dice: “Avanti così, Borrani! Lavora! Datti da fare!…

Egli è un uomo che stagna in un’assurda crisi, né prossimo alla morte né alla guarigione, il che non parrebbe possibile: “Uscire dall’orrenda realtà, reinfettarsi in un locus amoenus accogliente…”il suo desiderio di tornare all’origine, qualsiasi essa sia, di re-inventarsi, di rinnovarsi, di rinascere.

C’è chi potrebbe disdegnare il tuo romanzo, caro Benassi, in quanto fitto di termini poco salottieri: “In Toscana, si sa, anche i santi sono sboccati.” – e non te la mandano a dire, Maremma maiala!  Ma noi arşân tésta quêdra non siamo mica da meno!

Giuseppe Benassi citazione
Giuseppe Benassi citazione

Qualcosa spunta “sotto la galabia” – leggendoti, Benassi, imparo molte parole, anche arabe. Nonché locuzioni interessanti come: “La paura gli aveva messo coraggio.” – e “gli avvocati son più farabutti degli strozzini.” – chissà se è vero! E non difettano le metafore: “… quell’avvocato doveva essere uno squalo bello e grosso! Capace di mangiarsi in un sol boccone quel grongo di strozzino.”

Nella tua discrezione di quel “bravo Diomede” ci metti un po’ di tutto, in una mistura di disprezzo (soprattutto) e di affetto (meno), arrivando a dirgli, come se fossi entrato nel suo flusso animato: “Ti sei comportato da uomo. Ardengo sarebbe stato fiero di te.” – poiché ti voleva bene, anche se non era di te infatuato.

Una frase che tu, come autore, riferisci a Borrani ti può riguardare: “Il laido, tanto lo ripugnava, tanto lo attraeva.” – l’arte figurativa, come vai suggerendo in più punti, con frasi del tipo: “Dio era stato sostituito dalle immagini”, è religiosamente immonda.

Lo è anche, forse soprattutto, la scrittura. Anche la tua, e anche quella di chi reagisce leggendoti.

Un thriller è una tragedia moderna, ove l’agnizione finale (per nulla catartica) avviene, inevitabilmente nelle ultimissime pagine.

L’enzima malvagio è, come sempre, il meno prevedibile. Pareva un tipo così lindo e pinto!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Giuseppe Benassi, Una favolosa eredità, Extempora edizioni, 2024

 

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