“Zorba il greco” di Nikos Kazantzakis: si può riavvolgere il nastro?
Zorba il greco di Nikos Kazantzakis è in realtà macedone. Come dire: Stefano il reggiano è in realtà italiano. E c’è chi non la vuol smettere di sognare un mondo senza confini, dall’Alaska al Perù, all’Australia, al Portogallo, al Giappone, all’India, al Sud Africa, e chi più ne ha più ne metta. In un mondo siffatto, al di là di ogni polemica o irridentismo, la Macedonia è la Grecia, perché la Grecia è la Macedonia. E Gavâsa è Masènsadigh.
Zorba il greco è un romanzo così ricco di anime vive, morte e risorte che un pur timido reagente letterario (e io non lo sono affatto, timido, mentre scrivo) non sa dove sbattere la testa prima d’iniziare. E questo è tutto, arrivederci.
Eccoci di nuovo. Va bene, ci provo.
Il romanzo fu pubblicato nel 1946, appena conclusa una delle 10.000 guerre più stupide della storia, prima ex aequo con tutte le altre.
Nikos Kazantzakis, nato a Candia il 18 febbraio 1883, quando lo scrisse, era già un uomo di una certa età, il quale morì undici anni dopo. Chissà perché la prendo così calma…
Una cosa l’ho imparata, leggendoti, amico Nikos: a ogni ri-nascita decede la morte. Mentre ti stavi mettendo in viaggio per Lassù, io ero nel mondo della Luna, armi e bagagli in mano. Sic transit gloria mundi.
Ti vedo ora, mentre stai scrivendo il romanzo e, insieme, vedo me che lo sto leggendo: siamo contemporanei. Sempre che il tempo non sia un’illusione come ci assicura il fisico Julian Barbour, avallato da Carlo Rovelli. Tante cartoline appese a un filo che è ma che non esiste, con tutti gli stati quantici del Signor Kósmos, quel Messer Messerino che come soprannome ha Ordine. Chi scrive un romanzo cerca di mettere il Kósmos nel Kaos, di tenere a galla quello che, per sua natura, tende a scivolare verso l’imo, nell’alveo della prima singolarità in cui s’imbatte.
Cercherò di riportare il meno possibile del tuo testo e so che fallirò nel tentativo. Sei troppo capace di emozionare, e con te non c’è confronto possibile. Ora mi do una calmata.
Andiam, andiam, andiam a lavorar! Lavoro deriva da una radice sanscrita: labh, che dà l’idea di afferrare, estrarre, come da una miniera, una risorsa che c’è e che ci aspetta. Lavoro, tanto in greco che in latino, e in tutte le lingue, equivale a fatica, pena, sofferenza, è l’estrazione di quel che è saldamente attaccato alla terra e che l’uomo strappa per tenere per sé. È vita che è strappata per nutrire altra vita.
L’io narrante de Zorba il greco ha un paio di eccessi: ha letto troppo e pensa troppo. Per uscire da quel frenetico tunnel ha deciso di comprarsi una miniera. Anziché mettersi a scavare per conto suo, ha assunto degli operai che vengono diretti da Zorba, il filosofo senza cultura scritta, ma immaginata, sognata. Uno che quando non mangia, non fatica, non compie gli atti normali della vita, suona uno strumento detto “santuri”, che “È un animale selvaggio, che ha bisogno di libertà” – e tutto ciò avviene presso il mare Egeo – che, per chi lo abita, come per chi dimora altrove, è l’ambiente più bello di tutti.
L’aspetto saliente della filosofia di Zorba è che non te le manda a dire, ma si limita a snocciolartele una a una, inevitabilmente e irrevocabilmente. Una cosa, una volta che è stata detta, non può più tornare indietro. Non esiste in natura la possibilità di riavvolgere il nastro. Ci si può deviare il percorso, far evolvere ma non annullare quel che è esistito. Se Dio c’è e può essere corretto, vuol dire che non esiste. Non è là e poi qua, è. Non è. To be or not to be. This is the problem.
A pagina 61 Zorba spiega come sono fatte le donne. Quel che combina ai danni di una sua ava equivale a uno stupro, a un gesto d’amore criminale. Se ne pentirà. Ma cosa fatta capo ha.
L’io narrante è così indolente che ammette di non aver voglia nemmeno di descrivere il lavoro che si svolge nella miniera. Lui deve leggere dei libri, pregare per la sua anima. Al resto ci pensano i suoi servi. Lui è l’hegeliano padrone, Zorba è il principe servo. “Padrone” è il vocativo che non si risparmia mai.
“Nell’ascoltare Zorba avevo provato l’impressione che il mondo stesse ricuperando la primitiva franchezza” – come vorrei conoscere il termine in greco usato da Nikos: parresia? Il dire ciò che è mentre lo è. E se vogliamo adottare il verbo esistere, va bene: quel che esiste mentre esiste, mentre si ha l’illusione che esista.
“Nella mia immaginazione andavo creando un nuovo ordine religioso, il lievito di una nuova vita.” – e qui mi vien da pensare a un’antica battuta: il sapiente, quando ha dei pensieri, li-evita (in aria).
Il padrone pensa, astrologa, perde il suo tempo, il servo Zorba lavora di giorno e di sera dice la sua, ricercando il tempo di entrambi. I due necessitano l’uno dell’altro per sentirsi vivi e esistenti.
“No, non ho fede in nulla…” – dice Zorba. Eccetto me (ipotizzo che stia pensando).
Intanto, l’io passa da “una tempesta buddista” all’altra. Ogni coglione ha la sua passione (detto delle mie parti).
“Ebbene, padrone, forse non potrai comprendermi perché sei stato contaminato da tutti quei libri…” – una sorta di ipercolesterolemia.
“Eravamo di buon umore, non a causa del vino bevuto, ma grazie all’ineffabile gioia che regnava nel nostro intimo.” – sono ormai due con-sorti che coniugano insieme l’esistenza.
“Che strana mania hai, padrone, con tutti i tuoi ‘ebbene’ e i tuoi ‘allora’…” – nella mia Reggio diciamo anche perquindi! Si cerca sempre il seguito, mai ci si ferma a osservare quel che esiste nell’attimo in cui esiste. Manco io lo faccio, non so se ci riesce Raffaele Catà, lo studioso di quel Jiddu Krishnamurti di cui ho letto così tanto che alla fine ho raggiunto la consapevolezza di averlo capito superficialmente. È il mio problema è che non voglio affondare, preferendo galleggiare come non dico che.
Dice Zorba che il suo cuore ha “Innumerevoli buchi e innumerevoli rammendi: non devo aver più timore di nulla.” – mi sa tanto di illusione. Il fatto che Zorba sia tanto saggio non significa che abbia le idee più chiare rispetto al suo padrone. Sono però più luminose. Ma la luce c’è fino a un certo punto, prima o poi i fotoni vanno a letto. E a volte non si svegliano più.
Zorba mette sullo stesso piano “La Grecia, la Patria, il Dovere” – i quali concetti, per lui, “non significano nulla. Eppure noi, per questo nulla, siamo disposti a corteggiare la morte.” – che eversiva verità! Se la verità non è eversiva è fandonia! Essa abbatte la menzogna, che poi viene ricostruita su di essa. Ogni esercito che libera un paese finirà per occuparlo di nuovo.
“Non scherzo, padrone. Io vedo Dio molto simile a me, soltanto più grosso, più forte, più pazzo.” – io lo chiamavo Dione. Ero un ragazzino. Ora Zorba e io siamo coetanei, ma lui ci pensa sempre a Dio. Avendone letto troppo, io ho cessato di fantasticare su di lui. Il mio libro prediletto non è la Bibbia dei Vivi ma quella dei Morti, quell’avviso agli estremi naviganti che fu scritto millenni fa in Tibet. Perciò m’identifico in te, mio io narrante.
Mentre la miniera sta crollando, rischiando di ammazzare i minatori, il titano Zorba compie un’impresa arrischiata e faticosa, donando una nuova vita a tutti, mettendo a repentaglio la propria. E sta cercando di salvare anche me.
Sono al capitolo X de Zorba il greco e ho scritto: capitolo importante. E null’altro: l’unica cosa che mi resta da fare è rileggerlo. Temo che mia figlia Anna potrebbe odiare Zorba per tutte le definizioni delle donne che dà, tutte, invariabilmente e politicamente scorrette. Non c’è nulla da fare. Ormai le ha dette.
A pagina 163 l’io narrante (a cui ogni tanto do del lei) parla di Mallarmè, che io sto in questi giorni rileggendo in francese, dopo che a vent’anni me l’ero sorbito in italiano. A lui non piace più come in passato, io invece sto sentendo che qualcosa di positivo sta finalmente entrando in me.
“… sono sempre stato divorato dalla bramosia di vedere quanto più sia possibile della terra e del mare prima di morire.” – non si sa perché. Un tragitto vale l’altro per giungere all’Estremo Pertugio.
A pagina 177 ci sono due Zorba, ognuno dei quali ce l’ha con l’Altro: Je est un Autre?
“Sappiamo soltanto che c’è un odore cattivo, ed è questo odore che noi chiamiamo ‘umanità’.” – noi puzziamo di morte mentre siamo ancora in vita. Alcuni di noi fetano di cellulosa.
“Adesso domando soltanto se un uomo è buono o cattivo: non mi interessa conoscere la sua nazionalità.” – il suo puzzo specifico.
Zorba è un cattivo maestro, senza il quale noi saremmo dei cattivi allievi.
“Sotto la lieve brezza il mare si increspava mollemente: due gabbiani, con le piume gonfie ed arruffate sul collo, si facevano cullare dalle brevi onde gentili e gioivano del lento moto altalenante.” – ‘sti pennuti dureranno sul cuor della terra meno tempo di noi, ma noi non valiamo più di loro, anche narrativamente: ognuno ha la sua storiella da raccontare.
“Senza pietà scribacchiai irosamente le ultime frasi sulla carta, emisi l’ultimo grido e scrissi il mio nome a matita rossa. Il manoscritto era finito.” – è nata ‘a criatura, è nata greca!
“A ogni istante la morte muore e rinasce, proprio come la vita.” – gemelle separate all’albore del Kósmos che ci ordina di esistere!
Due parole su Anagnosti: “Ora che era vecchio e non doveva più darsi pensiero né della moglie né dei figli, aveva tempo di guardare con distacco il mondo intorno a sé…” – un tipo del genere altrove è detto sannyasin.
E pensare che non ho citato tanta gente, tanto importante per capire parte del discorso di Nikos! Eppure non era giusto farlo. Il libro va letto e riletto e nulla più.
Ecco perché: “Dopo aver lavato la morte con il vino, la vecchia che si era assunto il pietoso compito…” – e non dico altro se non che il pensiero m’è corso, non senza motivo, all’Accabbadora che Michela Murgia ha reso pressoché eterna nella mia mente. Pressoché!
Il libro va letto perché contiene tanta aria quanta ce n’è fuori! Lo so che è ho detto una sciocchezza, ma m’andava di dirla.
“Ricordatevelo: i morti ci ascoltano…” – anche se Schopenhauer una notte mi spiegò che noi crediamo di vedere gli spettri, mentre invece loro dormono il sonno dei giusti.
“Tutti quei tuoi maledetti libri, a che ti servono dunque?” – rispondi Stefano, rispondi Daria Bignardi! Rispondi André Gide! Rispondi Nikos!
Per guarirlo dalla libropatia, Zorba insegna all’io narrante a ballare! E io non sono capace di lasciarmi andare! Unico mio patetico tentativo fu a Milano Marittima in una balera dal nome tedesco in cui improvvisai delle mosse di rumba. E ci fu chi non sopravvisse alla mia vista.
Traduco con parole mie un discorso che Zorba fa a Dio: se vuoi uccidimi pure, questo sai fare! Si pensi che per lui Giove è il padre di Cristo, e talis pater… poi Zorba parla del “nostro estremo signore, il verme…” – che anche lui ha il diritto di andare a letto con la pancia piena.
“La felicità consiste nel conoscere il proprio dovere…” – amen!
“Un sogno impressionante mi aveva attraversato la mente, con la violenza di un colpo di spada.” – a un certo punto non serve più dire chi dice cosa, tanto lo so che sei tu e solo tu, Nikos, e io, e solo io, ora, che ti sto leggendo.
Quanti sogni che m’hai raccontato! All’affannosa ricerca della “Grande Certezza”. – amen!
Che non è una certezza perduta, ché mai l’avemmo.
Tu, Nikos, tu, mio io narrante, scrivi: “La vecchia capra che si nasconde dentro di me, deve ancora ruminare molta carta stampata.” – amen!
Spoiler necessario: “Iki Kiklik bir tependé otiyor/ Otme dé riklik, bemi ndertim yetiyor/ Aman, aman!” È “Il canto dei cammellieri…”
Ci sono due eventualità: “Zorba è uno spirito superiore!” – oppure “Zorba è matto!” – tertium non datur. Anche perché il mondo è uno e duplice, e non triplice.
“Scrivevo impetuosamente, affrettandomi a infondere novella vita nel passato, cercando di rievocare…” – ognuno ha le sue cose da salvare, vero, Daria Bignardi?
Scrivere è salvare, vero, Primo Levi? È far risorgere: vero, lettore dell’altrui lettore?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Nikos Kazantzakis, Zorba il greco, Mondadori, 1973