“I no delle donne” di Jennifer Tamas: archeologia del rifiuto
No; una particella elementare per niente banale. L’infans ancora non possiede la fluidità di linguaggio; nella fase di apprendimento, il no struttura il suo rapporto con il mondo. Opporsi permette di prendere coscienza di sé; di decidere; di esistere come essere senziente. Dove nasce l’idea che le donne non sanno dire no? Perché il loro no non ha valore? Il loro rifiuto viene ignorato, taciuto; viene rifiutato.
Jennifer Tamas è docente di Letteratura francese dell’Ancien Régime negli Stati Uniti; nel saggio I no delle donne (Marietti 1820, 2023, pp. 251, trad. di Giulia Frare) indaga tra le pieghe della letteratura classica. Analizza il modo in cui essa si è sedimentata nella nostra cultura popolare; si interroga sul ruolo che ha assunto nella formazione dell’immagine occidentale. Il saggio ripercorre un’archeologia del rifiuto femminile; offre una prospettiva inedita per riscoprire i grandi classici e leggerli con occhi diversi.
Non c’è niente di più incongruo che usare la società di Ancien Régime come base per pensare al rifiuto femminile. Ridotte al “riserbo” dai trattati di bon ton, al silenzio o alla “finta resistenza” dai codici della seduzione, le eroine della Letteratura classica non avrebbero nulla da trasmetterci, tanto meno il potere di dire no. Si sarebbe potuta considerare la questione una storia chiusa se non fosse stato per la sagacia di Jennifer Tamas. Infatti, a modo loro, le donne del Gran Siècle hanno resistito, hanno disobbedito, e di queste battaglie silenziose restano alcune tracce.
Sotto le belle immagini di principesse addormentate celebrate dall’industria dell’intrattenimento si nascondono rifiuti potenti, oscurati da secoli di interpretazione patriarcale. L’autrice li porta alla luce con coraggio e finezza, rintracciando l’espressione del femminile celata sotto lo sguardo maschile e tendendo l’orecchio al mormorio sommesso delle voci di chi resiste. Evocando figure dissidenti dei secoli passati, da Cappuccetto Rosso a Berenice, rinvigorisce il discorso femminista.
La riscoperta dell’archeologia del rifiuto porta con sé un frutto; permette di restaurare il nostro matrimonio culturale. Il termine francese matrimoine è il corrispettivo femminile di patrimoine; la radice evoca il significato: indica l’eredità trasmessa in linea materna. Nel 2017 il movimento #MeeToo ha restituito agentività alla voce delle donne; il loro rifiuto ha acquistato una forza perlocutoria prima interdetta.
Quale storia ci racconta Jennifer Tamas? Quella dei no pronunciati dalle donne; ma ridotti al silenzio. Sono no fantasma; compongono una narrazione mancante su cui è calata la coltre dell’oblio. L’epoca in esame è il XVII secolo; aristocratiche o popolane, le donne godevano di eccezionale libertà. Alcune si fecero notare attraverso la scrittura; soprattutto da vedove, ebbero agio di impugnare la penna.
Perché la loro opera è stata cancellata? Perché le autrici espressero un rifiuto; di rimanere al proprio posto, di conformarsi a una società concepita senza di loro.
“Da allora dire la donna è un gesto distruttivo che si colloca al centro della sua narrazione fondativa. La donna non è mai esistita, o piuttosto non è esistita se non attraverso le immagini falsate, deformate, idealizzate che gli uomini hanno voluto darci di lei. Non potendola comprendere in sé stessa, è stato più semplice renderla invisibile, cancellare la sua storia e anche ogni traccia della sua individualità.”
Le donne stesse hanno rafforzato le sedimentazioni dell’oblio; loro malgrado, hanno spesso contribuito a cancellare il proprio passato. Pierre Bourdieu attribuisce questo atto inconsapevole alla “dominazione maschile”; una forma invisibile di indottrinamento. La letteratura classica è accusata di diffondere una cultura dello stupro; il pregiudizio nasce da una percezione distorta dei codici dell’Ancien Régime.
Le eroine analizzate da Jennifer Tamas hanno detto no; ma i loro no sono stati cancellati. Lo sguardo maschile le ha ridotte a donne fragili; le ha spogliate di forza, di potere di azione. Al contrario, esse hanno resistito, si sono opposte; le nostre attuali rappresentazioni nascono da errori di semplificazione, da una memoria selettiva.
La galanteria è oggetto di aspre critiche; sarebbe stata concepita per soggiogare le donne. Strumento infido per costringerle ad accettare l’inaccettabile; virus della cultura dello stupro. Niente di più falso; la galanteria è stata pensata proprio per opporsi alla diffusa realtà dell’abuso. Uomini e donne immaginano un altro mondo possibile; mettono in atto un gioco di seduzione, sguardi e onestà. In questo rapporto il rifiuto è accettato; l’ostilità è recitata; la violenza è fittizia. La galanteria è un modo per rendere giustizia alle donne; permette loro di sottrarsi al ruolo di oggetto sessuale.
Il cuore nascosto delle fiabe è l’apprendistato del no; non quello dei bambini, come ci aspetteremmo. È il no delle fanciulle; poi delle donne. Cosa fanno le protagoniste? Aspettano; e l’inesorabile attesa è interpretata come mancanza di agentività. L’uomo fa, la donna sta; segregata, chiusa, nascosta. La fiaba è stata trasmessa dalle donne nel volgere delle generazioni; nonne, madri, figlie, figlie delle figlie perpetuavano questa tradizione orale. Il materiale era malleabile; si adattava ai tempi e alla società. Le donne sono state le prime a scrivere fiabe; gli uomini se ne sono appropriati. Esse sono diventate un genere letterario; si sono irrigidite. Lo sguardo maschile ne ha ristretto il significato; ha colonizzato il sapere femminile.
Un esempio eloquente di questo meccanismo è Cappuccetto Rosso. La prima versione scritta risale al XVII secolo; essa si deve a Charles Perrault. Nel 1812 i fratelli Grimm la includono ne Le fiabe del focolare; essi riprendono il sostrato folkloristico ma ne modificano gli elementi basilari. La loro versione annulla il potere delle donne; sono gli uomini ad averne l’esclusiva. In entrambi i casi, Cappuccetto Rosso è un racconto di avvertimento; Perrault e i Grimm esortano le bambine a non fidarsi degli sconosciuti, a rimanere sulla retta via. Questa fiaba si presta anche a un’altra lettura; sarebbe un racconto di iniziazione sessuale. Il lupo è la seduzione maschile; potenza carnale e intellettuale. Bruno Bettelheim si sofferma sullo scialletto rosso; il colore indica la maturità sessuale della fanciulla. Questa lettura perpetua il male gaze; valorizza gli uomini, sminuisce le donne. La versione nivernese di Cappuccetto Rosso adombra un atto di emancipazione; indica il percorso di una ragazzina animata dalla volontà di sapere. Cappuccetto Rosso non è in attesa; è dentro l’azione. È pronta per lasciare la casa e la mamma; la forza vitale le permette di camminare verso la conoscenza. La versione nivernese contempla un rituale cannibalico; questo conferisce alla fanciulla una potente agentività. Cappuccetto mangia le carni della nonna, ne beve il sangue; ne assimila il potere. La donna giovane estromette quella anziana, incapace di generare; si sostituisce a lei. Yvonne Verdier vede nel racconto le tre fasi del “destino genesico” della donna; dunque parlare di iniziazione sessuale è riduttivo: Cappuccetto Rosso diventa adulta grazie alla trasmissione del sapere femminile. Le fiabe presentano un tema ricorrente; la rivalità tra donne di generazioni diverse.
Ne La bella addormentata nel bosco alla giovane principessa è opposta la fata cattiva; l’una incarna la passività, l’altra la forza d’azione oscura. Aurora dorme, nell’attesa che il principe la svegli; la strega la perseguita. La versione Disney si conclude con il matrimonio; così Perrault termina la prima parte del proprio racconto. Egli introduce un aspetto fondamentale; quando il principe penetra nel castello, non abbraccia la ragazza. Si inginocchia davanti al letto; e aspetta che ella si svegli. Perrault va oltre; il principe tace ai genitori l’avvenuto matrimonio. Vive con loro a palazzo; Aurora e i figli sono nascosti nel bosco. Alla morte del padre, il giovane diventa re; confessa la verità a sua madre, un’orchessa. Le presenta la moglie e i bambini; la vicenda potrebbe concludersi con il lieto fine. Invece il principe si tira indietro; lascia alla madre il potere decisionale. Se la dà a gambe; parte per la guerra. Che le donne se la vedano tra loro, insomma. L’istinto vorace dell’orchessa si risveglia; ella ordina che la nuora e i nipoti vengano uccisi. Li cucinerà; ne farà un lauto banchetto. Un maggiordomo pietoso li salva; ma la regina scopre l’inganno. Un pentolone ribolle in mezzo alla piazza; la Gorgone vi getta bestie orrende, rimandi a una femminilità minacciosa. Aurora e i bambini stanno per esservi immersi; inatteso, arriva il principe. E cosa fa? Salva la famiglia? No. Rimane pietrificato; l’orrore balena nei suoi occhi. L’orchessa si specchia in quello sguardo; vi scorge tutta la propria malvagità. Non può tollerare che il figlio abbia quella immagine di lei; l’amore che prova per lui è totale. Terribile e divoratore; e ne viene divorata. La lotta è tutta al femminile; il principe di Perrault è debole, immaturo. Aurora non è affatto passiva; sale sulla torre più alta, si impadronisce del fuso, si ferisce. Cosa la spinge? Il desiderio della conoscenza. Una costruzione culturale tenace è la fanciulla prigioniera; in alcune fiabe è innamorata del suo rapitore. Costui può essere mostruoso o violento; fa parte del nostro immaginario.
Nel cartone La Bella e la Bestia (1991), Disney offre una versione accattivante dell’originale. Tuttavia ne distorce lo spirito; ne fa l’archetipo della relazione eterosessuale abusiva. Sembra che la donna abbia una sola ambizione; riuscire a trasformare l’uomo. Niente di più lontano delle intenzioni di Madame de Villeneuve. Ella scrive nel 1740; la protagonista della sua storia si interroga sulla capacità di rifiutare le avances sessuali, di persistere nel rifiuto. Belle è un’eroina del no; ha potere di vita e di morte sulla Bestia. Le quattro versioni filmiche coincidono in alcuni punti; e tutti divergono dal racconto letterario. Belle è imprigionata da una Bestia che la ripugna; man mano che si abitua al suo ospite, ella coglie una bellezza interiore che si oppone alla mostruosità esteriore. I film insistono sulla dualità della Bestia; nessuno di essi mostra un vero consenso da parte di Belle. Il suo difetto di agentività è amplificato dal ruolo attribuito agli uomini; Madame de Villeneuve non ha scritto nulla di tutto ciò. Ella mostra la lotta intima di un uomo e di una donna; e di una donna con se stessa. Non è un racconto di prigionia; Belle non è ostaggio della Bestia. Il mostro dipende la volontà di lei; solo un consenso volontario potrà spezzare l’incantesimo. Egli brucia di desiderio per la ragazza; ma non le usa violenza. Il castello è la metafora del consenso; la storia traccia il percorso che conduce all’unione volontaria dei corpi. Altri racconti si interrogano sul potere d’azione delle donne davvero prigioniere; reale o simbolica, la reclusione era quasi inevitabile. Ruoli come gabbie; era difficile uscirne.
Andromaca risponde alle attese della società verso le donne; incarna la perfezione della moglie e l’esemplarità della madre. Racine la rappresenta prigioniera di Pirro; costui la chiede in sposa. Se Andromaca rifiuterà, egli consegnerà Astianatte ai greci; il bambino sarà messo a morte. Nell’Andromaca la tensione tragica si fonda sull’indecisione della donna; prevarrà la moglie di Ettore o la madre di Astianatte? Racine scioglie la aporia; la sua Andromaca affranca il figlio e riconquista il potere perduto. La tragedia, scritta nel 1667, è dedicata a Enrichetta di Inghilterra; la quale è una madre e una donna di potere. Come viene vista Andromaca? I contemporanei colgono l’accezione di vedova; chiusa per più di un anno in un lutto ostinato. Nel XVIII secolo la percezione cambia; ella è una madre, sventurata, dilaniata dal dubbio. Esita a sacrificarsi per il figlio; medita il suicidio. Combatte contro Pirro, contro sé stessa; segue la strategia della resistenza passiva. Non risponde né sì né no al ricatto; si ritrae, si sottrae. Vince; proprio perché non decide, come esige Pirro. E perché non si sacrifica; con questo rifiuto rinnova l’eredità di Ettore, ottiene un regno ad Astianatte.
Medea incarna un altro modello femminile; è la madre mostruosa, capace di uccidere i propri figli per vendicarsi del marito. Desidera tutto ma tutto perde; l’amore coniugale, la maternità piena, il potere. Medea è l’opposto di Andromaca; ma anche a lei un uomo impone una scelta sacrificale. Il ricatto di Giasone la annienta nella sua essenza di donna; cancella tutto il suo passato. Sposa o madre? Medea non è in grado di scegliere. Esprime il rifiuto in uno slancio distruttivo verso i figli; ma anche, e soprattutto, verso sé stessa. La nostra cultura evoca spesso la “vittima consenziente”; una figura che non esiste. L’espressione stessa è un ossimoro; una parola rimanda alla passività, l’altra al potere d’azione. Come l’animale sacrificale, la vittima non sceglie il proprio destino; il consenso implica un atto volontario.
Prima di Marilyn Monroe, Norma Jean Baker; una ragazza come tante, come tante una facile preda. La giovane età, la bellezza, la fragilità la espongono alle insidie degli uomini; già violentata nell’infanzia, a otto anni, gli abusi segnano la sua vita. Fino ai trentasei; appena una settimana prima della sua morte. Le violenze sessuali fanno di Marilyn un fantasma. Cos’è lo stupro se non una effrazione dell’anima? La vittima sopravvive; ma il corpo è inibito, lo spirito dissociato. La biografia di Marilyn omette gli stupri. Perché? Marilyn Monroe è diventata un’icona sessuale; difficile accettare che quel corpo tanto ambito sia stato oltraggiato. L’idea dello stupro non si concilia con il mito di un sex-symbol.
Mito; come Elena, divina bellezza, quasi una Marilyn ante litteram. Anche Elena è stata abusata in gioventù; anche il suo stupro è taciuto. Esse condividono un destino; sono strumentalizzate per la straordinaria bellezza, immortali come dee, eteree come sogni. Ma entrambe incarnano la profonda vulnerabilità della donna; sole, in cerca di un senso. Come la galanteria, anche il libertinaggio è sotto accusa; per molte femministe esso rientra nella cultura dello stupro. Il libertinaggio sarebbe un velo; da una parte nasconde il rifiuto delle donne, autorizza l’abuso. Dall’altra permette di fingere resistenza; evita di esplicitare il consenso al rapporto sessuale.
Le relazioni pericolose (1782) di Choderlos de Laclos è considerato un romanzo libertino; in realtà vuole essere un’opera morale che educhi lettori e lettrici. Laclos si esprime con cruda chiarezza; le donne sono ridotte in schiavitù. L’emancipazione richiede un cambiamento radicale; è necessaria una rivoluzione. Il termine “relazioni” non va inteso in senso amoroso; esso indica le frequentazioni. Il romanzo di Laclos è un avvertimento a vigilare; il pericolo viene da chi si introduce nel nucleo familiare. Un amico, un conoscente, un parente; l’aggressore non è mai estraneo alla vittima. Cécile sopravvive alla violenza; è forse colpevole? Non ha opposto sufficiente resistenza? Ha espresso un tacito consenso? Nei casi di reati sessuali, la vittima deve provare che ha cercato di resistere; spesso l’aggressore si appella alla debolezza di quei no, pronunciati ma non sentiti.
Il rifiuto dei codici amorosi è gridato a gran voce da Olympe de Gouges; nella Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791) ella esorta le donne a emanciparsi dalla seduzione. Accusa gli uomini di limitarle alla bellezza; nel contempo, si scaglia contro quelle che si servono del fascino per raggiungere i propri scopi. Olympe sollecita le donne a uscire dalla sottomissione volontaria; essa si manifesta nell’intimità del talamo. Il loro è un regno carnale; che usino la libertà, non solo il corpo. Occorre che rinuncino al “diritto di piacere”; allora si imporranno anche in ambiti quali la politica e l’economia. All’epoca il messaggio di Olympe era difficile da comprendere; le donne avrebbero dovuto deporre l’unica arma di cui avevano sempre disposto. Si sarebbero trovate inermi; vulnerabili.
Altrettanto difficile oggi comprendere il rifiuto della principessa di Clèves; l’eroina creata da Madame de Lafayette, calunniata, denigrata, derisa. Il fascino di Mademoiselle de Chartes fa battere i cuori di molti gentiluomini; anche quel seduttore del duca di Nemours ha perso la testa per lei. Ma la giovane deve sposare il principe di Clèves; rimasta vedova, potrebbe unirsi all’amato Nemours. La coppia convola a nozze? No; la donna rifiuta. Rinuncia all’oggetto del suo amore; e rinuncia all’amore. La scelta della principessa appare incomprensibile; gli intellettuali francesi del XX secolo la accusano di frigidità. La lettura maschile trascura le ragioni della donna; ella rifiuta il mondo dei compromessi. Non dice no per paura del sesso, per viltà, per ritrosia; cerca la pace dell’anima, l’emancipazione. Come figlia, suddita, moglie è stata sottomessa; la vedovanza le dona una nuova libertà. La principessa è libera; di non dipendere da un uomo, di non lasciarsi corrompere dal desiderio maschile. Una donna forte, sofferente ma ferma è Berenice; una regina, amante dell’imperatore Tito.
Berenice è un unicum nella produzione di Racine; a differenza delle altre tragedie, non si conclude con una morte ma con un accordo. Tito deve sottomettersi alla legge del Senato; essa comporta il sacrificio di Berenice. La regina non viene lasciata; gli amanti decidono insieme di dirsi addio. Louis Racine spiega che Berenice è un palinsesto; vi si intrecciano più storie di separazione. L’amore impossibile di Tito e Berenice ne adombra un altro; quello altrettanto illustre e impossibile tra Luigi XIV e Maria Mancini. Maria è bella, brillante, appassionata di arte e lettere; ed è la nipote del cardinale Mazzarino. Luigi ne è affascinato; si invaghisce; perde la testa. Vuole sposarla; ma quel matrimonio non s’ha da fare. Maria Teresa d’Austria è già stata promessa al Re Sole; è in ballo la pace dei Pirenei. Mazzarino fatica non poco per persuadere Luigi; anche Maria è tenace. Poi il nodo si scioglie; Francia e Spagna si uniscono nelle nozze reali. Come è stato possibile abbattere quel muro di ostinazione? Né i ricatti, né le minacce, né le suppliche di Mazzarino hanno potuto tanto; piuttosto il no di Maria. Il cardinale zio ne loda l’eroismo; la fermezza d’animo pari a quella di Catone di Utica. Maria ha fatto vacillare il regno, per lei la pace dei Pirenei è stata sul punto di sfumare; ma del suo rifiuto nulla resta. È stato cancellato; come quello di Berenice. Tito è lacerato dal dilemma; deve tenere fede alla legge o alla promessa di sposare Berenice? Sarebbe comunque uno spergiuro; Racine trova la chiave. Mette in scena il trasferimento del potere decisionale; Berenice scioglie l’amante dalla promessa. L’atto di grazia le conferisce una agentività potente; non è una sconfitta. È ribellione al compromesso.
Gli uomini hanno puntato lo sguardo sulle donne e sulle loro opere; ve lo hanno tenuto fisso per secoli. La visione maschile ha messo all’angolo quella femminile; si è sovrapposta a essa, l’ha scalzata. Questa inveterata fissità ha prodotto una mutazione delle retine; tutti, tutte oggi guardiamo la cultura classica con retine maschili. I no delle donne propone una doverosa operazione filologica; ripensare i classici attraverso il rifiuto femminile. Questa rilettura non cancella il passato; permette anzi di indagarlo, di comprenderne le sfumature, di cogliere aspetti in ombra. Immaginate un dipinto; il restauratore gratta la superficie pittorica. Sotto vi scopre un’opera celata; la restituisce al mondo. Il recupero dell’archeologia del rifiuto consente di riappropriarsi dei modelli; di tornare alle autrici dimenticate e dare voce ai loro no. E le retine si avvierebbero alla guarigione.
Written by Tiziana Topa
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Jennifer Tamas, I no delle donne, Marietti 1820, 2023