“Storia del mio nome” di Silverio Scognamiglio: il mondo è una mezza mezzadria?

Come sa bene Silverio Scognamiglio, autore de Storia del mio nome, edito da Historica edizioni nel 2023, e se non lo sa lo impara mo’, l’effetto tunnel quanto-meccanico consente una transizione a uno stato impedito dalla meccanica classica. Si tratta di un paradosso quantistico, un andare oltre la comune doxa che si ha della realtà in cui si vive.

Storia del mio nome di Silverio Scognamiglio
Storia del mio nome di Silverio Scognamiglio

Una particella non può superare una barriera, se è priva della necessaria energia. Poiché le funzioni esponenziali non sono mai riducibili a zero, deve pur esistere una pur minima possibilità che essa, prima o poi, riesca a passare. Spari un protone contro una barriera supermassiccia: il 99,99% delle volte per lei sarà fernuta… L’ultimo 9 però non è infinitamente piccirillo, e la misura delle probabilità non sarà mai uguale a 100%: similmente, nulla è azzerato, ‘n coppa a ‘sta terra. Tutto prima o poi può, e perciò deve, necessariamente accadere. Speròm!

E questo, che c’azzecca col romanzo Storia del mio nome di Silverio Scognamiglio? La risposta è immediata: tutto quel che si può pensare, dire e scrivere, c’entra, diversamente non esisterebbe, né sarebbe pensabile, dicibile, scrivibile: esiste secondo Il caso e la necessità, direbbe Jacques Monod. Christo è tutto!

Un’usanza accomuna diverse popolazioni, nella fattispecie i gavassesi, gli apache e gli anastasiani. Prima di uscire di casa, è opportuno controllare d’avere il portafoglio in tasca e la lingua in bocca: chi tene a lingua va ‘n Sardegna, dicono, a casa dell’autore. Ma anche due lire in tasca possono aiutare, anche se oggi due euro di certo non bastano. Ma è già qualcosa, per cominciare. Gavassesi e apache, e pure gli anastasiani, possono giovarsi, nel loro cammino, ‘d ‘na giarlèina ‘n bóca, una ghiaiuzza che, tipo chewing gum, aiuta a rilassarsi e a pensare ad altro, piuttosto che alle amarezze della vita. Aiuta anche la salivazione, diceva Geronimo pard di mio zio Dino, il quale ogni tanto annuiva.

E questa è la storia dell’io narrante del presente romanzo Storia del mio nome: consumare alcune ghiaine, ché ogni tanto vanno risputate e rinnovate, per poter arrivare dove si deve andare, come capitò a Totò e a Peppino, quando si trovarono soli e sperduti nel guazzabuglio milanese.

La storia del nome di Silverio è la meta, una delle tante, ergo non quella finale. Il bello di una meta sopraggiunta è che ti permette di sederti un attimo, per poi recarti oltre di essa, dopo un po’, non subito, con santa calmèina, dicono a Rèş.

Cosa rinverrà in futuro l’ottimo autore? Cosa ci donerà ancora? Lo si saprà a suo tempo, non prima. Se il tempo è un’illusione, come dicono certi fisici, tipo Carlo Rovelli etc, non bisogna attenderlo, ma viverlo hic et nunc. Ed è il modo di agire dell’io narrante in questione, che nella fattispecie si chiama Antonio Simone. E a vivere l’attimo come fa lui, in pochi ci riescono.

Il fine dello scrivere è allora cercare una pur momentanea fine di un cammino, e la frase è volutamente apodittica. Solo dopo aver scritto, s’è scritto, e si ha diritto a una sosta, in cui ci si può ritemprare lo spirito per iniziare poi un ulteriore cammino.

Nel Prologo, lo scrittore spiega come sono andate le cose e perché lui è lì che le spiega. Da ragazzino lavorava d’estate in una tabaccheria insieme al nonno Silverio, che un triste giorno trasvolò Colà, ma la tabaccheria rimase di qua, con tutti i suoi cari che gemevano per la tragedia, e che ancora non sapevano come e a chi sarebbe essa appartenuta.

Un luogo lo si impara a conoscere quando cessa la sua funzione e ci si chiede come sia possibile che non ci si sia accorti di quante cose conteneva, e che ancora sono lì, in una nuova dimensione, in parte ancora nostra e in parte perduta. Per cui urge la voglia di cercarla, e talvolta la si rinviene, magari stropicciata, però è ancora ammucciata lì, per cui basta estrarla e assestarla un po’, prima del suo ri-utilizzo.

Una volta “… c’erano gli amici del nonno che frequentavano la rivendita soprattutto per fare due chiacchiere e per i quali erano sempre pronte delle comode sedie…” – chiamala, se vuoi, e visto che tante volte ti sei seduto su una di quelle sedie, greca ospitalità. E ora tutto questo doveva essere rinegoziato, risistemato…

Prima di scrivere questa mia reazione letteraria, mi sono recato a Sant’Anastasia, per vedere, oltre la Madonna dell’Arco, anche ‘sta tabaccheria. Il Santuario m’ha colpito molto, per il fervore delle preghiere; la tabaccheria un po’ meno, forse perché somigliava a quella che c’è in via Adua, sotto casa mia, ma con due gradini da fare, per entrare.

Un altro fine della scrittura, come accadde a Marcel Proust, è di far rivivere il tempo che pare essersi allontanato, anche solo un po’, alcuni decenni o al massimo un paio di secoli. O poco più.

“Scurpione adorava mio nonno.” – e, chiagnendo all’esèquie, ebbe la consapevolezza di aver “perso l’unico amico che aveva.” – una parte di sé s’era ormai imboscata chissà dove e forse mai più sarebbe riemersa alla luce. Che fortuna è quella di chi sa scrivere (bene o male, poco importa), potendo egli riscoprire nella memoria qualsivoglia fatto, anche quello non (ancora) successo, per poi rifletterlo sulla fraterna carta.

L’autore è una persona onesta, quando dice che tutto quanto egli dice è vero, “tranne quello che ho inventato.” – rinvenuto per puro caso nei meandri della memoria propria e altrui, dove non si travisa nulla, ma tutto si può ri-creare ex novo: c’è un intero mondo, covato là dentro, per cui occorre solo estrarlo, con santa pazienza, magna cum calma, come diceva mi pare Cicerone…

L’autore (o il suo avatar) sta cercando un volume che era caro al nonno e, dopo averlo trovato, nota che, nel sacco che lo contiene, ci sta tutta ‘na massa ‘e papielli, di “fogli vergati a mano”, il cui primo è così intestato: “Sant’Anastasia, gennaio mille ottocento sessantaquattro”.

Dopo questo piccolo accadimento, inizia la storia che Silverio Scognamiglio ci sta tramandando.

Fu e sarà vera gloria? Mo’ virimmo! E ancora speròm…!

L’io narrante è “Antonio Simone – “trisavolo” dell’autore, il quale tanto ha da raccontare e non è tipo che si tira indietro. Dev’essere stato un tipo tosto e, se Silverio ha preso da lui, lo scopriremo solo leggendo.

Così l’io si presenta: “Nacqui nel comune di Sant’Anastasia nel mille settecento novantatré…”.

Non rivela il proprio nome, ma solo che il “padre Domenico faceva il bracciante agricolo ed era preoccupato di non riuscire a sfamarci.” – un’ansia non da poco per chi ha messo su famiglia, allo scopo di tramandare i propri nomi e valori. La possibile fine dei quali equivarrebbe a un’orrida tragedia, che finché incombe non c’è male, vuol dire che ancora non è compiuta, ma… che si darebbe perché si potesse rimandarla in eterno! Il destino è infame, perché tergiversa se pare a lui.

Nonostante ‘ste problematiche, l‘io principia a dire: “La mia era stata senza dubbio un’infanzia serena.” – ed è qui che cova il dubbio che finché c’è fame c’è speranza, soprattutto se il cibo, sia pur scarso, alla fine, stuorto o muorto, à d’ascì fòra!

Un’infanzia non è tale se non esiste almeno un carissimo amico, con cui potersi scambiare le rispettive gioie e paure. Nel caso di Antonio Simone questi si chiama (ma è nu scangianòmme) “Saccone” – “… perché era vestito con dei sacchi di juta, da lui stesso cuciti…” – la descrizione che ne fa l’amico è intrisa d’affetto e di solidale pietas. L’amicizia è una religione, c’è chi ci crede e chi no. Saccone ha quasi un’aria da ministro del culto ed è “un gran raccontatore di fiabe” – e di certo quel suo mestiere insegnerà ad Antonio Simone a dire di sé e di chi ama.

Che Saccone sia una parte importante della sua vita è, paradossalmente, la prova che non piace al padre: “A parer suo, mi metteva strane idee nella testa e per questo m’impose di non rivederlo più.” – e una delle inconsapevoli funzioni di un ordine genitoriale è che finisce per suggerirti come schivarne gli effetti.

Che tutto il mondo sia una mezza mezzadria, lo si scopre a pagina 32, quando Antonio Simone, anche grazie agli insegnamenti ricevuti da Saccone, scopre che il “bottegaro” che aveva fatto degli strani calcoli intorno alla “merce” che intendeva comprare dal padre, e qui scoprì l’inganno. Chissà quante volte accadde lo stesso anche dalle mie parti, allorché il padrone o il mercante calcolava le spettanze da versare a chi non era tanto in grado di “far di conto”.

“Sentivo nascere dentro di me l’invincibile desiderio di conoscere il mondo, mentre loro eran soddisfatti della condizione in cui vivevano e non cercavano sull’altro.” – e questo pronome, loro, la dice lunga fra la distanza che ormai li separava da lui.

Il mondo nuovo era iniziato con quel “Saccone” e si sarebbe allontanato sempre di più, per ì chissà dove. Ad Antonio Simone non restava che corrergli appresso, affrettando il passo!

Un cammino non ancora fisico, per ora, ma letterario: Saccone gli dava sempre nuove opere da leggere e gli faceva conoscere alcune celebri personaggi che erano colà capitati per caso, perché forse qualcuno li aveva colà immaginati. Due nomuncoli a caso: Donizetti e Leopardi. Su Donizetti, l’attento autore, che è preciso come un dito nel… nonsipuòdire, precisa, nella nota 21, che a Pollena Trocchia c’era iuto veramente. A piedi ci si arriva in meno di mezz’ora da casa di Antonio Simone e, a quel tempo, si camminava più spediti di oggi, anche se non c’erano i monopattini elettrici!

Sul Leopardi napoletano s’è scritto fin troppo, che è inutile aggiungervi ulteriori chiose.

Nel frattempo ad Antonio Simone capita di tutto, qualcosa d’immenso e di tragico, ed è tutto ancora racchiuso in quel vetusto sacco, che io non voglio svuotare se non nel modo che mi va. Leggete ‘o papiello ‘e Silverio e saprete, amici cari.

La presenza del padre incombe sempre, egli ama troppo il figlio ma non sa rendersi simpatico, per cui il suo consanguineo rimane sorpreso, dice, “quando mi chiese di insegnargli a leggere.” – non so quante volte sarà capitato nella storia dell’umanità un miracolo simile, ma, foss’anche il primo, che bello che è!

“Mia madre, per contro, si rifiutò sempre d’imparare.” – a lei (e ad Antonio Simone) bastava che sapesse leggere nel cuore a quel congiunto tanto amato. Per una madre un figlio, in parte, resta sempre covato nell’umido alveo suo!

Uno vivace proverbio arşân recita: tót i cajòun a gh’án la só pasiòunamore, amico (e pure kāma sūtra: ma che c’azzecca?!) derivano dal sanscrito kam’a che vuol dire passione. Antonio Simone ne ha tante di passioni, che manco lui le conosce tutte. Ma soprattutto anela alla sua umana libertà.

Si dice che, passata la festa gabbato lo santo, e poi si può ricominciar a peccare, ma questo non capita con la tragedia, ché essa rimarrà sempre a rigirare le sue impietose lame dentro l’anima.

“Sempre più spesso andavo a trovare il mio amico Saccone perché sembrava essere l’unico a capire il dispiacere che stavo provando.” – e che nulla e nessuno potrà più annullare.

Per fortuna c’è la poesia, e un suo immenso interprete, il citato Leopardi, che a chi soffre sa donar la speranza. E, nel porgergliela, un po’ se la prende anche lui, e poi essa si riforma, perché è come il frutto che penda da un ramo d’un pero malato, che, una volta che è caduto in terra e poi mangiato, prima o poi, in qualche modo, tornerà alla terra, e farà ricrescere una pianta, simile a quella originaria, e forse cchiù bella che pria!

Per chi ignora che sia un pero malato, si sappia che è un albero i cui frutti, succosi e amarognoli, contengono una macchiolina bruna al loro interno, parendo perciò nu poco patuti. Questa è la vita…

Si dice: Panta rhei!, e purtroppo, e per fortuna, è proprio così. Discorrendo col caro amico, Antonio Simone dice: “Convenimmo insieme che l’amore m’avea salvato...” – e come quel folle sentimento, pur scorrendo a tempo determinato e intermittente, possa salvare l’umanità, è arduo da capire, ma basta qui leggere la storia di un uomo che si nomava Antonio Simone, perché ci s’illuda un po’.

Partire è un po’ morire, ma a volte è sopravvivere a una tragedia: “M’era tornata la voglia di viaggiare pel mondo e a questa s’era unita la voglia di fuggir da’ tristi ricordi che avean segnato gli ultimi mesi della mia vita.” – essa è sempre rimasta nel tuo cuore, Antonio Simone caro…

Silverio Scognamiglio citazioni
Silverio Scognamiglio citazioni

Una certezza cova nell’ombelico del mondo: la partita non finirà mai a reti inviolate, ché qualche golletto ci scappa sempre, da una parte e dall’altra: “Quella notte non riuscii a pigliar sonno, ma, ripensando in seguito a ciò ch’era succeduto, ebbi la certezza che quella non era stata una sconfitta, ne sì una vittoria.”clamoroso al Cibali! La frase di Sandro Ciotti, sessant’anni dopo, tanto è incerta (come attribuzione) quanto (for ever) catartica!

Antonio Simone, quando vai a salutare la madre di Saccone, dici che lei: “M’abbracciò piangendo.” – e poi ti fece il più bel regalo della tua vita: dei libri (“tra cui il Viaggio in Italia di Goethe”: l’aggiò accattà!) e “un paio di sandali” – grazie a cui il mondo potrà essere finalmente percorso da te.

Quel che combini d’ora in poi, è solo affar tuo, nonché del tuo lettore, e nun ce metto lingua, come soleva dire Pappagone. Ma poi mi contraddico all’istante (essendo questa la perenne funzione dello scrittore: rinnegare se stesso, per dir meglio di sé).

Tu scrivi che:l’unica cosa che avevo voglia di fare, alla sera, era perdermi ne’ miei adorati libri”.

Scopri poi il gioco degli scacchi e incontri colei che ogni tanto ti sa vincere, e quando ciò capita, ella “s’abbandonava a chiassose risate e principiava a canzonarmi.” – questa è la funzione della dolce Eva, caro il mio Adamo. E finché lo farà, buon pro sarà per te.

Tutto, dopo essersi sfacciato, prima o poi si ricompone, persino il futuro: Śiva e Visnù, Yin e Yang.

Bello è quell’episodio in cui il tuo ritrovato padre ti narra un fatterello della sua giovinezza e che spingerà, come già dissi, il sottoscritto a cercare il libro di quel Giovannino Lupacchiotto che avanza nel sentiero – che pare il nome di un sachem navaho, quale, in fondo, quell’uomo universale, che così lo disse Eliot, fu.

Quando quell’ondoso fiume la smette di scorrere è perché è giunto al placido mare ma, al contempo, ‘ncoppa a ‘o monte, ci sta un nuovo rivo strozzato che gorgoglia”, come cantava Montale. E sai bene che, allorché un vulcano ha smesso d’eruttare, il terreno, dopo un po’, più fertile sarà.

“Quei momenti sono stati i più felici de la mia vita e sempre ringrazio Iddio per aver concesso a me di viverli.”

Lo sai, amico caro, cosa apprezzo più in te? Non è il tuo amore, che tanto somiglia al mio, per i libri. È la capacità che hai di conversare col tuo prossimo umano.

Chiunque abbia letto almeno due tomi, sa che l’uno è consanguineo e financo consapevole dell’altro, come se i due autori fossero stretti consanguinei. In Oltre la superficie di Nunzio Galantino, che è attualmente posato sul mio scrittoio, a fianco del tuo, leggo, a pagina 122: dialogos; parola che, come un diametro, attraversa uno spazio condiviso.

Tu hai avuto dei problemi con alcune persone, fra cui il più meritevole di compassione è stato il tuo beneamato padre. Dialogando fra voi, vi siete alla fine compresi e rallegrati: e non è questo il più inclìto dei miracoli?

Sai che non credevo di poter scrivere nulla della tua storia, la quale è una favola chiusa e perfetta in sé, ma poi ci ho provato. E questo è l’unico modo, attestato dall’esperienza, per scongiurare il fallimento.

E poi, con quella ghiauzza in bocca, chillo vrèccillo in du mùsso, a poco a poco il mio cammino s’è avvicinato alla sua riconoscente

Fine.

Ma in che senso, non ho capito, questa è la storia del nome dell’autore Silverio Scognamiglio?

“E che ne sacci’io, che/ manc’aggio lietto ‘o libro!/ Là ci stan scritte tutt’e cose!/ Ite… e facite vui, guagliù!/ Ma facite in pressia ca/ ‘a vita è sì bella, ma…”

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Silverio Scognamiglio, Storia del mio nome, Historica edizioni, 2023

 

2 pensieri su ““Storia del mio nome” di Silverio Scognamiglio: il mondo è una mezza mezzadria?

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