“La casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli: un poeta in profonda crisi

La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli è un romanzo psicologico (ma quale non lo è?) diviso in tre sezioni, che comprendono vari capitoli di diversa lunghezza (e fino a qua nulla di nuovo).

La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli
La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli

Mencarelli, poeta e narratore, è nato a Roma il 26 aprile 1974, e vive ad Ariccia (e fin qui tutto bene). A pagina 4 de La casa degli sguardi leggo: “Questo romanzo è frutto dell’immaginazione gli eventi di cronaca e i personaggi realmente esistenti o esistiti sono trasfigurati dallo sguardo del narratore. Per il resto, ogni riferimento a persone e fatti reali è da ritenersi causale.” – punto.

Sto ora pensando all’avvertenza che Silverio Scognamiglio ha posto quale esergo del suo romanzo Storia del mio nome: “Le persone descritte in questo romanzo sono tutte esistenti o esistite e i fatti narrati sono tutti realmente accaduti, tranne quelli che ho inventato.”

Con un’incerta trepidazione inizio a leggere il romanzo La casa degli sguardi, dopo che una mia consanguinea m’ha informato che esso è molto ansiogeno, anche se… poi… Punto molto a quell’anche se… poiMa cosa m’aspetto, in definitiva?

Leggo un commento di Daria Bignardi in quarta di copertina: “Quando un poeta si mette a scrivere un romanzo e ha una storia fortissima da raccontare il risultato è un piccolo capolavoro.” – detto così, senza virgole né pause. Mi fa venire in mente una frase che sentii pronunciare in un film di Sergio Leone: “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola” etc etc.

Lo scrittore ha ogni sorta d’armi, il lettore ha quella momentaneamente definitiva. Un ossimoro? Sì. Chiunque può essere un filosofo, anche uno schiavo, dice Socrate. Chiunque può essere poeta e scrittore, purché sappia articolare le parole. Di un individuo sordo-muto-cieco si può sempre dire che ha un sorriso poetico.

Nei libri chi comanda non sono più le persone ma le parole, come in musica non sono i suonatori ma i suoni e, nelle arti figurative, non sono i ritrattisti o i paesaggisti ma il segno inciso e più o meno colorato. Ogni arte ha le sue regole.

La principale regola di un romanzo è che deve avvincere con la sua storia, che è fatta di infiniti e minuscoli attimi, ognuno dei quali dev’essere avvincente. O noioso, se il suo scopo è descrivere la noia. O controverso, se deve illustrare quel modo di girare la testa vorticosamente da entrambe le parti, su e giù, dentro e fuori una bottiglia di bianchetto (o una lattina di birra).

Daniele Mencarelli (il protagonista, che è omonimo dell’autore, nato persino nel medesimo giorno e abitante anche lui ad Ariccia) è un etilista pressoché allo sfacelo. Anch’egli, come già accadde all’autore, svolge un’attività lavorativa presso un ospedale (il medesimo: Bambino Gesù, ospedale pediatrico, che è anche il titolo di un scritto dell’autore edito da Tipografie Vaticane nel 2001). Anche lui, da piccolo, vi fu ricoverato. Ma prima di arrivare a lavorarci, Daniele personaggio deve superare, almeno in parte, alcuni grossi problemi.

La prima sezione del romanzo La casa degli sguardi è intitolata Il paese.

“‘Non ricordare nulla’ è il mio obiettivo della sera.” – e no… non ci siamo… e di che scriverai? Della tua assenza di ricordi? Non è facile. È pressoché impossibile. Anche Oblomov di Ivan Goncarov, il personaggio più indolente della storia letteraria, è frutto di ricordi, anche se solo immaginati, dall’autore.

Si ricorda col cuore, come si rammenta con la mente e si rimembra con le membra: ma passa tutto dal cervello, che è un organo biunivoco (cioé bipolare), perennemente teso fra due opposti: indolenza e frenesia; per cui ricorda, rammenta e rimembra quel che gli pare, a seconda del caso.

Daniele, stai descrivendo tua madre comeuna rabdomante sfortunata, la sua acqua sono tre figli da custodire…” – l’ultimo dei quali, tu, è come se scorresse in un bidè incrinato. Perdonami la metafora.

Dulcis in fundo: nel tuo caso è un Dolcetto d’Alba – anche questa è una mia metafora, in realtà tu preferisci altri vinelli, birracce etc… Detto in tre parole: sei un alcolizzato. Se vuoi ne specifico la qualità: cronico

“Perché io scrivo poesie, un paio d’anni fa ho esordito…” – ok, allora hai una chance.

“Ma la poesia lo testimonia il dolore, non lo cura.” – molto bella, questa. Su qualunque nuvoletta egli sia, Arthur Rimbaud si è ora alzato e ha iniziato ad appl… No, non riesco a vedere che fa, la sua immagine è piuttosto confusa.

A leggere L’infinito di Giacomo Leopardi si capisce quanto potere distraente abbia la poesia. Lo stesso Arthur diceva di sé: Je est un autre!

“… il male sono io, io sono quello che sta distruggendo tutto…” – e sei anche il capo-cantiere della tua esistenza, della tua scrittura, te ne rendi conto o no? Senza di te, l’edificio narrativo non sarebbe che un cumulo accatastato di mattoni, tegole, sabbia e cemento.

“… ormai passo da sobrio a straccio con mezzo bicchiere di vino…”anche Edgar Allan Poe lo era, poeta e narratore, e il paragone con lui è inevitabile. Anche a lui bastava un goccetto per inebriarsi.

Devi trovare una soluzione, la cerchi e un amico la trova per te: hai un appuntamento di lavoro. “… Sono le dieci meno dieci e in vita mia non sono mai arrivato in ritardo, me lo impone la mia insicurezza…” – io la chiamo sindrome di Rolando, ché me l’ha insegnata papà mio: meglio attendere un quarto d’ora piuttosto che un treno successivo. Vedi che qualcosa l’abbiamo in comune? È che viviamo in comuni diverse (questa io la chiamo piolata), per cui io a volte abuso un po’ col lambrusco. Diceva mio zio Polimondo detto Mondo, che aveva viaggiato e bevuto a sufficienza, al lambrósc al via con ‘na pisêda: non fa ubriacare: va più alle gambe che al cervello, per cui il problema è giungere asciutti al bagno. Occorre solo partire per tempo.

“… pensare al suicidio e metterlo in atto sono due pratiche completamente diverse…” – due attimi che si susseguono, chissà quanto indifferenti l’uno all’altro.

“…. il passato, rispetto a questo presente ingeneroso, ti arriva come una terra bellissima…” – anche se poi arrivi a dire: “… anche se non è così.”

Un saltellare su un piede solo, come nel gioco della vita (Rayuela, lo chiama Julio Cortazar): “… passo da parole vuote al vuoto assoluto in modo perfetto, indolore.” – da un ossimoro al pleonasmo il passo è breve. Occhio a non inciampare…

“Io non sapevo che i bambini morissero…” – dovevi andare in quel pediatrico ospedale per scoprirlo: ti stai facendo una cultura.

“L’infanzia è quella terra da portare in dote negli anni a seguire…” – anche nel tuo caso?

Ho deciso di riportare un riporto ogni tanto, avendone sottolineati troppo e stamattina (sono le cinque e mezza, non me la sento di esaurirli tutti. Fra poco devo uscire per una scocciatura non piccola. Mi limito perciò a dire che affermi di non capire. Siamo in due.

I tuoi piccoli successi nel lavare e pulire (sei stato assunto in una cooperativa di pulizie) mi ricorda di quando stupii il mio primo datore di lavoro, che era un muratore e che non aveva tanta fiducia in un ex studentello che pareva ed era imbranato. Quando mi disse di togliere con ‘na masôla  l’intonaco vecchio in una stanza da ristrutturare, compii l’operazione a tempo di record: tanto ero colmo d’energia distruttiva.

Definisci “Il Bambino Gesù” come “un luogo di tortura” – e lo è, in quanto lì si torce il male che è dentro la creatura che soffre: noi siamo perennemente obbligati in solido con la nostra sofferenza.

Passo ora a Toctoc, seconda sezione, in cui parli di quel bimbetto che fa toctoc su un vetro e poi gioca con te da lontano, facendoti le corna. Come ti comporterai tu stesso in seguito, non voglio ora parlarne, essendomi fin troppo identificato. De che vojamo parlà, alora…? De voi romani de’ Roma? Va bene. Una volta stavo aspettando un treno a Stazione Termini. Avevo cinquantamila lire in tasca e le volevo scambiare. Mancando ancora un’oretta alla partenza, m’accodai a una lunga fila per acquistare una scatola di sughini. La venditrice era del tipo Sora Lella, e quando le mostrai la banconota non mancò di fare notare ai presenti: Anvedistoimpunito…! Sèfattatuttanafilaperscambiàisordi…! Era la pura verità, perché la dovrei nascondere? Al che capii che a Roma non te la mandano mai a dire, ma in genere finisce lì. La Sora Lella mi cambiò la banconota e… amici come prima.

Dice un tuo collega: “Annamo un po’ a vede’de che morte dovemo mori’” – dopo di cui tu scrivi: “Il commento di Giovanni riempie tutti di ottimismo.”

Tu sei presente (e assente) a te stesso: hic et nunc… ma chissà se e cosa ricorderai… Chissà perché si dice romanacci e non palermitanacci?

Tralascio al lettore del tuo lettore, tuo prossimo lettore diretto, di astrologare un po’ sui rapporti fra te e i tuoi genitori, tuo fratello e tua sorella (tutte persone normali, e bevitori solo in caso di sete). Sono fatti tuoi e di chi ti legge, e di nessun altro.

E anche della musa che t’inquieta per la sua assoluta bellezza, e poi per la sua relativa pochezza. Non dirò altro che quello a cui ho appena accennato. Certa gente è meglio perderla che santificarla.

Una tragedia di cui sei informato a pagina 132 de La casa degli sguardi, ebbe un’avvisaglia a pagina 127. Ma lassamo perde

Passiamo ora alla terza sezione de La casa degli sguardi: Non chiudere gli occhi. Per cui, inevitabilmente, ripenso al titolo. In cui dici che ti capita di perdere il ricordo di quel che hai fatto, dopo una fantastica bevuta. Questo a me capita ogni notte, quando sogno di essere vivo e poi me scordo pure dov’ero e con chi.

Hai un appuntamento cogente ma fatichi a trovare la tua macchina. E qui me scade er mito: “La ritrovo con una multa sotto il tergicristallo.” – l’avevi parcheggiata maluccio. È che io ricordo con commozione quei tanti parcheggi a spillo (in verticale sul marciapiede, fra due macchine poste orizzontalmente), nella Roma del 1990 o giù di lì. Ormai anch’essa è diventata sanzionatoria quasi come nella Pianura Reggiana. Statte accorto, pischello, se ti capita di guidare fra Correggio e Carpi. Il pericolo maggiore è che da quelle parti si bada di più al tachimetro e alla presenza di autovelox che alla strada.

“Perché è morto, Toctoc?” – perché era la sua ora, avrebbe detto mamma mia. Perché piangere, allora? È come chiedere: perché essere uomini? Se tu fossi una gatta e ti prelevassero i gattini per annegarli da qualche parte, passeresti tutta una giornata a cercarli. Poi, la sera, ti metteresti il cuore in pace e inizieresti a leccarti una zampa. Ma noi siamo umani umanisapiens sapiens… almeno secondo l’opinione di un certo Björn Larsson, di cui un giorno ti parlerò a mezza voce, dopo la consueta tracannata. A te o al tuo horcrux. Per me cambia poco.

“… mi proteggo il cranio, ma il resto del corpo è terra di nessuno…” – te le stanno dando, a ragione o a torto, vedi tu. È come sparare all’ambulanza della Croce Rossa quando il suo autista è fatto d’alcol. Il bersaglio è un po’ instabile ma certo.

Una battuta che per capirla occorre leggere da pagina 180 in poi: “Oggi semo de vetri, dovemo fasse tutte er Salvati” “Bello, armèno s’abbronzamo.”

Poi incontri un bambino mostruosamente bello. E una suora mostruosamente santa. Lassamo perde anche questa, dai…

“Non serve capire, comprendere. Serve accogliere l’umano con tutta la forza che ci è concessa.” – e qui tocca al filosofo Edgar Morin alzarsi in piedi. Anche lui, che ha appena compiuto 102 anni, potrebbe fare un salto a quel Bambino Gesù. E offrirti un caffè (corretto).

“Perderò la luce di questo momento, non so se un poco alla volta o tutta in un solo istante.

Me ne porterò per sempre testimonianza, perché uno solo di questi momenti basta a illuminare una vita intera.” – uffa!, ancora quel versaccio!: A thing of beauty is a joy for ever di quel romanaccio di John Keats, che è sepolto al cimitero degli inglesi, lo sai dove, vero?, presso la Piramide de Noantri..

“… la paura più grande è il rovescio della speranza che stanno accarezzando.” – i tuoi cari. Ma come t’escono ‘ste minchiate... Belle però…

“Il dovere di scrivere. Perché non ho altro modo per testimoniare.”il poeta è un martire che sanguina, poche balle.

“Un altro potere della scrittura è la totale distorsione del tempo e dello spazio, le ultime due ore sono durate pochi minuti.” – ti stai allontanando dal tuo black hole. Sei come la radiazione di quel simpaticone di Stephen Hawking.

Ora hai (finalmente) un progetto, l’unico che ti è lecito: il tuo. Complimenti! A libertà, a libertà, pure o pappavall’adda prua’ ! – scusa!, m’è scappato il campano che sonnecchia in me. Uno delle tue parti disse ‘na volta che i napoletani se trovano dappertutto. Ti rigiri una merda che te trovi in terra e vedi che ce sta uno di loro. Certo che siete tremendi, voi romanacci. Secondo i romanisti i laziali sono quelli strani. Anche fra voi ve mendate a quer paese. Ch’è poi sempre la medesima Città Eterna.

Daniele Mencarelli citazioni
Daniele Mencarelli citazioni

“La scrittura esercita una forma di possesso spietata.” – a chi lo dici… Me so’ alzato alle 4, colazione al volo, latrina (romanamente parlando), computer, ed ecco (quasi) compilata (sono le 7 e 27) ‘sta reazionaccia al tuo romanzaccio.

Bello quel “lessema” di pagina 216 de La casa degli sguardi. Acquisito or ora. Grazie!

“Voglio ricordare tutto.” – sì, bonanotte ar secchio!

Parliamo ora della poesia che dedichi a Toctoc, che è il più bel personaggio che uno scrittore possa inserire in una narrazione: un malizioso elfo che te pija in giro perché vuol essere portato in giro da te, per non rimanere più chiuso in una stanzina d’ospedale: un captivus, prigioniero del male killer.

“… la sua voce dura di nocche,” – sempre busserà alla porta del tuo cuore – ed essa “continua a farmi casa del tuo sguardo” – questo per dare una mezza spiegazione al titolo del tuo romanzo. Ora Toctoc è anche mio fraterno amico.

Perciò il libro di voi due Daniele è anche mio. Io ho la vostra età. Più o meno. Fai conti che ho manco dodici anni quando scrivo: Sono un poeta/ non ho la pancia/ ho l’epa. La parola l’ho imparata a scuola stamattina: e m’ha colpito tanto! Allora di pancia non ne avevo per nulla. Mi chiamavano brêga vōda, braga vuota. Bei tempi (e manco sapevo che lo erano). A sette anni sono andato sotto una macchina. Sono vivo per miracolo. Una volta mia sorella (la consanguinea che ha letto il tuo romanzo prima di me) m’era venuta a trovarmi. L’infermiera, che mi prendeva sempre in giro, mi disse che lei era più bella di me. E io così le risposi: Sì, ma io sono più simpatico. Da Cape Canaveral, è tutto!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Daniele Mencarelli, La casa degli sguardi, Mondadori, 2018 ristampa 2023

 

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