“Vivere la morte” di Enzo Bianchi: un salvifico accesso a Dio

L’opera è divisa in due parti: la prima insegna l’importanza di Vivere la morte, in un’attenta disamina di quel che significa morire in Dio, cioé vivere la morte in Dio. La seconda è Imparare a morire, una silloge variegata di narrazioni di morti vissute da credenti in Dio, tratte da varie pubblicazioni.

Vivere la morte di Enzo Bianchi
Vivere la morte di Enzo Bianchi

Enzo Bianchi è un monaco cristiano, senza dubbio. Esaminando il suo profilo su zia Wiki, mi pare d’aver capito che il suo modo di esserlo non sia del tutto allineato. Per chi, come me, non è credente, questo fatto conta poco o nulla.

A pagina 19 leggo di:una grande lezione: Dio non impone mai la sua rivelazione all’uomo, ma gliela consegna, rispettando i tempi dell’apprendimento, a costo di vederla poi rifiutata, come un dono proporzionale alle sue capacità, alla sua carne, al suo sangue, alla sua mente, cioè, in modo globale, alla sua vita.” – il che mi consola non poco, perché a chi, come me, da ragazzino usava chiamare affettuosamente Dione, nel senso di Mio Grande Amico Dio, il suo Signore, e che poi, come all’improvviso, lo rigettò, forse (da fors-fortis) è, fin all’ultimo, consentito un esame di riparazione. A ‘sto punto mi chiedo se sia stato Dio, qualora Egli esista, o Chissà Chi, ad avermi imposto il rigetto della Sua Esistenza.

A pagina 29 leggo: “Solo con la conversione a Dio, con la ricerca del Signore per vivere in comunione con lui, con il rifiuto dell’idolatria – che è sempre adorazione di sé attraverso le immagini dell’uomo proiettate nel divino – si riceve la vita e si vive pienamente.” – questa considerazione mi fa rammentare quel che diceva il mio (si fa per dire) teologo Padre Aldo Bergamaschi, secondo cui convertirsi non era altro che fare una manovra a U, mettendosi nel verso  che conduce a Dio, essendo finalmente consapevoli della Sua Esistenzialità, a essa con-cordi.

A pagina 51 leggo che, dopo un numero ingente di eventi, “Dio è stato riconosciuto come vincitore della morte, capace di risuscitare quelli che sono nella polvere e di strapparli dalla gola divorante dello Sheol.” – che è il non-luogo destinato ai morti per sempre.

Citando ancora il mio Padre Aldo, egli ammetteva un solo miracolo di Gesù Cristo: la Resurrezione, la quale però non era da intendersi come la rianimazione di un cadavere, ma come un quid d’inesplicabile da un punto di vista scientifico.

A pagina 63 leggo che “la morte fisica” è “l’ingresso nel mondo della verità, della pace e della vita” – grazie a cui “i giusti” riescono ad abbandonare “la sfera di una realtà illusoria, in cui dominano gli empi e i povero sono loro sottoposti, per ‘stare nelle mani di Dio, dove nessun tormento può toccarli’.” – in altre parole è una Liberazione definitiva.

A pagina 69 leggo: “Chi invece non si apre alla chiamata di Dio e non trascende se stesso è già annoverato tra i morti che seppelliscono i morti.” – luttuosa espressione che m’ha sempre lasciato perplesso e che solo ora forse inizio a capire.

Anche per Gesù non è stato facile giungere ad accettare “il piano di Dio” che prevedeva il suo calvario e la sua morte. Quando finalmente lo accetta, egli giunge a dire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito.” – cioé la parte sacra, inesplicabile e ineffabile che è covata dentro tutti noi.

A pagina 87 leggo: “Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi.” – e questa è stata la Sua incredibile missione.

“Il discepolo deve intraprendere dunque il cammino dietro a Gesù come un con-morire con lui.” – il che mi fa pensare a quell’accordo dell’in sé (verso se stessi) con il per sé (verso gli altri) di cui parlava Jean-Paul Sartre in L’essere e il nulla, miracolosamente e definitivamente convergenti in un’esperienza così totale che, alla fine (parola che ben s’inquadra col termine morte), si re-inizia una nuova esistenza, giungendo “a non conoscere più se stesso, a rinnegarsi, per far vivere in sé il Cristo.” – ed è quest’assurda re-incarnazione che chi ha fede in Dio intende augurarsi.

Come leggo a pagina 92 “Il cristiano è dunque un essere-con-Cristo nella morte e nella resurrezione: essendo la sua morte anticipata e inscritta nella sua carne attraverso il battesimo, egli è vivente per sempre.”: da cui deduco che la morte è un attimo in cui si sostanzia la scelta di un passaggio, che è già in fieri durante la vita, e che è la tappa necessaria di un eterno cammino.

Leggo a pagina 94: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” – e questo è scritto in (1Gv 3,14).

Nella pagina seguente leggo:L’amore più grande della morte, più forte della morte e degli inferi (cf. Ct 8,6) può farci gridare che nessuno ormai ci separerà dall’amore di Dio.” – e qui sorge una mia perplessità: quel più significa una dimensione maggiore nel senso previsto da un’unica unità di misura, eventualmente di natura ineffabile e divina? O si tratta di grandezze naturali ed eterogenee, per cui tale comparazione è solo un modo di dire? Ha senso dire che Dio è più forte e pesante del campione mondiale dei pesi massimi? Oppure i due soggetti sono incommensurabili? Può sembrare una battuta gratuita, ma garantisco che per me non lo è.

La Parte Prima si conclude a pagina 130, dopo un continuo e quasi estenuante ribadire che la morte di un cristiano è, per quel fortunato, un salvifico “accesso a Dio”.

La Parte Seconda è, se possibile, più terribile della precedente. Si tratta di 50 narrazione di morti di uomini illustri, fra cui alcune figurano personaggi biblici, qualche ebreo, qualche ortodosso, persino un luterano, tre sufi e numerosi cristiani, per lo più ma non necessariamente riconosciuti come santi: tutte persone dotate di un’esemplare virtù.

Una frase a pagina 188 mi fa reagire: alla domanda che “Dione” – omonimo del mio Signore infantile – pone a Massimiliano, che fu “martirizzato a Teveste, in Africa, nel 295 per essersi rifiutato di servire nell’esercito imperiale” – su quale motivazione lo “ha spinto a questo” – e quel sant’uomo risponde: “La mia coscienza e Colui che mi ha chiamato.” – ergo una funzione l’ha svolta anche il suo libero arbitrio, che Dio pare concedere a chiunque. Il martire non crede a un Fato inevitabile ma si de-stina, ed è lui a scegliere di seguire Dio. Ma potrei aver frainteso qualcosa.

Nel caso di Antonio il Grande una frase, che leggo a pagina 194, mi lascia perplesso. Egli dice ai suoi con-fedeli: “Seppellite voi il mio corpo e nascondetelo sotto terra e custodite in voi la mia parola perché nessuno, tranne voi soli, conosca il luogo in cui è deposto il mio corpo. Nel giorno della resurrezione dei morti io lo riceverò incorrotto dal Salvatore.” – questa preoccupazione somiglia al ragionamento che fece un mio conoscente cristiano, per cui ardere i cadaveri renderebbe impossibile la resurrezione di quei corpi: come se la cremazione potesse ostacolare il compito di Dio alla fine dei tempi.

La stessa preoccupazione pare avereArsenio, padre del deserto”, che dice ai “suoi discepoli”; come leggo a pagina 199: “L’ora non è ancora venuta; quando arriverà, ve lo dirò. Ma sarò giudicato insieme a voi davanti al tribunale tremendo se darete a qualcuno il mio corpo.” – come se in ciò si rischiasse d’incorrere in un vizio di forma (e di sostanza,!) che inibirebbe il giudizio divino.

Il meno raccontabile martirio è quello del sufiHallag Ibn Manṣûr, grande mistico dell’islam” – che non riesco a riportare a causa della sua mostruosità, e che si può tranquillamente leggere da pagina 221 a pagina 226. Questo mártys di un’implacabile fede rimarrà per sempre un mito imperituro.

Più sereno appare “Francesco, figlio di Bernardone” – cioè San Francesco d’Assisi, che, e lo leggo a pagina 258, “un giorno disse: ‘Appena sia uscita l’anima dal corpo, spogliatemi tutto nudo come mi sono spogliato dinanzi a voi, e ponetemi sulla nuda terra. Così lasciatemi giacere per quanto tempo un uomo può impiegare un uomo a fare un miglio.” – (una decina di minuti?): che è un voler dirigere i lavori anche dopo il decesso, come è un diritto che non mai si dovrà negare a un deceduto.

Ben più spiritoso è, come leggo a pagina 290, Tommaso Moro che “accingendosi a salire il patibolo…” – lancia una battuta che mi pare degna di un Groucho o di un Woody Allen.

Di Serafino di Sarov, ortodosso, leggo a pagina 305 che, prossimo alla morte, “ad una monaca di Divejevo consegnò duecento rubli perché comprasse del pane nel paese vicino…” – mentre “ad un’altra disse: ‘Eh, matjiuška, che anno nuovo avrete! La terra sarà piena di gemiti e di lacrime.” – dubito che quella poverella sia poi rincasata col cuore leggero.

Queste storie, vere fino a prova di falso, mi fanno talvolta sorridere, talvolta gemere, ma più che altro mi sorprendono perché riguardano figure di uomini lontane dal mio comune modo di pensare.

Teresa” – che visse 9 dei suoi 24 anni chiusanel monastero delle Carmelitane di Lisieux” – era una mistica come poche. A pagina 310 leggo quanto ella scrisse:Mi sembra ora che niente m’impedisca di partire, perché non ho più grandi desideri, se non quello di amare fino a morire di amore…” – che è senz’altro un’attestazione infinita di quel folle e santo sentimento. E poi aggiunge: “Non desidero morire più che vivere; cioè, se dovessi scegliere, preferirei morire, ma, poiché è Dio che sceglie per me, io preferisco ciò che vuole Lui. Amo quello che fa.” – da qualche parte, forse in garage, ho una specie di diario scritto da lei, e presto proverò a leggerlo. Se anche quello non mi farà innamorare di Dio, sento che per me è forse finita.

Esaminando la vicenda di Charles De Foucauld, leggo a pagina 322 la frase “Exite obviam ei” – che è un invito a trascendere se stessi per trasvolare Colà dove abita Lui: a nostro rischio e pericolo, però.

Vedi, caro Enzo Bianchi, mia madre era cattolica fervente e andava tutti i venerdì in parrocchia a pulire la chiesa di Santa Croce sita in via Adua. Credo che, nell’assurdo caso che ci sia il Paradiso, lei lo stia provando di persona, avendo sempre vissuto nella virtù e nel rispetto del prossimo. Però lei era reggiana, e un po’ troppo spiritosa, per cui ti comunico una battuta che la udii dire più di una volta: che ciavêda che ciàpen i frê se a n gh ē mia al Paradîş! – traduzione: che fregatura pigliano i frati se non c’è il Paradiso! Credo che Dio, infinitamente ironico oltre che buono, udendola, l’abbia presa in ridere. E poi le abbia detto: Dai, Rosalinda… Io sono qui!

Mi sconvolge e al contempo, paradossalmente, mi rinfranca leggere la tragica storia di Jossel Rachower, a cui i nazisti causano la morte della moglie e, uno alla volta, dei suoi sei figli. E poi tale sorte vigliacca toccherà, finalmente, a lui…

Leggo a pagina 339 che ha scritto, parlando di Dio: “Ora mi rivolgo a Lui come a qualcuno che è diventato un po’ mio debitore. Credo di avere il diritto di fare a Dio le mie rimostranze.”

Avevo segnato sette riporti da utilizzare in questa mia stramba reazione, ma ci rinuncio: essi sono là, nel tuo libro Vivere la morte, Enzo, da pagina 340 a pagina 344. Vorrei tanto ringraziarti, caro, d’aver inserito questa sua tragica storia poiché, leggendola, mi sono sentito meno solo nel mio credo residuale. Jossel aveva una grandissima fede, ma essa mi pare umanamente accettabile e comprensibile.

Leggo a pagina 366, in cui si narra della vicenda di Marietta Martin – che lei stessa volle descrivere: “Non possedendo nulla, posso infine possedere tutto.” – e poi: “La morte è bella come un viaggio, si possono fare le valigie anche in mezzo al frastuono quando si ha deciso di partire.” – buon ritorno a casa, amica cara!

La frase di Dag Hammarkjöld che colgo a pagina 372 m’intriga e m’atterrisce al contempo: “Io sono il recipiente. La bevanda è Dio. E Dio è l’assetato.” – temo che essa meriti d’essere meditata (e temuta) tutta la vita.

Enzo Bianchi - citazione
Enzo Bianchi – citazione

Un’altra frase su cui cogitare è quella pronunciata dall’ortodosso Athenagoras, che colgo come un crisantemo a pagina 388: “Io non vorrei morire di morte improvvisa…” – spiegando che in tal caso potrebbe prepararsi per tempo, senza affannarsi troppo. La morte è una partenza, ormai l’ho capita. Non vorrei che, coi tempi che corrono, si dovesse prenotare on line.

Subito dopo aver concluso la lettura di Vivere la morte, ho iniziato quella di Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon. In una pagina a caso, leggo: “Penso che le persone credano nell’aldilà perché detestano l’idea di morire, perché vogliono continuare a vivere e odiano pensare che altri loro simili possano trasferirsi in casa loro e buttare le loro cose nel bidone della spazzatura.”a parlare è l’io narrante Christopher John Francis Boone, un ragazzo serenamente affetto dalla sindrome di Asperger. Forse lo sono anch’io, in quanto a volte mi chiedo che fine faranno i miei libri. Anche il tuo è mio, ormai.

Umane debolezze, a cui teniamo tanto, non avendo certezze, privi d’animo santo.

Avere o essere?, si chiedeva Erich Fromm.

Chi sa rispondere a tale angosciosa domanda?

Chi riesce a falsificare o a comprovare l’eventuale risposta?

Il tuo libro, Enzo, è il più ferale e colmo di speranze che abbia letto da sessant’anni a questa parte. Di ciò e di tanto altro, quasi infinitamente ti ringrazio.

Il tuo fratello di s-ventura, Stefano Pioli.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Enzo Bianchi, Vivere la morte, Edizioni Dehoniane Bologna, 2023

 

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