“Halloween” film di David Gordon Green: slasher movie nell’era dei social

È il 1978 quando, grazie all’omonimo film diretto dal trentenne regista di New York John Carpenter, il pubblico italiano familiarizza con Halloween, la festività del folklore celtico risalente dall’antica ricorrenza pagana di Sam-hain.

Halloween film di David Gordon Green
Halloween film di David Gordon Green

Sam-hain cade il 31 ottobre, data in cui viene festeggiato il Capodanno celtico, in seguito identificata dagli invasori Romani nei Lemuria, le feste in cui, attraverso appositi riti, si esorcizzano gli spiriti dei morti, i lemuri, quindi canonizzata da papa Gregorio IV in Ognissanti del 1 novembre e, infine, riconvertita in festa laica in ambito anglosassone, nonché occasione di divertimento per i bambini, che girano per le case invocando “trick or treat”, dolcetto o scherzetto.

Il simbolo della zucca intagliata invece è ripreso dall’antica leggenda del fabbro irlandese Jack O’ Lantern, la cui anima tormentata, a seguito di uno scellerato patto stipulato col Diavolo, è condannata a vagare per l’eternità in cerca di pace. Poste davanti l’uscio, le zucche, utilizzate come lanterne, servono a far capire al buon Jack che quella casa non è il rifugio adatto per il suo riposo.

Sulla scorta dell’inaspettato successo commerciale del film, anche nel Belpaese, Halloween entra a far parte di un certo immaginario horror e abilmente utilizzata dall’industria dell’intrattenimento, a cui non parrà vero di sfruttare a fini commerciali una così ghiotta opportunità.

ll plot della pellicola è ormai un classico. Nel 1963, ad Haddonfield, nell’Illinois, durante la vigilia di Ognissanti, l’adolescente Judith Myers viene uccisa a coltellate dal fratellino Michael, di soli sei anni. Preso in cura dallo psichiatra Sam Loomis, Michael trascorre i successivi quindici anni rinchiuso nel manicomio criminale di Smith’s Groove, da cui fugge per tornare alla casa natale (ormai in decadenza e messa in vendita) in occasione della notte di Halloween, quasi fosse alla ricerca del genius loci malvagio che si nasconde in quel luogo. Dall’inevitabile strage di innocenti che segue riesce miracolosamente a salvarsi la giovane baby-sitter Laurie.

La pellicola decreta la nascita dei cosiddetti “slasher movie”, storie in cui psicopatici mascherati mietono decine di vittime usando armi da taglio e assurgendo alla tristemente nota categoria di “mass murderer” (assassini che, in uno stesso spazio temporale e fisico, uccidono più persone), conosciute anche come “stragi del furioso” poiché si rifanno a un guerriero nordico del ‘900 d.c. che, in preda a un raptus aggressivo, distrugge un’intera comunità vichinga, categoria che negli anni a seguire rappresenterà un fenomeno di raccapricciante attualità soprattutto negli Stati Uniti, ma portatori su grande schermo di tratti palesemente irrealistici conditi da poteri quasi paranormali. Poco più di bluff da drive-in, cinicamente costruiti per agghiacciare masse di ignari adolescenti alla ricerca di facili emozioni.

Il primo “Halloween: la notte delle streghe”, però, girato con mezzi e budget limitati, ha dalla sua un climax particolare, e la suonata al pianoforte al ritmo di 5/4 eseguita dallo stesso regista detta i tempi di uno spartito ossessivo, incalzante, quasi che il senso di inquietudine aleggiante volesse richiamare qualcosa di ancestrale, un luogo dell’anima senza nome, al limite tra il giorno e la notte. E la voce tremolante dell’atterrita babysitter Laurie (l’ottima esordiente Jamie Lee Curtis) lo conferma quando, nella scena finale del film, domanda: “It was the Bogeyman?” 

“As a matter of fact, it was”…, è la laconica risposta del dottor Loomis.

Già, perché è il Bogeyman il vero protagonista della pellicola. Il terrore evocato da questa creatura mitica, da sempre presente nell’immaginario popolare, un demone che, a seconda delle sfumature e delle differenti tradizioni, arriva per punire, rapire o uccidere i bambini, si perde nella notte dei tempi. Sia il tedesco Schwarze Mann, lo spagnolo El Ogro, l’ucraino Babay, l’haitiano TonTon Macoute, il filippino Pugot, il messicano Robaninos, oppure il persiano Lulu, il Bogeyman accompagna da sempre l’essere umano che, in un eterno processo di espulsione, rigetta l’ombra presente in se stesso proiettandola in una figura archetipica.

Il successo di “Halloween” porta alla ribalta John Carpenter, ideatore del soggetto insieme a Debra Hill, nonché autore della colonna sonora, dando il via a una vera e propria saga, con nove successivi episodi diretti da differenti registi, che nulla aggiungono all’idea originaria.

A distanza di quarant’anni, con la supervisione dello stesso regista newyorkese, David Gordon Green (“Strafumati”, 2008, “Joe”, 2013) riprende il filo interrotto dopo quella proiezione originaria azzerando tutti i sequel e i remake. Per donare verosimiglianza al tutto ripropone alcuni degli interpreti di allora, da Jaime Lee Curtis a Nick Castle, adottando come ancoraggio narrativo per riaprire e, forse, chiudere il cerchio, la passione di due giornalisti investigativi per alcuni delitti famosi accaduti nel passato, passione che li spinge a incontrare il carnefice e la vittima scampata al famoso eccidio della vigilia di Ognissanti.

Ritroviamo allora Michael Myers, internato allo Smith’s Grove Sanitarium (“Quarant’anni senza dire una parola, sa parlare ma ha scelto di non farlo”, sentenzia il dottor Sartain, l’allievo del defunto dottor Loomis che ora ha in cura Michael), rappresentante reale e metaforico di quel “male assoluto” che è la definizione che di lui aveva dato proprio il dottor Loomis. Gordon Green lo ritrae di spalle, immobile, ritirato nelle risonanze profonde all’interno di se stesso, una forma di vita più che un essere umano, un misto animalesco di ferocia e desolazione.

E rivediamo l’ex baby-sitter Laurie Strode: agorofobica e sotto terapia cognitiva, apprendiamo che è diventata nonna e che vive in una casa bunker, con un locale sotterraneo pieno di armi e trappole, riflesso di una mente che sembra scivolata in una dimensione di paranoia.

Ma è poi paranoia quella sorta di pulsazione che picchietta nella sua mente? (“Quindi è reale, l’Uomo Nero?” chiede a un certo punto Laurie ai due giornalisti riprendendo il filo interrotto quarant’anni prima nell’ultima scena dell’”Halloween” primigenio, e alla risposta evasiva di Korey, replica: “Lei non crede all’Uomo Nero? Invece dovrebbe“). O non è, piuttosto, consapevolezza dell’ineluttabile presenza del male?

Già: la consapevolezza, uno stato mentale che fa terra bruciata intorno a sé ma che è il prezzo da pagare per riprogettare il proprio ruolo nel copione della vita. “Se ho cresciuto male mia figlia preparandola agli orrori di questo mondo, a me sta bene“, afferma Laurie, e sono parole che fanno da contrappunto all’ingenuo candore della figlia Karen, che pare non voler trarre insegnamento dall’eredità emotiva della madre quando sentenzia: “il mondo non è un buco nero e malvagio, ma un posto d’amore“, quasi fosse il leibniziano migliore dei mondi possibili, mentre in sottofondo risuona beffardamente volterriana l’iconica suonata al pianoforte al ritmo di 5/4.

Quando poi il trasferimento di Michael in un altro penitenziario segna l’inevitabile svolta slasher della pellicola, con recupero dei classici strumenti iconografici – coltellaccio e maschera – la successiva carneficina di prammatica ricorda una sorta di allenamento svolto con un’urgenza squisitamente rituale.

L’assassino che si aggira indisturbato fra le case di Haddonfield, maschera fra le maschere in un Halloween calato nell’era social, con baby-sitter attaccate agli smartphone e bambini impegnati a chattare, se da un lato strizza l’occhio alla parodia dell’horror mostrando le cose non per quelle che sono o che ci si aspetta che siano, dall’altro risulta però funzionale per rappresentare la minaccia del male che costeggia la nostra quotidianità, simboleggiato dal Bogeyman, lui sì, immutabile. “Sopprimerlo è l’unica soluzione, non c’è alcun motivo per tenere in vita il male”, aveva detto in una vecchia intervista il dottor Loomis.

Halloween film 2018 recensione
Halloween film 2018 recensione

Il suo allievo lo sa bene, ma vuole andare oltre, Sartain, perché una sorta di sinistra fascinazione ha ormai attecchito su di lui, ossessionato, lo psichiatra, sia dall’effetto che producono i crimini sul perseguitato sia da ciò che prova il persecutore nell’uccidere. “Predatore e preda si alimentano tenendo in vita entrambi”, afferma, e dimora proprio in questa sorta di transfert blasfemo il cuore pulsante del film e la ragione per cui, crediamo, John Carpenter abbia officiato al rito di riesumazione di Michael Myers e Laurie Strode, riapparsi a ruoli invertiti nel più classico scambio delle parti fra vittima e carnefice; e quando, infine, la famosa scena conclusiva del film originale viene ribaltata, perché ora è Laurie e non Michael a sembrare immortale, appare chiaro che nell’eterna lotta fra il Bene e il Male, concordia e discordia, positivo e negativo si confondono fino a sovrapporsi.

E se la consapevolezza dell’ineluttabilità del male (che è anche accettazione dell’ombra, della parte oscura di sé) ha permesso a Laurie di sopravvivere alle cose che accadono, e di intravedere una luce in fondo al tunnel delle sue paure inconsce, ora che anche figlia e nipote hanno tratto una coscienza in differita delle presunte ossessioni della nonna, la domanda che fluttua nell’aria è se sarà affidato a loro, alle donne, alla loro alleanza, il compito di ribellarsi a una violenza declinata in forma sempre più impersonale.

Dall’ultima sequenza parrebbe di sì, e sembra di intravedere una piccola alba di significato all’interno dell’oscurità.

 

Written by Maurizio Fierro

 

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