“I detective selvaggi” di Roberto Bolaño: l’autore è la prima vittima della finzione narrativa?
A seconda del libro che sto leggendo, scelgo di volta in volta se iniziare a scrivere la mia reazione in itinere o alla fine, quando ho le idee relativamente chiare.

Talvolta accade una mostruosità, se così la si vuol chiamare: m’accorgo che potrei commentare l’opera hic et nunc, come l’avrei potuto fare il giorno prima, o al primo capoverso, o alla fine del volume. In ogni caso la mia scrittura sarebbe servita principalmente a dimostrare che non ho capito granché di tutto quel bailamme, che qui dura circa 688 pagine, nel senso che le ultime due sono per lo più fatte di figure.
A pagina 517 mi decido a intervenire, ma prima sento che è ora di ascoltare Messico e nuvole di Enzo Iannacci, l’unico brano che mi può venire in soccorso in un momento come questo. Pochi libri sono chiari, direi lampanti come questo di Roberto Bolaño, il vero mistero è il perché quest’opera quasi smisurata sia stata dapprima concepita e poi messa in atto. A che pro?
A pagina 507 era iniziato il capitolo 21 della II parte, quella propriamente detta I detective selvaggi (1796-1996), che era iniziata a pagina 159.
Inizia a dire la sua Daniel Grossman, seduto su una panchina dell’Alameda, DF, febbraio 1993: “Erano tanti anni che non lo vedevo e quando tornai in Messico la prima cosa che feci fu chiedere di lui…” – di chi? Poco importa, ma lo dico ai curiosi, si tratta “di Norman Bolzman” – e chi è costui? Poco importa. E chi è Daniel Grossman? Importa ancora meno. È principalmente colui che mi ha iniziato a questa scrittura.
“… e io mi abbondai alla certezza di essere di nuovo in Messico e che le cose potevano cambiare, benché in fondo non sapessi se i cambiamenti, sempre che fossero avvenuti, sarebbero stati in meglio o in peggio, come succede quasi sempre coi cambiamenti, come accade quasi sempre in Messico.” – quel quasi illumina il cammino e dell’autore che sta parlando, e dell’horcrux che sta cianciando e del sottoscritto che sta faticosamente scribacchiando.
Il Messico pare il luogo dove il Fato si tramuta per incantesimo in Destino, che non ti nega la possibilità di de-stinarti da qui a là.
Riporta Grossman una serie di affermazioni di Norman: “In questa faccenda io non c’entro niente. Claudia non c’entra niente. A volte, addirittura, non c’entra nemmeno quello stronzo di Ulises. C’entrano solo i singhiozzi. No, dissi, non ti capisco proprio.” – e chi vuol intendere, intenda. Io ci rinuncio. A meno che non significhi che: Ognuno sta solo sul cuor della terra/trafitto da un raggio di sole:/ed è subito sera – oppure che, calpestando quella foglia riarsa, la vita ti porta a udire le lamentele del rivo strozzato che gorgoglia, ma che stancante Panta Rhei è questo romanzo! Questa potrebbe essere già una sua prima miserrima, definizione. Ergo: ora riprendo a leggere ‘sto simpatico laterizio e poi magari ci risentiamo. In ogni caso… ora che l’ho finito, proverò a scribacchiare qualche cosa. Pur raramente, accade che la fede che ho in me sia (quasi) incrollabile.
La prima parte appartiene a un io narrante che così si definisce: “Ho diciassette anni, mi chiamo Juan García Madero, sono al primo semestre del corso di laurea in Giurisprudenza…” – come capitò a me, più o meno in quegli anni, quando a Bologna m’iscrissi (frequentando mi pare 3 volte) alla facoltà di Filosofia. Dopo di cui scelsi di malvivere le filosofie mie.
In un “seminario” gestito da un poeta più o meno laureato, García incontra per la prima volta due esponenti del movimento dei “realvisceralisti”: tali “Ulises Lima”, che legge a suo rischio e pericolo una sua poesia e “Arturo Belano”; facendosi da questi (quasi) adottare. García è colto, non solo per la sua età, ha studiato troppo e non è granché normale. In più è supponente, sarcastico, provocatore: ideale per quel gruppo, che un po’ s’ispira a Marinetti.
A pagina 50 scopro che ha divorato “il libro di Lautréamont”, dicendo, tra l’altro: “… sono rimasto sveglio a leggere tutta la notte…” – e questo me lo rende più simpatico, più accettabile, insomma. Io lo lessi a ventun anni, in ritardo su di lui, e lo sto rileggendo in questi giorni nella versione originale. Si vede che Juan García è un poeta (per lo più semi-vergine), quando dice a una ragazza: “‘Hai un seno bellissimo’. Non sono riuscito a ripetere la parola tette…” – anch’io, quando agivo esternamente alla mia privacy, stentavo ad avere coraggio. È un saputello, che conosce le varie metriche e te le spiattella in faccia senz’avere cognizione di quel che sta facendo, nonché termini latini: “Alla fine ero esanime (dal latino animus, che deriva dalla parola greca che significa soffio)…”.
Sentiamo che dice ora di me: “… mi sono messo a pensare all’abisso che separa il poeta dal lettore e quando me ne sono reso conto ero ormai profondamente depresso…” – è un khaos, infatti, dove quei due disgraziati precipitano uno dopo l’altro, talvolta senza degnarsi di uno sguardo.
È un simulatore: “Ho attraversato la strada prendendo o mostrando di prendere delle precauzioni inutili (perché in quel momento non passava alcun veicolo…”.
Ora che ha scoperto l’altra metà della mela, ci si tuffa appena può: “Ora mi sposto a piedi, leggo molto, scrivo molto, faccio l’amore ogni giorno…” – ricordati, caro il mio io, che quella non è un come un pezzo di polenta o di ricotta. Potrebbe causarti il mal di stomaco.
“Nessuna novità. La vita sembra essersi fermata. Faccio l’amore con Rosario tutti i giorni. Quando lei va a lavorare, scrivo e leggo…” – il solito tran tran. Questa prima parte è sospesa a pagina 158, quando nella notte di Capodanno, lui, i due realvisceralisti e una prostituta di nome Lupe, devono scappare (prendendo l’auto di un amico). Dietro di loro si metteranno alla loro caccia il magnaccia di Lupe e un poliziotto corrotto.
Così si conclude I Messicani perduti in Messico (1975).
Ora tocca alla parte II, lunga appena 26 capitoli, ognuno dei quali si allunga per qualche decina di pagine ed è normalmente diviso in uno o più paragrafi, opportunamente datati, localizzati e personalizzati. Per dare un’idea, il primo è: Amedeo Salvatierra, calle Repubblica de Venezuela, vicino al Palacio de la Inquisicíon, DF, gennaio 1976. In tutto vanno avanti per 465 pagine, una sciocchezza.
Poi, Perla Avilés, più o meno simultaneamente, dice: “… ero sulle scale a leggere il conte di Lautréamont.” – come se niente fosse. Sembra che qualcuno la stia intervistando, chi? Tutti sembrano raccontare a un cronista dei loro aneddoti, comprensivi di pensieri, amenità, e tristezze, ma a chi, ripeto? Esiste un detective in grado di rispondere al mio quesito? Secondo me è… non il maggiordomo, ma un giovane roso dall’età, non dallo spirito. Un anziano che ricorda d’essere stato giovane, ma cerca di averne delle prove certe. Tre sospetti: uno è… l’altro è… il terzo è…
Dice Fabio Ernesto Logiacomo, circa due mesi dopo: “La letteratura non è innocente, questo lo so da quando avevo quindici anni…” – già a quell’età, io mi ritenevo orgogliosamente colpevole di scrivere, fregandomene della realtà. Ero pure io un detective, anche quella volta che il mio amato padre Rolando mi chiese cosa avessi intenzione di fare nella vita, e io gli risposi sul grugno (così diciamo a Reggio, per dire brutalmente, come se l’altro fosse un ungulato): ingegnere del nulla! E quel suo amoroso musetto, che tanto confidava in me, chinò lo sguardo dolente.
Verso aprile, Luis Sebastián Rosado dice: “… mentre Julita ballava un cha cha cha o un bolero o un danzôn, non sono molto informato sulla musica popolare, io e Alberto ci mettemmo a parlare di qualcosa (giuro sul mio onore che non ricordo di cosa…” – è parte del carattere di una dichiarazione resa al prossimo l’essere sempre un po’ imprecisa e lacunosa.
“Il DF è un paesello di quattordici migliori di persone, si sa…” – uno dei più inquinati, almeno così dicevano anni fa: il Distrito Federal!
Dice Manuel Maples Arce: “Tutti i poeti, perfino quelli più avanguardisti, hanno bisogno di un padre. Ma questi erano orfani per vocazione.” – cui difettava un padre, per poterlo sbeffeggiare. E per poi pentirsi, decenni dopo, quando anche loro avranno i loro poetini che crescevano.
Dice Joaquín Fonte “che Bolano era romantico, spesso patetico, buon amico dei suoi amici, immagino, spero, anche se nessuno sapeva mai bene cosa pensasse, probabilmente nemmeno lui…” – per forza, se uno pensa è uno, poi quello che pensa a ciò che ha pensato è un altro. Mica si conoscono a fondo, quei due. Però c’è sempre il rimbaudiano augurio: je est un autre!
La smemorata Auxilio, nel dicembre 1976, non rammenta se arrivò “a Città del Messico nel 1967, o forse nel 1965 o nel 1962”, ma poi propende per il “1965. Sì, in definitiva penso di essere arrivata nel 1965 (ma può darsi che mi sbagli)…” – penso dunque sono… sono il banjo. Svariate pagine dopo, aggiunge: “pensai: che gesto poetico distruggere i miei scritti…” – lo feci una volta con una mezza paginetta, che bruciai con un cerino. Lì per lì mi diede un po’ d’emozione, poi dell’amarezza.
Dice Joaquín Font, dalla sua clinica psichiatrica, siamo già nel 1977 ed era più di un anno che non rivedeva la sua macchina, che era quella dei transfughi: “C’è una letteratura per quando ti annoi. Abbondante. C’è una letteratura per quando sei calmo. La letteratura migliore, credo. C’è anche una letteratura per quando sei triste. E c’è una letteratura per quando sei allegro. E c’è una letteratura per quando sei avido di conoscenza. E c’è una letteratura per quando sei disperato…” – chissà se c’è una letteratura per quando sei trapassato.
“E con ciò non voglio dire che quando uno è diventato un lettore tranquillo non legga più libri per disperati…” – anche se, quando è tranquillo, a volte capita che li rilegga nelle loro versioni originali (come accadde a me con quel veggente di Rimbaud e con quel mostro di Lautréamont).
Amedeo, già citato, il massimo storico di quel movimento di dissennati, ricorda un episodio in cui la presunta e chissà se assunta iniziatrice o ispiratrice di quei suonati, “Cesárea” difende una sua protetta, tale “Encarnación Guzmán”.
Nel maggio 1980, Heimito Kündt, che non era il più normale a casa sua, un pezzo di omone alto due metri, tra pagina 344 e pagina 356, scrive 86 volte “il buon Ulises” e solo 2 volte soltanto “Ulises” – chissà perché. Sempre se ho sottolineato e contato bene.
Dice Rafael Barrios, siamo però nel marzo 1981: “Un modo che io non condivido e che allora non capivo, che non so se era buono o cattivo, giusto o sbagliato, ma era il loro modo di fare politica, di incidere politicamente sulla realtà, scusate le mie parole non sono chiare, ultimamente sono un po’ confuso.” – sei stato chiarissimo. Han sempre detto che comprare un tozzo di pane è un gesto politico, immaginiamoci se non lo è scrivere dei versi.
Dice Hugo Montero, nel maggio 1982: “… e mi guardò come se non mi conoscesse però riconoscendomi, non so se mi spiego (probabilmente no)…” – probabilmente sì.
L’anno dopo, verso marzo, Luis Sebastián Rosado ipotizza che: “probabilmente era stata un’invenzione di Lima e Belano per giustificare il viaggio nel Sonora.” – poiché l’oggetto del contendere era l’esistenza di Cesárea, la sua ipotesi mi pare infondata.
Alla figlia (una delle due) Joaquín Font, siamo ora a settembre 1985, dice: “Il tempo è un’illusione…”. Lo stesso, confuso ma non ancora mentecatto, due anni dopo, verso agosto, dice: “La libertà è come un numero primo…” – per cui deduco: essendo sprovvista di passato, non ha figli minori, che l’hanno partorita con DNA garantito, ma solo multipli di sé (illusori, ovvi)? Ecco: la libertà è ‘sto punto interrogativo.
Dice Andrés Ramírez, nel dicembre 1988: “Usai vari metodi, su cui per motivi professionali credo sia meglio che sorvoli. Dice di no? Allora non sorvolo, ci mancherebbe…” – forse significa collaborare alla Verità, qualunque pezzente ella sia. Egli non è stato un uomo fortunato: “Al termine dei miei viaggi tornai con una sola certezza: non siamo nulla.” – quel che nella vita a volte viene meno, lo confessa poco dopo è un fatto esistenziale: “… mi mancava un fine o il fine…” – e un sacco di altre bazzecole (tipo “i numeri”, “lo scintillio dei numeri dentro gli occhi”): la vita è un’eterna lotteria, e l’ultimo numero estratto sarà fatidicamente nostro.
Abel Romero, nel settembre 1989, dice a Belano che: “il nocciolo della questione è sapere se il male (o il delitto o il crimine o come vuole chiamarlo) è causale o casuale…” – se n’è occupata un’associazione a delinquere per oltre duemila anni, che ha pensato bene di seppellire ogni possibile risposta. Dicono anzi che essa è risorta per volare via, nell’alto dei cieli! Da allora siamo fritti! Chi vuole, può rivolgersi a “Dio”, che, “se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto.”
Torniamo nel gennaio 1976, quando il solito Amadeo esibisce alcuni ideogrammi della poetessa fondatrice, per cui consiglio di passare subito oltre.
Dice Edith Oster in una logorroica dichiarazione del maggio 1990. “Forse lessi Dante in italiano. Forse Gadda, non lo so…” – uhm, se era Gadda, in italiano, mah…! anch’io mi concedo un non lo so… Chiarisce poi ogni cosa quando dice: “Una sera conobbi il diavolo” – che di certo non parla in romanesco, ma ogni volta nell’idioma a cui sei più affezionato. Non direi d’invalidare tout court la sua spontanea comunicazione, ma di prenderla un po’ con le molle.
Nell’ottobre 1991, Felipe Müller riporta un racconto riportato da Arturo Belano, che riporta a sua volta un racconto di “Theodore Sturgeon”, il quale nome però, dice Felipe, “non mi dice nulla” – esiste, ho visto zio Google. Ma anche a me non diceva nulla.
Bleah!, l’intervento del leguleio Xosé Lendoiro, dell’ottobre 1992, di appena, sto pazziando!, 24 pagine è così infarcito di locuzioni latine che la metà, che dico, un ottavo sarebbero state troppe! Egli cita un racconto, “La buca” di Pío Baroja, che m’intriga. Chissà se lo trovo su qualche puesto de libros. Lo perdono, non Pío, ma Xosé per quanto dice verso la fine della sua omelia: “Non tardai a capire quanto erano state vane tutte le mie ambizioni, sia quelle che si aggiravano nel labirinto d’oro delle leggi, sia quelle che avevo fatto rotolare nel precipizio del precipizio della letteratura…” – grande definizione. Se la vita è un khaos, si può ipotizzare un khaos alternativo a essa comunicante. Lo diceva poco su anche Juanito. Poi ‘sto infelice ammette d’essere “un pessimo poeta”. E aggiunge: “Apparentemente la mia vita proseguiva come consueto nel regno della mediocrità, ma io sapevo di avanzare nel territorio della distruzione.”
A pagina 523, nel giugno 1994 Susana Puig dice: “Mi telefonò” – chi lo scoprirò solo a pagina 538. Nel mentre vengo a sapere quel lui, che è Belano, ha avuto un figlio da una donna che è da un’altra parte. Ma ogni tanto quel tristo/triste paparino va a trovare il suo amato consanguineo.
Nel luglio 1994, Iñaki Echavarne, dice di noi lettori cose tragiche: “I lettori muoiono uno a uno e l’Opera prosegue da sola” – ha scoperto l’acqua tiepida. E poi: “Alla fine l’Opera viaggia irrimediabilmente sola nell’Immensità. E un giorno l’Opera muore, come muoiono tutte le cose, come si estingueranno il Sole e la Ter…” – cara la mia ottimista, chiamala se vuoi entropia. Poi lei e altri 8 disgraziati finiscono di annunciare le loro miserie sentenziando: “Tutto quel che inizia in commedia finisce in…” – e ognuno ci mette il finale che si merita (o che crede di meritarsi). Ne riporto uno, non dico di chi, indico solo la pagina, 550: “… in esercizio crittografico”.
Dice Jacobo Urenda, nel giugno 1996: “López Lobo e Belano parlarono fino a poco prima dell’alba. Trascrivere quello che dissero significa in qualche modo alterare ciò che provai mentre li ascoltavo.”: la prima vittima della finzione narrativa è l’autore. Che poi, come capita a Jacobo, non ce la fa quasi mai a non trascriverla.
L’ultimo a comparire non fu Gambatorta, ma Ernesto García Grajales, ma del suo intervento del dicembre 1996 non riporto nulla. Ora devo immettermi col mio motorino in III I deserti del sonora (1976), al fine di rivedere quei quattro fuggiaschi, che sono, ma dovrei averlo già detto, Lima, che è al volante, Belano, il diciassettenne saputello, e la scaltra prostituta Lupe, di cui sono invaghito.

Il 1° gennaio spara un’insolita assurdità il redivivo Juan García Madero (che mai partecipò come teste nella raccolta delle dichiarazioni, e c’è chi ipotizza sia il detective). Nessun intervento ci fu di Lima e Belano. L’assurdità che dice è che ogni giorno è un altro rispetto a sé: “un giorno invisibile”.
Ho cercato di sottolineare e di riportare il meno possibile, ma di un fatto increscioso ed essenziale non posso non lasciare una sostanziosa traccia al lettore del tuo lettore, Belano, Bolano o Madero che tu sia: “Lima è glabro” – mentre il soggetto di cui dovrebbe (dovrebbe!) essere un horcrux no: Mario Santiago Papasquiario, pseudonimo di José Alfredo Zendejas, ha invece un bel barbetto.
Lo scopo del viaggio è di sfuggire alla caccia del magnaccia (che rimaccia!), ma anche di rinvenire, dopo ispezioni effettuate anche in un cimitero, qualche traccia (basta ora, però!) di Cesárea, della quale qualcuno domanda a una tale che l’aveva conosciuta, se questa sapeva che Cesárea “era una poeta” – e non so in quale punto del romanzo, ma all’inizio, si insiste a dire che poetessa non va bene. Ma poeta anche una donna dev’essere. Anche il direttore d’orchestra più celebrato dalla stampa, che è una bella donna, insiste a definirsi così. La faccenda, che poco m’intriga, a qualcuno pare cogente. Ricordo che una volta Carmelo Bene, a cui piacevano le donne, credo, disse: Io sono cretina! E di certo non ignorava a che si riferiva.
A pagina 687 e 688, alla fine di ‘sto sendero, sono esibiti tre ideogrammi.
Tutto il romanzo di Bolaño/Belaño/Madero lo è. Non va decifrato. Va osservato, ingerito, deglutito e poi sputata la maròla, il seme legnoso, come ho fatto io in questa reazione.
L’importante è aver tentato di assorbirne il nutrimento.
Domanda: cercherò qualche altra traccia emessa da ‘sto allampanato genio?
Sì. Sí!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Roberto Bolaño, I detective selvaggi, Adelphi, 2014