Marco Ventura: la fucina dell’artista nella compresenza di due mondi
Marco Ventura è scultore, scenografo e designer milanese – silenzioso – e nel silenzio si distingue.
Conosce sin da giovane gli ultimi esponenti del movimento Fluxus, e conseguentemente Angelo Orazio Pregoni, con cui condivide il fermo rifiuto di qualsiasi definizione che possa ingabbiare la propria arte in schemi preconcetti e con il quale avvia innumerevoli collaborazioni.
L’unica “stanza” a cui concede un vincolo è la sua fucina, in cui forgia le sue visioni e dà forma alle sue idee. Senza mai venir meno all’artigianalità, Marco Ventura rielabora in scultura provocazioni iconoclaste e inventa oggetti e lampade provenienti dal medio-evo di un altro pianeta.
Sempre in silenzio, Marco Ventura collabora con innumerevoli designer, e nel tempo elimina progressivamente la linea di divisione tra esistenza e creazione artistica, intendendo l’arte come un fluire punk ininterrotto di situazioni, percezioni ed esperienze materiche, sperimentandosi – con Pregoni stesso – in performance assolutamente interdisciplinari.
Ventura oltrepassa le porte di una nuova Despina, in cui la visione si sdoppia, trascendendo l’apparenza: qui, visione e immaginazione, possibile e alternativo assumono la medesima consistenza.
“Le descrizioni di città visitate da Marco polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa.” ‒ Le città invisibili – Italo Calvino
Il concetto di vero abbraccia un ventaglio di sfumature assolutamente assurde e allo stesso tempo plausibili.
Ne “Le città invisibili”, Italo Calvino descrive la realtà di Despina come compresenza di due mondi, apparentemente incompatibili, che semplicemente esistono, a seconda del punto di vista dal quale li si osserva.
Se immaginiamo un sipario che li separa, Ventura strappa quel telo in virtù della forza compositiva dei propri pezzi, il cui impatto sull’osservatore è immediato: l’apparenza allora è apparizione e l’attesa è breve, poiché la proiezione del sé oltre lo schermo visibile è subitanea.
Immacolata e probabilmente destabilizzante, una bimba troneggia su un seggio in movimento, nell’opera installativa “Before Banksy“, dello scultore, scenografo e designer Marco Ventura. L’artista “commette” un passo indietro, il precedente, rispetto all’opera del noto autore: riempie un’atmosfera scultorea, regalando quindi una terza dimensione, al momento in cui il tempo o le vicende hanno strappato, dalle mani della fanciulla, il palloncino e, probabilmente, molto altro.
L’opera di Ventura ha la leggerezza dei suoi silenzi, che sono anarchici come la sua caratura artistica.
Tanto silenzio (Ventura parla poco) e assenza gravitazionale, per un lavoro artistico dal calibro steampunk: tra tecnologia anacronistica alla Miyazaki e stile vittoriano.
La creatività dello scultore muove dalla medesima di Banksy, rielaborando quel lavoro murario e bidimensionale in un prequel intinto di una nuova poetica che sembra diffondersi da un equivalente stato di assenza gravitazionale, di ineffabilità, pur appesantito dalla materia lignea e metallica.
Raccogliendo, dunque, oggetti abbandonati, residui e scarti di altre vite, Ventura riesce a rielaborare anche il pensiero artistico altrui, rigenerandolo in una funzionale narrativa “industriale”.
Fa pensare il concept dietro l’opera, così complesso come l’installazione non sembrerebbe: la sacralità dell’infanzia, l’incanto della gioia, l’attimo prima della disperazione, il presente che si dilata nel tempo per una vita di ricordi futuri e nostalgie a venire.
La sedia che cammina sarà forse una macchina del tempo?
Per citare Ventura: “Quei passi del trono non sono altro che una somma di momenti slacciati dal tempo e suddivisi nello spazio”, il resto… sembra suggerire, immaginatelo voi.
Written by Maria Marchese