“Dieci poeti per Vasyl’ Stus e Marina Cvetaeva” curato da Alessandro Achilli ed Antonio Lavieri: la poesia costruisce ponti
La poesia, come l’arte in genere, è in grado di costruire ponti fra diverse culture e popoli. Rappresenta uno spazio neutro di conoscenza, di confronto e di crescita reciproca, nonché uno strumento di libertà. Il lettore, a volte, nella poesia può trovare messaggi luminosi, una porta aperta sull’Altrove, una fonte di consolazione ed evoluzione interiore in tempi bui.
Questo è il caso di un nuovo volume di poesia pubblicato dall’editore modenese Mucchi nella collana “10×1” dedicata alla traduzione poetica – a cura di Antonio Lavieri – dal titolo 10 poeti per Vasyl’ Stus e Marina Cvetaeva – Dentro di me sta già nascendo Dio – Inimitabile mente la vita – introduzione di Alessandro Achilli (slavista). Il volume propone due poesie, prima tradotte da A. Achilli, e poi variamente riscritte da 10 poeti contemporanei italiani: Annelisa Alleva (slavista, traduzione dagli originali), Fabrizio Bajec, Massimo Bocchiola, Roberto Deidier, Paolo Fabbraro, Rosaria Lo Russo, Paola Loreto, Valerio Magrelli, Annalisa Manstretta, Edoardo Zuccato. In fondo al volume, inoltre, all’interno della nota di A. Lavieri a pagina 70, si trova la riscrittura della poesia di Marina Cvetaeva da parte di Franco Buffoni.
Prima di procedere alla presentazione critica del volume, si entra nel merito, in punta di piedi e con misura, riguardo alla polemica di squisita matrice cancel culture – legata al conflitto russo-ucraino – che ha investito questa iniziativa editoriale per la compresenza nel volume di una poesia di un autore di nazionalità russa con quello del poeta ucraino Vasyl’ Stus: in primis sarebbe sempre opportuno esprimere qualsiasi forma di giudizio in ambito letterario solo dopo aver letto con attenzione l’opera e aver analizzato con cura la biografia e la poetica dell’autore in oggetto. In secondo luogo nell’arte sarebbe prioritario valutare il messaggio, l’eredità intellettuale lasciata dall’artista separata con ragionevolezza dalle contingenze dell’uomo artista. In questo caso un messaggio di altissimo valore morale e spirituale. Si chiude questa parentesi riportando le parole di Marina Cvetaeva, in partenza da Parigi verso una Mosca in pieno regima stalinista (che lei mai sostenne) e consapevole che ciò avrebbe cagionato la sua fine sia come poetessa che come essere umano: “Sappiate una cosa: che anche là io sarò coi perseguitati e non con i persecutori, con le vittime e non coi carnefici”.
Il volume in esame propone due poesie dei poeti V. Stus e M. Cvetaeva. Essi sono stati in vita oggetto dei più generali e determinati ostracismi vigenti in Urss contro ogni “diverso”, tanto più un “poeta”, un artista, un intelligent, se non peggio, un dissidente. Gli intellettuali erano lì considerati gente fatua e inutile se non erano “al servizio del popolo” e supini ai suoi gusti, questi ultimi, però, interpretati dal regime via via in modo diverso secondo la contingenza politica. Come dice Pietro A. Zveteremich: “Accomunati dal medesimo destino/vocazione alla verità e non alla sopravvivenza, che per i poeti come per gli scienziati e gli uomini tutti che abbiano dignità, significa negazione di sé e dei facili vantaggi.”[1].
Stus e Cvetaeva erano accomunati dalle medesime affinità elettive per Rilke, Goethe, la lirica dell’Espressionismo tedesco, gli Esistenzialisti tedeschi (Camus, Heidegger, Sartre, Ortega y Gasset, Jasper in aggiunta per Stus) e Pasternak, (Taras Shevčenko in aggiunta per Stus), autori con cui essi si sono liberamente misurati e che tanto hanno contribuito all’evoluzione del loro stile poetico inimitabile e unico. Entrambi sono stati personalità geniali, sublimi poeti, colti intellettuali, traduttori, mistici laici di formazione cristiana – e su di questo non vi è dubbio – accomunati dall’anelito al Divino e dalla capacità di scorgere qualcosa nel sovrasensibile, tesi all’ascolto degli echi dai Regni delle Sublimità. Come diceva T.S. Eliot: “La differenza fra arte e fatto è l’assoluto”, ovvero nel caso di questi poeti la capacità di andare oltre la contingenza dei loro accadimenti personali verso una profonda focalizzazione sulla propria interiorità e sul loro Sé-Transpersonale nella concezione della poesia come sublimazione, come tensione comune al superamento dei vincoli della corporeità verso la Realtà Sovrasensibile e il Mondo Poetico.
Cvetaeva era considerata una poetessa al bando, transfuga, paria, emigrata, eretica, rifiutata, ignorata, perché politicamente invisa (in patria ai “sovietici” e all’estero ai “russi bianchi”), autrice di opere letterariamente ostiche, diverse, avanguardiste. Nella sua vita tutto sembra illusorio: le sue idee politiche, i giudizi critici, i drammi personali; tutto, tranne la poesia. Una vita ed una poesia che furono una sfida lanciata alla consuetudine, al perbenismo, alle forme accettate; un’impresa protratta di rivolta e di coraggio e, spesso di oltraggio, anche verso se stessa ancorché perseguitata dal destino. Muore – sola – suicida.
Come sostiene P.A. Zveteremich: “Nella poetica di Cvetaeva il suono ha un valore fondamentale, in relazione sempre al significato. […] La sua è una poesia complessa, ermetica, costantemente ed esasperatamente ellittica, densa, tesa, concisa, che omette o sottintende i termini della proposizione, che non si costruisce sulla frase, né sul glossema, né sulla parola ma sulla sillaba; […] che usa i mezzi verbali in strenua funzione del significato, della più rigorosa e sottile -direi maliziosamente filologica- identificazione del significato; […] e tutto questo accompagnato da un ritmo che non viene mai meno: irruente, incalzante, smozzicato come il canto di una persona affannata; […] un ritmo denso di assonanze e rime serrate, dove i versi si impongono per il loro suono alto energico come un complesso sistema di segnali acustici che avvertono il lettore-ascoltatore dei significati.”[2]
La sua poesia è condensata, concisa, essenziale e funzionale: massima espressività col minimo dei mezzi, sacrificando quanto più possibile: epiteti, aggettivi, preposizioni, ecc… Talvolta perfino l’interpunzione può celare in sé il significato di una determinata frase, se non di una intera poesia. Riproponendo nuovamente il pensiero di P.A. Zveteremich: “Cvetaeva non rinuncia mai al discorso, ma il suo discorso non rappresenta un atto successivo alla scoperta dell’oggetto, bensì l’espressione diretta del processo stesso d’avvicinamento all’oggetto e di individuazione/scoperta di esso, una costante registrazione di questo processo.”[3] Tale processo è il contenuto/forma della sua poesia.
Inimitabile mente la vita: questo celebre componimento di Marina Cvetaeva, tradotto anche in ucraino da Stus (che ha avuto cura di conservarne la sonorità e la bellezza dei versi rispetto al significato immediato), è un condensato di perfezione stilistica e di ermetismo modernista. Versi di struggente bellezza che necessitano di una precisa e accurata ri/lettura in quanto, come in uno scavo archeologico, i significati reconditi si sovrappongono in un raffinato gioco di richiami e riflessi. Il messaggio che la poetessa vuole trasmettere al lettore consiste nell’invito alla riflessione su ciò che si nasconde dietro all’esperienza empirica della realtà. Ella ci esorta a sollevare il velo di Maya, così come proposto da Schopenhauer o come Platone nel “Mito della Caverna”, per comprendere che la realtà sensibile nasconde nel sovrasensibile il grafema/segno dell’opera della Mano Divina come sua creazione (mano, palmo, argilla), visione questa che la accomuna allo stesso Stus come risulta evidente dal celebre verso “[…] guarda nel profondo in ciò che è vero, in ciò che sboccerà, e come rosa fiorirà sui vetri […]”. Nella contingenza attuale questa interpretazione filosofica e dicotomica della realtà si potrebbe estendere a una riflessione sul potere dei mass-media, dei socials e della parola/nominazione nella distorsione della percezione della realtà relativa e nel controllo delle masse/individuo.
Nelle prime due stanze della poesia ritmo, allitterazione, metatesi consonantica, assonanza, paronomasia e rima al centro servono da strumento per creare suggestioni foniche che raggiungono l’onomatopea e la glossolalia, intrecciandosi col loro potere evocativo a sinestesie iperboliche, immagini sensuali ed ipersensoriali in cui il lettore resta affascinato. Immagini che hanno più significati simbolici sovrapposti (retaggio della formazione simbolista dell’autrice), simboli di virtù (caprifoglio-amore indissolubile e anelito alla luce, terra/solco-umiltà), simboli sacri tratti dalle sacre scritture (grano e ape-rigenerazione e resurrezione, cielo-divino, sussurro-voce divina, arsura-amore divino o purificazione dell’anima, pungiglioni-passione). Oppure sono presenti immagini che globalmente rappresentano una metafora o un’allegoria del viluppo dei sensi e della materia che vincolano l’anima anelante all’estasi sotto il richiamo dell’amore divino, nella dualità della realtà relativa caratterizzata dal contrappunto piacere/dolore che affascina l’anima in un sogno che la vincola nel fardello del corpo – “I poeti sono le api dell’invisibile” R.M. Rilke.
Nella terza e quarta stanza viene ripreso il tema mistico, pure presente nell’altro componimento stusiano proposto nel volume, dell’unione anima-Dio attraverso una allegoria erotica, leitmotiv utilizzato anche nel Cantico dei Cantici, in testi neoplatonici rinascimentali come l’Hypnoerotomachia Polyphili o anche nelle Strofe dell’anima de La notte oscura dell’anima di S. Giovanni della Croce da cui si cita: “Oh, sorte fortunata![…]/ Riunisti l’Amato con l’amata […]/ Sul mio petto fiorito,/ […] là si posò addormentato/ e io lo carezzavo/ […] la brezza d’alte cime […]/ con la sua mano leggera/ tutti i sensi mi rapiva in estasi […]./ Là giacqui, mi obliai/ la fronte sull’Amato reclinai,/ tutto finì e posai,/ lasciando ogni pensièr/ […] perdersi obliato.” Secondo alcuni critici vi si potrebbe individuare anche un possibile riferimento autobiografico della poetessa al rapporto d’amore travagliato col marito.
La stanza finale, a parere dello scrivente, offre alla poetessa il modo di trattare quattro tematiche parallele in forma simbolica: la prima è la sua filosofia della creazione poetica. “Io non penso, io ascolto. Poi cerco un’incarnazione esatta nella parola […]. La parola-creazione è soltanto un seguire la traccia dell’orecchio naturale che non è né allegorico né fisico. In genere non si sente alcuna parola, e se la si sente, non viene capita/compresa, come nel dormiveglia. L’orecchio fisico è come rimpiazzato da un altro orecchio. Non odo le parole ma una sorta di muto cantare dentro la testa, una linea sonora […]. Questo orecchio è funzionale alla trasmissione dell’“essenza delle cose”. Io sono sedotta dall’essenza delle cose, non dalla forma. La forma arriverà dopo. La forma richiesta dalla data situazione, ascoltata da me sillaba dopo sillaba… Così incarno. Ecco il poeta. L’essenza è la forma.” scrisse Cvetaeva in Izbrannaja proza v dvuch tomach – 1917-37, New York – 1979, p. 115.
Nell’estrinsecazione della forma la dicotomia contenuto/forma, significante/significato, fonema/grafema scompare. Come sostiene P.A. Zveteremich: “Per conseguire questo risultato la poetessa “rompe” il verso, frammentandolo spietatamente in parti. L’unità del suo discorso è la sillaba. Le sillabe, persino i glossemi, come pure i fonemi e i grafemi, intervengono quali portatori di momenti determinanti della costruzione poetica, quali assi portanti del movimento poetico. Anche le pause e il silenzio sono funzionali a tale movimento.”[4]
Nella creazione poetica per Cvetaeva è basilare la “formula”, come fonte della creazione; ella afferma: “Un verso è convincente solo se esso è verificato da una formula matematica o musicale” (Izbr. proza, cit., s.230.). Mentre la materia della poesia è l’elemento grezzo (argilla) da lei definito anche “canto” – in ebraico golem: la poesia realizzata e compiuta perfettamente si ottiene attraverso la “vittoria” sull’elemento grezzo applicandovi la “formula” di cui sopra. Inoltre, secondo la poetessa al processo di creazione partecipa attivamente anche il fruitore della poesia stessa il quale non può essere solo spettatore del dramma ma anche, e necessariamente, attore.
Nella sua concezione della poetica, inoltre, il fonema è l’espressione fonetica dell’oggetto, un veicolo per penetrare nel suo significato: la poetessa non ci propone tanto un testo, quanto una stenografia del suono-significato. Si consideri poi che per Cvetaeva, devota praticante della pratica mistica meditativa dell’esicasmo – mutuata dai monaci del monte Athos – (praticata con la fronte inclinata in avanti), la parola assumeva anche una valenza sacrale in grado di indagare/evocare il trascendente. In questo senso vi si possono individuare anticipazioni e spunti di riflessione in prospettiva ontologica in ambito metapoetico sul potere evocativo e fondativo della nominazione, come dice Juan Ramon Jimenez: “La mia parola sia/ la cosa stessa”.
Si nota da parte dello scrivente un aspetto nuovo ovvero una corrispondenza fra la filosofia suesposta della poetessa con i principi della Cabala ebraica in cui, secondo la cosmogonia del testo Sefer Yetzirah, il Tutto viene creato da Dio attraverso le combinazioni dei 22 grafemi dell’alfabeto ebraico e i 10 numerali (sephiroth). Forse l’immagine del libro bianco proposta dalla poetessa (Torah come tabula rasa) è una metafora del nulla precosmologico. Allo stesso modo andrebbero intesi in chiave metaforica i “Si-Fiat-Verbo-Logos-Ruah” che plasmano l’argilla grezza (creazione della vita), i quali donano non solo la vita biologica alla carne ma anche l’energia, la vitalità interiore dell’uomo e anche l’ispirazione profetica o poetica (il cui ritirarsi è causa della morte e del ritorno allo stato primigenio di materia amorfa). Interessante anche il richiamo al tema della tradizione rabbinica praghese (la poetessa visse alcuni anni a Praga) del mito del Golem (che in ebraico significa “materia grezza”), l’automa plasmato dall’argilla, robot non senziente, capace di scrivere ma non dotato del dono della parola. Infatti il dono della parola è considerato dai rabbini il dono più grande e può essere concesso solo da Dio. Attivato dal rabbino con formule teurgiche e dalla scrittura sulla fronte delle 3 lettere ebraiche EMET ovvero “Verità” (richiamo in opposizione alla “vita che mente”) e ricondotto ad una massa informe di creta dalla cancellazione della lettera iniziale Aleph (MET ovvero “morto”), il Golem è prima di tutto un doppio. Dio sta all’Uomo, come il Rabbino sta al Golem, come il Poeta sta alla poesia. Dalla poetessa vengono riprese tematiche del Vecchio Testamento, per esempio l’argilla con cui Dio plasma Adamo nella Genesi e il palmo come strumento creatore divino. Il palmo della mano (scrittura/poesia/lettera ebraica Yod) potrebbe rappresentare lo strumento fisico di scrittura e il libro bianco il vuoto creativo angosciante come provato dalla biografia degli ultimi mesi di vita della Cvetaeva. Infine si osserva una possibile corrispondenza con le dottrine del misticismo ebraico (Cabala) inerenti l’Albero sefirotico (iterazioni fra le sephirah Yesod e Malkuth). A corroborare le tesi suesposte si cita una frase della poetessa: “[…] i poeti sono tutti ebrei” da Poema della fine del 1924.
A conclusione dell’analisi del testo poetico si riportano le parole della poetessa: “Nessuna lingua è madrelingua. […] Orfeo fa esplodere ogni nazionalità, oppure la dilata a tal punto che tutti (vissuti e viventi) vi sono inclusi.”
Vasyl’ Stus è stato una personalità affascinante del XX secolo, poeta straordinario di rara cultura, talento e coraggio, nonché traduttore, scrittore, libero pensatore, mentore delle giovani generazioni dei poeti ucraini, dissidente, attivista per i diritti umani, sostenitore dell’ahimsa, patriota e “prigioniero politico”. Un impegno verticale in larga parte dedicato alla difesa dell’identità culturale del popolo ucraino. Egli nacque la Vigilia del Natale ortodosso del 1938, coincidenza che consolidò in seguito il rafforzamento del suo culto martiriologico. Trascorse la sua infanzia in Donbass a Donec’k (esperienza che contribuì alla costituzione della sua identità). Fu membro di spicco del gruppo di intellettuali detti shistdesiatnyky (attivi nella promozione di una rinascita della cultura e della vita civile ucraina), ma a causa delle sue pubblicazioni in lingua ucraina, della discrepanza all’ideologia e della sua adesione alla protesta contro gli arresti di intellettuali ucraini, venne dapprima espulso dall’Università di Letteratura di Kiev, successivamente (gennaio 1972) fu arrestato. Venne condannato a cinque anni di prigione e a tre anni di esilio a Magadan con l’accusa di “agitazione e propaganda antisovietica”. Nonostante le condizioni intollerabili di prigionia, Stus continuò comunque la sua attività di prolifico poeta e traduttore, ma tutto ciò che scrisse venne confiscato. Dalla prigione rinunciò alla cittadinanza e scontata la pena ritornò a Kiev. Contribuì alla formazione del “Gruppo Helsinki”. A maggio 1980 fu nuovamente arrestato, riconosciuto recidivo e particolarmente pericoloso, venne di conseguenza condannato a 10 anni ai lavori forzati e 5 anni di esilio. Morì il 4 settembre 1985 a soli 47 anni nel terribile GuLag Perm-36, “ufficialmente” per un attacco cardiaco nel corso di uno sciopero della fame. In tutto trascorse 15 anni in esilio e in detenzione come prigioniero politico in condizioni disumane subendo ogni genere di vessazione, violenza psicologica e, in base alle testimonianze delle persone a lui più vicine, torture fisiche. Venne candidato da un comitato internazionale di studiosi e letterati al Premio Nobel per la Letteratura nel 1986, ma la candidatura non andò a buon fine per la morte prematura del poeta.
Lo stile stusiano nella sua globalità appare molto variegato nel corso di tutta la sua produzione letteraria ed è caratterizzato da una poetica matura, moderna e complessa. Contraddistinta da uno stile ermetico, centrato sul principio soggettivo, l’opera stusiana rappresenta una ripresa del ricco impulso modernista ucraino degli anni 30’ del Secolo Breve (interrotto bruscamente e tragicamente dall’annichilimento fisico di svariati intelligents ucraini o dalla loro forzata conversione all’ideologia del realismo socialista), nonché la manifestazione del desiderio del poeta di divenire l’elemento di punta del rinnovamento della cultura ucraina. Alla luce degli argomenti succitati si intende valutare la poesia Dentro di me sta già nascendo Dio sia sulla base del vissuto umano di questa personalità geniale (il maggiore intellettuale del 900’ ucraino) sia come icona di gigante dello spirito/martire. Si considereranno solo alcuni aspetti della sua figura postuma di icona pop e in particolare il suo ruolo di Coscienza del popolo ucraino, lasciando all’ambito sociologico gli altri aspetti non pertinenti che, sovente, hanno velato e sopravanzato l’opera letteraria stusiana ovvero: il mito dell’indipendenza ucraina e l’incarnazione del suo impegno politico. La Chiesa considera Stus un mistico al di fuori della Chiesa istituzionale. Dall’analisi degli scritti dell’autore traspare una sua maggiore attrazione per la forma occidentale del Cristianesimo.
Dentro di me sta già nascendo Dio: nel primo verso di questa celebre poesia stusiana sono evidenti l’estetica modernista, i riferimenti alla poetica di Rilke e in particolare alla sua ultima produzione poetica (di cui lo stesso Stus era stato lettore e traduttore), in cui emerge con prepotenza il misticismo cristiano scevro dal panenteismo tipicamente rilkiano nonché riferimenti ad una lirica di Bohdan-Ihor Antonyč. Nell’adattamento del testo ucraino della poesia alla lingua italiana, tenendo conto dei testi di altre poesie di mistici cristiani (S. Giovanni della Croce, S. Teresa d’Avila), della mistica eckhartiana, nonché basandosi sulle dottrine del misticismo rabbinico, delle filosofie dell’estremo oriente (filosofia vedanta, buddismo) e dei principi della filosofia neoplatonica (Plotino) ripresa da Marsilio Ficino in epoca rinascimentale, si riterrebbe più opportuno esprimere il processo della ierofania/teofania del Divino nell’interiorità del poeta utilizzando la forma verbale “si dischiude” al posto di “sta nascendo”, la quale implica un processo graduale e progressivo simile al rischiararsi del cielo nella sequenza notte, aurora, alba, giorno fatto, preferibile al verbo “nascere” che evoca collateralmente un evento comunque violento e drammaticamente doloroso –oppure allo schiudersi dell’uovo cosmico/filosofico della tradizione orfica/alchemica.
Inoltre si riterrebbe più appropriato associare il “già in me” al Divino e non al processo di rivelazione dello stesso, questo in armonia a quanto da sempre sostenuto dalle dottrine mistiche di vari credi religiosi e filosofie in ambito ontologico secondo cui esisterebbe in ogni individuo in nuce una scintilla divina (es. atman) che, attraverso un lungo e doloroso processo (notte oscura dell’anima sensitiva e spirituale), porterebbe alla sostituzione dell’io microcosmico con l’Io Macrocosmico (Divino) accompagnato da una progressiva ed irreversibile dissoluzione dell’io personale visto per sua stessa natura come puramente illusorio (come nell’archetipo junghiano dell’immagine della “sciabola sfoderata” proposta nella poesia stusiana).
Si ripropongono trasposte, ad integrazione del testo del recensore, qui di seguito alcune valutazioni critiche proposte da Liudmyla Kukharyk nella sua tesi Vasyl’ Stus – Prof. B. Sawicki – Pontificium Athenaeum S. Anselmi De Urbe (11035) 2021. La teofania è per l’io poetico causa di angoscia mentale: egli sperimenta uno stato ontologico di morte-esistenza, e per la propria autorealizzazione, non fugge ma sopporta ad ogni costo proprio per essere se stesso e in completa armonia con sé. Le immagini proposte da Stus possono essere interpretate anche come metafora del poeta che teme di essere abbandonato dall’ispirazione a mezza riga. Nella poesia la relazione col Divino si articola in modo a tratti franco e a tratti multi –interpretabile. La forma poetica è adatta a esprimere l’ambiguità del rapporto con Dio. L’esperienza personale del Mistero di Stus si manifesta sia a livello di contenuto che di fonetica ritmica ed energia, raggiungendo a volte la glossolalia. Il linguaggio poetico utilizzato dal poeta comprende termini del linguaggio ordinario, della antica Chiesa Slava Ortodossa (veteroslavo bulgaro) e termini aulici e dialettali galiziani d’elite. Si riscontra, inoltre, un altro tratto caratteristico dello stile stusiano, ovvero la presenza di neologismi o di termini composti contenenti il suffisso samo-, che significa “auto-“ o “da sé” – una forma di gusto sostanzialmente esistenzialistico di autoanalisi, tratto caratteristico come l’uso straniante del genitivo moltiplicato.
Per descrivere le sue esperienze trascendentali il poeta trasforma il significato di parole di uso comune per adattarle al significato emotivo soggettivo, che ha compreso sperimentandolo. Il linguaggio e lo stile poetico stusiano fa sì che in generale non si possono trovare testi che possano considerarsi canonici. Lo Sherek sostiene che: “In Stus la complessità del linguaggio, che va ben oltre la complessità e anche oltre il linguaggio, deriva dall’atteggiamento di preghiera nei confronti della poesia”. Secondo A. Achilli (La lirica di Vasyl’Stus: Modernismo ed intertestualità poetica nell’Ucraina del secondo Novecento, Firenze University Press, 2018): “L’opera stusiana mostra un utilizzo delle possibilità del linguaggio poetico molto insolito. L’accostamento di neologismi basati sulla stessa radice, la riduzione della componente verbale e alla generale rivalutazione del valore iconico della singola parola al di là della costruzione sintattica”. Come tanti altri testi stusiani la sua essenza è la Sacra Scrittura e altri testi di carattere religioso. Per Stus l’esperienza narrata nella poesia non sarebbe una mistificazione letteraria e quindi la separazione fra io personale e io lirico sarebbe da ritenersi evanescente. Stus crea un inno per la glorificazione di Dio (in cui pone il fine ultimo della sua missione), strutturato come atto di confessione, intesa come livello più alto di apertura e introspezione, spostando la dimensione intima/personale a quella sacra e trascendente. Per l’autore la confessione è strumento di purificazione e avvicinamento a Dio, e quindi, strumento di profonda conoscenza di sé. L’io lirico si esprime con una profonda sincerità che i critici definiscono “onestà patologica” e che lo rende quasi prigioniero della sua coscienza, un tratto che lo accomuna alla corrente mistica dei “folli di dio”[5]. Si rileva il tema della “perdita completa di se stesso” come apocalisse individuale. Il poeta, calato nel profondo dell’ego trascendente, percorrendo un sentiero interiore e esteriore di passione e agonia, scopre di essere sulla vera via, la via per placare lo spirito e la carne. Compaiono anche i temi del dolore e della sofferenza, un leitmotiv in Stus, attraverso cui in modo paradossale l’autore scopre, sia di poter raggiungere l’equilibrio mentale per evitare di frantumarsi sotto la pressione delle circostanze, sia, nell’apogeo del dolore/agonia (come scelta deliberata e consapevole), di poter conseguire la Luce e la vittoria definitiva contro l’ombra, i vincoli della materia e i suoi persecutori (“vittoria di soppiatto”). Colto in un istante di dubbio, vessato dalla prova dell’anima e del corpo e dalle tribolazioni esterne durante uno dei momenti più duri della notte oscura dell’anima, il poeta chiede a Dio di allontanare da sé “l’amaro calice” quel tanto che basta a riprendere l’equilibro mentale per procedere e completare il processo di purificazione del suo essere per diventare uno col Divino in una dimensione di santificazione e vittoria permanente, riflesso della resurrezione cristica. Vittoria non violenta anche contro i persecutori di Stus e del popolo ucraino, nella realtà relativa, ovvero superamento dell’odio e della logica dell’“l’occhio per occhio”.
Si rilevano nel testo archetipi mitico-biblici ed archetipi collettivi legati alla luce divina e al processo della fusione dell’anima col divino, che fanno parte del tipico repertorio figurativo dei mistici: (fuoco, luce, candela, fodero-spada) e contrappunti biblici (amore del signore, sacrificio). Affascinante l’immagine del limine mortis, apparente paradosso ontologico – dove l’io poetico percepisce in vita sia il nipote che l’avo (passato e futuro dell’io familiare) – prima della definitiva morte fisica. Si rileva, inoltre, la somiglianza fra il limine mortis stusiano e l’immagine proposta dall’astrofisica e dalla fisica quantistica dell’“orizzonte degli eventi” attorno ad un buco nero, una sorprendente metafora di un divino/singolarità astrofisica – per sua natura di “ente ineffabile/massa infinita” – che con la sua teofania è in grado di curvare asintoticamente il tempo lineare della storia umana verso il tempo circolare dell’eterno determinando effetti paradossali sulla trama percettiva spazio-temporale dell’io lirico. Si sottolinea che nella poetica stusiana si rilevano frequentemente riferimenti astronomico-cosmologici di bellezza gloriosa (nero dietro le stelle, spirali di galassie, ecc.). Si riscontrano qua e là nella poesia alcuni riferimenti autobiografici. Le labbra pallide/esangui richiamano la grave anemia di cui soffriva Stus a causa delle ulcere gastriche/gastrectomia e della denutrizione. Il vento tempestoso di Buràn, oltre ad essere metafora della prova e dell’inverno della vita terrena, potrebbe essere un riferimento alla sua detenzione in un campo di lavoro in Mordovia. Tipicamente stusiano lo sconfinamento nel grottesco/surreale e nella satira verso i suoi persecutori rappresentato dal “Dio che governa/ manipola la massa” riferimento alla dottrina marxista che definisce le religioni “oppio dei popoli”. Da segnalare nello stesso verso, in antitesi, il Dio definito “folle” che “nasce” nell’intimo del poeta, “folle” perché l’ironica e paradossale condicio sine qua non della sua teofania e delle completa fusione Anima/Divino è il libero, auto-determinato auto-annichilimento dell’io del poeta (ma anche dell’Io collettivo/Popolo ucraino del poeta), un io forte, tenace, adamantino nella lotta per la difesa dei propri ideali, della propria identità culturale e nazionale dai suoi persecutori sovietici.
Il tema della luce della candela nera riprende un passaggio dell’Antico Testamento in cui si dice: “YHWH consuma lo spirito dell’uomo come fiamma la candela”. Si riscontra, inoltre, una interessante corrispondenza fra il testo cinquecentesco de La notte oscura dell’anima e alcuni passaggi del suo commentario esegetico di S. Giovanni della Croce e la simbologia stusiana “luce/candela nera/via”, “luogo dove non c’è nessuno”. Nello specifico si riportano i seguenti passaggi: “In una notte oscura,/ con ansie […]/ uscii, né fui notata,/ […] nella gioiosa notte, […] né altra luce o guida avea/ fuor quella che in cuor mi ardea./ […] e questa mi guidava,/ più sicura del sole a mezzogiorno,/ là dove mi aspettava/ chi ben io conoscea,/ in un luogo ove nessuno si vedea./ […] notte che riunisti,/ l’Amato con l’amata/ trasformata l’amata nell’Amato./ […] la giacqui, mi obliai […]/ lasciando ogni pensier/ […] perdersi obliato./” – “La luce divina purifica l’anima e la predispone alla perfetta fusione col Divino come fa il fuoco con il legno […] lo rende nero […] e alla fine lo rende brillante come è esso stesso. […] il fuoco divino dell’amore contemplativo che, prima di unirsi all’anima la trasforma in Sé (…) la purifica da tutti i suoi elementi contrari […] la rende nera […]. Questa purificazione divina rimuove gradualmente tutti gli umori viziosi radicati profondamente in lei che non riusciva a vedere. […] Perché li possa distruggere […] illuminata dalla contemplazione della luce divina […] l’anima ha la sensazione chiara di essere guardata da Dio […] ma anche l’impressione di essere da Lui aborrita. […] Le sofferenze dell’anima provengono dalla contemplazione delle debolezze e imperfezioni residue dell’anima, che senza questa purificazione è incapace di ricevere completamente la luce divina. […] L’anima man mano che si purifica […] si infiamma sempre di più della luce dell’amore divino.”
Si consideri, inoltre, che Stus condivideva il pensiero del filosofo Nikoli Berdiaev’s (A. Achilli – Ivi) (Filosofia della Libertà – 1911) per il quale è centrale l’idea della libertà spirituale. Egli postula un principio divino spirituale (Conoscenza/Sofia/Logos/Ragione/Verità) della realtà e dell’uomo. Ritiene che sia fondante il recupero dell’essenza divina umana, che si manifesta nella creatività umana. Come meta ultima pone il raggiungimento di uno stato di affrancamento completo dal peccato originale ovvero lo stato esistenziale di Uomo-Dio (Vladimir Sergeevič Solov’ëv). Secondo il filosofo questo risultato può essere ottenuto solo abbracciando in modo attivo, consapevole, libero, e, con un ossimoro, gioioso, il dolore. Una apertura verso il Trascendente, il misticismo come sentiero che conduce alla completa comunione col divino, via per conseguire la ierofania del divino velato nel profondo di ogni essere umano. Personalmente si rileva in Stus anche una corrispondenza con le dottrine antroposofiche enunciate nei primi del Novecento da R. Steiner (La filosofia della Libertà) – pensatore che influenzò tangenzialmente anche la visione filosofica di Rilke – e con i principi delle dottrine esoteriche rosacrociane. Sarebbe opportuno indagare se Stus avesse letto i testi di S. Giovanni della Croce o di R. Steiner (alla formazione del cui pensiero contribuirono anche Goethe e gli Esistenzialisti tedeschi) o se, invece, si tratti di una corrispondenza data da un vissuto personale del poeta, avvalorando così la tesi del misticismo di Stus e del suo contatto con realtà metafisiche.
Entrando concisamente nel merito della traduzione/trasposizione in italiano dei testi dei due poeti nella pubblicazione in oggetto, in base a quanto chiarito sommariamente sopra, il lettore potrà rendersi conto che le traduzioni di queste due opere possono essere solo un esangue simulacro degli originali (in particolare Cvetaeva) anche considerando le eccezionali difficoltà rappresentate già in primo luogo dalla radicale diversità fra lingua italiana e l’ucraino/russo e da tutta la tipologia del discorso poetico dei due autori in esame. È indubbio che nella traduzione è prioritario il principio semantico, in base a cui la fedeltà al significato di per sé è garanzia della possibilità di trasferire l’essenza di un originale da un sistema semantico all’altro.
“Ogni traduzione/trasposizione è un approssimativo equivalente dell’originale, ma molto dipende dal grado di avvicinamento, dalla corretta comprensione della specificità del dato organismo poetico e del messaggio contenuto in esso.”[6]
Nel processo poi molto contribuiscono il background, la sensibilità, la poetica, il vissuto del poeta – col suo contesto sociologico – che si presta a tale operazione. In questo caso questa interazione ha dato origine a pregiate opere varie per lingua, temi, stile, ritmica, metapoetica – compreso l’uso del dialetto (altomilanese) – e per interpretazione del significato dei testi. Tutto questo rende ancora più unico nel suo genere questo progetto editoriale. La poesia della Cvetaeva offre al traduttore maggiori possibilità di successo rispetto a Stus che apparentemente presenta un verso con una poetica e una struttura più “classica” e che, in linea di massima, si presta a una traduzione più infida e a una trasposizione su cui sono applicabili maggiori licenze poetiche (si confida anche nella pubblicazione in Italia di una antologia monografica delle poesia di Stus, vista la scarsezza di materiale disponibile in ambito editoriale e la rilevanza intellettuale/poetica dell’autore). In Cvetaeva vengono in soccorso al traduttore/traspositore la elevata concentrazione di carico semantico su elementi minimi del discorso e la saturazione di significati di ogni verso, parola, sillaba, segno. Tutto sulla sua pagina è necessario, e, quindi il traduttore per non tradirla è obbligato a seguirla pedissequamente. Altro elemento che con lei viene in soccorso è lo spiccato senso di straniamento simultaneamente fonico e intellettivo.
In conclusione per un poeta “resistere alla verifica di un’altra lingua significa conferma della sua forza creatrice. Anche in traduzione, rimane – a mio parere- la presenza di queste personalità eccezionalmente forti, si trasmettono almeno gli indizi delle loro azioni nel linguaggio poetico moderno, di quanto seppero offrire per una poesia capace di rinnovarsi dal suo interno, l’eco di una lirica nativa ed intellettuale, una poesia capace di allargare la propria visione e a calarsi nel fondo, negli abissi; che apre e trasfigura i temi strettamente soggettivi in una visione totale del reale, una lezione di rottura e di riconquista…”[7]
In fondo, la traduzione e la trasposizione sono atti sovversivi.
Written by Federico Ielusich
Note
[1] P.A. Zveteremich – nota introduttiva al volume Marina Cvetaeva – Poesie – Feltrinelli – 2021
[2] P.A. Zveteremich – nota introduttiva al volume Marina Cvetaeva – Poesie – Feltrinelli – 2021
[3] P.A. Zveteremich – nota introduttiva al volume Marina Cvetaeva – Poesie – Feltrinelli – 2021
[4] P.A. Zveteremich – nota introduttiva al volume Marina Cvetaeva – Poesie – Feltrinelli – 2021
[5] La santa follia e San Basilio
[6] P.A. Zveteremich – M. Cvetaeva Poesie – Feltrinelli – 2021
[7] P.A. Zveteremich – M. Cvetaeva Poesie – Feltrinelli – 2021
Bibliografia
10 poeti per Vasyl’ Stus e Marina Cvetaeva – Dentro di me sta già nascendo Dio – Inimitabile mente la vita – Introduzione di A. Achilli con nota di A. Lavieri – Collana 10×1 – Mucchi Editore – Modena – 2022
Marina I. Cvetaeva – a cura di P.A. Zveteremich – Poesie – Universale Economica Feltrinelli – Classici -11° edizione – gennaio 2021 – pp. 9 – 52
Vasyl’ Stus – I grandi mistici moderni: un panorama di varie configurazioni tra spiritualità, cultura e vita (55132) – Stud: Liudmyla Kukharyk (11035) Prof: B. Sawicki – 2021 – Pontificium Athenaeum S. Anselmi De Urbe – Istituto Monastico
Vasyl’ Stus and Russian Culture: A Complex Issue – A. Achilli – University of Milan, Italy – Copyright @2013
Australian and New Zeland Journal of European Studies Vol.2013 5(2) – ISSN 1837-2147 (Print)
Vasyl’ Stus: una vita tra poesia e dissidenza nell’Ucraina tardo-sovietica di M. Napolitano
La lirica di Vasyl’ Stus: Modernismo e intertestualità poetica nell’Ucraina del secondo Novecento di A. Achilli – FUP – Firenze 2018
The death of Vasyl Stus di N. Svitlychna traduzione di M.D. Olynyk – Index on Censorship 2/86