“Case, amori, universi” di Fosco Maraini: un mirabile caso di lui narrato
Leggere è ogni volta un evento primevo che reca con sé sempre nuove case, amori, universi.
Prendo in mano Pianeta Tibet di Stefano Dallari e, leggendo l’Introduzione scritta da Fosco Maraini, mi ricordo che, in una libreria in una cameretta che frequento poco, ho un suo libro intitolato Case, amori, universi, assai pesante (vado a spulciarlo e mi accorgo che è cortino: poco più di 700 pagine!), il quale giace da almeno un decennio su uno sperduto scaffale, insieme a vari altri confratelli e consorelle, anch’essi negletti per chissà quale empio motivo. Forse perché la vita è una sola e un povero lettore cerca di barcamenarsi alla meno peggio, non sempre scegliendo il meglio. Decido d’emblée di iniziare a leggerlo, contemporaneamente al reportage di Stefano. Sic transit gloria librorum. Sì, la loro gloria è caduca, dopo quei febbrili giorni in cui li hai tenuto in mano, ma dopo tale casuale fatto, inconsciamente, sempre torneranno ad affacciarsi, almeno finché campi, alla tua memoria.
Nella presentazione ai “miei cari lettori”, Fosco parla di un pur sorridente rimprovero ricevuto dalla figlia Dacia, che aveva dato uno sguardo “alla prima parte di questo libro”. Lei non comprendeva del perché questa vera e propria autobiografia non fosse “in presa diretta, in prima persona”.
L’autore informa il mondo che “il personaggio Clé” l’ha “scoperto lì sulla pagina, quasi per generazione spontanea…” – anche la propria vita la si scrive leggendola. C’è da credergli? Io credo di sì. La prima definizione che mi sento di dare alla sua scrittura è che pare, direi necessariamente, sincera, sia pure, com’è probabile, condita da granelli di fiction.
L’autore più io narrante del secolo, Henry Miller, è sempre stato un girovago attore, sempre pronto a tradire sia le sue donne che la sua realtà. Eppure di lui io continuo a fidarmi, dopo che l’ho scoperto, troppi decenni fa. Lo stesso discorso vale per Fosco, che però ammette: “In parte gli somiglio, ma in gran parte va per conto suo, ha sue reazioni, suoi sentimenti, sue emozioni che talvolta addirittura mi sorprendono. Poi la terza persona concede l’agio di prenedrlo in giro, quando è il momento opportuno…” – tutto nella più cogente e ambigua sincerità d’intenti.
Il primo gruppo di capitoli è intitolato Le due case, i tre universi, ove si affronta da subito, essendo un’urgenza, il problema “d’amodio”: odi et amo, amo et odi.
Crescendo e girando, “Anacleto”, nome derivato da quello del nonno, per tutti Clé, “avrebbe scoperto che il giapponese ha il suo vocabolo per l’amodio. Si dice aizō, amore-odio, i due concetti riuniti in una sola parola, un solo ossimoro, utile ed espressivo.” Come il sottoscritto e come un eroe di Calvino, “dalle scimmie Clé aveva preso non solo la gran fregola di arrampicarsi su ogni albero che gli giungeva a tiro, ma anche una mostruosa curiosità…” – che rende mostruoso ma intimamente libero chi ne è affetto.
Fosco definisce “sussultorio” il “nostro secolo”, il ‘900 che, per chi è nato a poco oltre metà, resterà sempre nostro nonché terribile. Quello che è venuto dopo m’è parso come inebetito, convenzionale, per quanto non meno disastroso.
Quando, leggendo un’opera, mi accorgo che sto sottolinenado tanto, mi dico: è fatta! In realtà, non è così. Dovrò poi rinunciare dolorosamente a molteplici riporti. E quest’opera è così lunga che mi deve indurre alla prudenza.
Un cenno merita il conio di due termini “endocosmo” ed “esocosmo”, il primo è quel che si agita all’interno e il secondo è quel che agisce fuori dal sé. Mai s’incontreranno quei due eroi? Credo di sì, e continuamente. C’è poi “l’ortomo”, un misto di “orto”, di “uomo”, e di orthos, a quanto ho capito: nella fattispecie si tratta di Martino che “aveva circa trentacinque anni, era alto, ma non troppo, muscoloso, bruno di capelli…” – è, in pratica, una quercia che cammina.
A pagina 26, ma un po’ dappertutto, ci sono parole in “fiorentinaccio”, tipo “hoglione”, per via del ramo paterno, e in inglese, tipo “Now, Kleh, come home!”, per via di quello materno. Fosco come diverrebbe, allora? Fosch?
A pagina 34 si legge che “Clé si sarebbe ricordato di questa vetusta operazione…” – in prima battuta avevo scritto ingenuamente venusta – “… ritrovandola compiuta in modo quasi uguale sulle aie del Madhya Pradesh, in India…” – un’operazione ecologica e igienica assai diffusa da quelle parti. A pagina 40 vengono paragonati i “cenoni da saga presso nonno Giovacchino” ad analoghe “riunioni degli Aimu, gli aborigeni del Giappone” – che, se ricordo bene dall’inclita fonte di un Topolino letto nella mia infanzia, erano di pelle più rosea dei successivi, giunti, mi pare, dalla Cina. Mentre “incensi e pianete, calici e inginocchiatoi, candele e rosari campane e santini” gli preannunciavano i successivi “templi buddisti” – anche a me piace visitare le chiese di un territorio, in ricordo delle due o tre che frequentai, ogni santa domenica, da ragazzino. Mi pare che Stefano Dallari non sia particolarmente attirato dai giganti monumentali. A me le cattedrali piacciono proprio perché sento di non appartenere più a quell’architettonica visione del mondo. Non amandole più, le miro con interesse e attenzione.
Un pensiero che va salvato: “I primitivi e i bambini hanno una visione tutta loro dell’immaginario; la ripetizione non solo viene accettata, ma gradita, ricercata.” Ecco ora una frase che testimonia l’amore e il rispetto di “zia Dorina” per l’Altro, che nell’occasione è Clé: “Mostrami la capitale del tuo regno!” – il “fienile”, mentre nel mio caso era il solaio, il mio salvifico refugium peccatorum.
È folgorata da una saetta una certa “Settima” e l’autore sa che Clé, “molti anni dopo”, “doveva essere testimone d’una disgrazia molto simile” – e quell’assurdo verbo passato, proiettato nel futuro, è significativo: tutto è già trascorso, e sempre in auge, per Fosco, e sempre tornerà. Infatti il tempo non esiste, come scrive in The end of time Julian Barbour, concetto poi confermato dal suo allievo Carlo Rovelli.
Fosco dice che quel suo omologo giovane “era predisposto a una notevole superficialità, per lui il presente contava moltissimo, e urlava, assordando passato e futuro” – mentre ora forse tutto bisbigliava, fragorosamente.
“Anni più tardi, Clé avrebbe ricordato con gratitudine i racconti di zia Violet, che almeno gli permettevano di capire molta parte dell’iconografia artistica della propria civiltà.” – questo ragazzo ancora non si è reso conto che il suo stato è, se non un unicum, una rarità: figlio di tante culture, che ogni volta si sommano e mai si sottraggono. E io che pensavo che i Maraini fossero (soltanto) siculi! Sono invece (anche) toscani, inglesi, ungheresi e chi più ne ha più ne metta!
“Il ragazzo era favorito da una memoria prensile, e da una curiosità insaziabile per tutto…” – un po’ come il mio Sté.
“Un anno a Castelluccio”, che è “il luogo in Italia che più richiama gli altipiani del Tibet”, gli prefigura quel che ancora non sa che saprà.
Parlando dei libri umani, ché forse ve ne sono anche di bestiali, qualcuno gli dice “Non sai quane cose meravigliose ci sono, Montaigne, i romanzi inglesi dell’Ottoento, i russi…” – il che a volte mi destabilizza, essendo però rincuorato dal sorriso saggio del mio maestro (nel senso che io mi reputo un suo fido bidello) Gino Ruozzi, che quando gli prospettai l’umana impossibilità di leggere l’intera umana questione, abbozzò un tenero sorriso.
“… il continente donna, chi ci capisce qualcosa è bravo!” – gli dice il padre di Daisy, che un po’ l’aveva illuso, e poi acerbamente deluso, quasi stroncato. Il fatto è che ogni donna è un libro a sé e, dopo che hai divorato alcuni suoi capitoli, la prossima bella toma presenterà tutt’un altro indice, che potrai scorrere, leggiucchiare, a brani per lo più scelti (da lei, æterna magistra vitæ).
“Era stato in giro poco più di due settimane, ma quante cose erano cambiate (maturate?) dentro di lui!” – almeno una più di ieri, almeno un paio meno di posdomani.
Clé pensa alla mancanza di varietà del termine “amore”, tutte riconducibili a quel vocabolo, che pure esiste nel mio dialetto: amòr, in cui però difetta il verbo (amêr non esiste, ma solo vrèir bèin); e c’è pure l’appassionante kam’a, ma lo si scoprirà quando sarà il caso e a tempo debito.
Il secondo gruppo di capitoli è Le bande dei tinegisti – che altro non sono che i teenager, in cui è scritto che Clé ricorda la sua relativa “ignoranza” (ed eventuali fantasie) del mondo sessuale collegandola a quella di Elias Canetti, così come il bulgaro-spagnolo-anglo-tedesco la descrive in La lingua salvata.
Ogni tanto Fosco mi soprende con delle paroline semplici, che non so quanto e se ignoro: i plurali “prode” e “bordure”, simile quest’ultima all’inglese border. Ogni lingua difetta in qualcosa, com’è naturale, puzzando d’umano. In inglese poche parole danno il senso di furbizia, astuzia. Però “ha la parola esatta a questo punto, patronizing” che “all’italiano manca”, perché a Fosco non garba troppo l’analogia con “accondiscendente”.
Una notizia che mi sorprende per una banalità che ancor mi difettava: “Come si sa, l’abbronzatura fa vestito…” – fatto tanto vero quanto ai più misconosciuto.
A pagina 154 si dice che noi amiamo i nostri artisti, ma disconosciamo i fors’anche più eccelsi stranieri: altra semplicità da mettere nel sacco e da riporre in un tiretto in cucina. Un so called “Ermete Trimegisto” gli parve (e anche qui non so quanto del ricordo sia del narratore, quanto del narrato) “troppo vulcano! Sputava idee come un Krakatoa della mente”.
Della di lui mamma Clé riesce a scorgere “un giro di borchie d’argento e turchesi che le donava molto (ci sarebbe voluto un etnologo per dire se il monile fosse tibetano o navaho”.
Grande è la sorpresa quando, salendo un una nave zeppa di nord europei, scopre che “tutti, ma proprio tutti, anche i facchini e le donne che lucidavano maniglie d’ottone o borchie di bronzo, parlavano inglese!” – era come un tornare a a casa a metà…
Wanda “amava vestirsi vistosamente” – “o (per dirla alla giapponese) squisitamente shibui.” Questa è tua, I guess, Fosco. La tua mamma, anzi, quella di Clé, dice che “la puszta ungherese, quella non me toglierà mai nessuno dal cuore…” – essendo per lei un retaggio familiare.
Amena considerazione: “prevaleva, da noi, un uso orizzontale, geografico, dei dialetti”, mentre in Inghilterra vigeva un ordinamento verticale, per cui “in cockney”, la parlata londinese”, la h di “habit” di “hollow” andava a ramengo. Capitò in Emilia quando, negli anni ‘60, venne quasi abolito il vernacolo, per cui i nostri vecchi dicevano, in un italiano creato al momento, tassa per tazza, essendo tâsa in arşân.
Appartenendo a una famiglia di benestanti, Clé si sentiva uno a cui era tolta la possibilità di arrancare nella comune via, faticando insieme agli altri. Come avrei voluto vivere io.
“Purtroppo la testa di Clé era tutta extracurriculare…” – e qui un po’ ci assomigliamo. Io disprezzavo le materie scolastiche, puntando al sei mezzo e accontentandomi del sei meno meno.
Poi, con l’amico Rolando (che si chiama come il mio papà!), Clé inizia la sua avventura tra i colli e le montagne appeniniche, mete quasi al di là delle loro possibilità, a cui però entrambi sopravvivono un po’ storditamente, ma felicemente. Clé è sempre più preso dal genio umano che, in nuce, sta spuntando nel suo cervello smanioso. Dopo l’ennesima delusione sentimentale, che di positive non se ne presentano ancora, si sente “afflosciato a terra come una di quelle gommacce luride che possono interrompere anche la gita più meravigliosa.” – che però resta sempre là come realizzabile. E allora ci sono le montagne, tanto popolate quanto ancora vergini, mentre oggi “gli uomini sono discesi a valle, il loro posto lo vanno prendendo i cinghiali.”: apposta ho usato una sia pure arrischiata contemporaneità, tenendo a mente l’idea di Barbour-Rovelli. Clé ogni tanto cresce un po’, osservando il mondo esterno, non solo il suo.
Nel capitolo 7 di questa sezione scocca La scintilla Malachite, sicula e fascinosa come poche, dono involontario di Ermete, Scottante Imago che presto sparisce. Per cui, per ritrovarne l’ebrezza, Clé si appresta a un viaggio, “in groppa aalla sua Bmw 750”, lungo ma non interminabile, come è l’esistenza: “Da Battipaglia in poi le due ruote correvano sullo sterrato, con le sue buche, il suo pietrame sparso, la sua polvere, terribile se c’era appena un po’ di traffico”: chiamala, oggi, se vuoi, Salerno-Reggio Calabria. Ora il manto è assai migliorato, più del resto del mondo. E quella, vedendola, gli disse: “Ma finalmente arrivasti! Racconta, racconta…” – e, casomai permanessero dei dubbi sull’etnia della ragazza: “Stanco sei?”.
C’è anche, fra le maschere, “il duca Silvestro”, detto anche “il patriarca”, che riesce a dire: “Eh, una volta la Sicilia fu cuore del Mediterraneo, e quindi del mondo. Non per nulla Federico II era così felice in Sicilia. Palermo era la New York del Duecento. Greci, Normanni, Arabi, Lombardi, Burgundi, Aragonesi, Franchi, Ebrei, Catalani, Genovesi, Pisani, gente d’ogni lingua, colore e fede, circolava per le sue piazze, per i suoi mercati. poi piano piano siamo rimasti indietro. Siamo diventati…” – Siciliani? E che c’è di meglio e di più inquietante? Però il duca si sta scordando degli Albanesi, che furono Achei, come dice il gipiellista presso cui mi recherò fra poco in via Adua. Importante e oggetto di discussione, talvolta è che: “In Toscana, dicono, non esiste dialetto; si hanno però elisioni e aspirazioni, poggiature così forti e curiose d’accento, scelte tanto capricciose di vocaboli, che si costituisce di fatto almeno un sostituto del dialetto, che può risultare quasi incomprensibile agli estranei.” A Reggio scemo si dice nèsi, dal latino nesciens. In Veneto dicono mona, come quell’inquietante cosa. A Firenze ci stanno i grulli, che è parola del dizionario italiano, ma solo colà la si pronuncia (praticamente ogni giorno). A noi arşân baby boomers il dialetto ci è stato a lungo negato. E ci è stato imposto ‘sto idioma toscaneggiante. A Firenze no, perché in quei preziosi lidi anche i linguisti sorseggiano la hoha hola hon la hannuccia!
Intanto è “Clé con quell’aria svagolata d’Anglo-Vichingo.” – uno che sa integrarsi dappertutto.
C’è poi un tale di nome “Turi Musumeci”, anch’egli di etnia palese, e “Il suo compagno era un grosso e biondo inglese sulla quarantina, residente a Palermo da molti anni, Michael Webster, ormai quasi completamente italianizzato, anzi siculizzato.” – e io conosco nell’intimo un arşân tésta quêdra che dice abitualmente: iddu è pacciu! e pure Maronna mia!
Alla sua sposa che lo interroga su tanto splendore, a lui va di replicare: “Malachite, come potevi dubitare del mio responso? Anzi ti dirò, è quasi eccessivo. Passa il segno. mi distrugge. non è semplice incanto. È droga, fattura, magia. come potrò vivere in futuro! Solo di ricordi? Sarò per sempre orfano dal bello…” – e quando il mio ospitale amico Nicola mi condusse alla Villa del Casale di Piazza Armerina, nel bel mezzo di tanta estasi, fui colto da una quasi insopprimibile voglia di scappare, rimanendo però, sia pure a stento, a mirare quegli infiniti mosaici! E quando mi portò a camminare nella Valle dei Templi di Argigento, ricordo che, pur affetto da un doloroso attacco di gotta, dovuta ai troppi salumi arşâni, divorai quell’erta come un soldato in marcia verso la più inimmaginabile delle mete. Se la Sicilia non è la terra più bella del mondo, è senz’altro la più meravigliosa! E Palermo è la sua illimitata e incontrastata Regina. Mi correggo: è contrastata dall’ancor più vulcanica Catania.
Dice lei, la potenziale consorte: “Sei troppo fuodde…” – e io cerco su Google Traduttore, senza trovare alunché, finchè mi rivolgo al fido zio Google che mi dice che è colui che vuol essere coccolato, un eterno bambino che, insaziabile di esperienze, vagola un po’ ovunque. Scopro poi che soprattutto significa folle!
Lei insiste in quella specie di lamento: “Ci amiamo, è vero, ma non sento fondamenta sicure sotto i nostri piedi.” – e poi le fa una penosa confessione: “E ti dirò che la mamma, senza conoscerti, ti odia già, perché non sei né milanese né ricco: solo toscano, trecento chilometri a sud del punto giusto.” – e poco prima avevo letto che la vegliarda madre la sognava convolata a nozze con un lombardo e plutocrate meneghino.
Malachite è un’aspirante artista, che studia da anni per diventarlo realmente. Lui è al momento un aspirante essere e nulla più, e per di più confuso.
Lei lo porta a Capo Zafferano, che “pareva un’onda smisurata di maresmoto pietrificatasi di colpo.” – e io vorrei portare il mio amico Nicola a Capo di Conca, e mai mi sognerei di chiedergli quale dei due Capi sia più nobile e sfuggente. Sono entrambi così naturalmente unici!
“Che posti! Che respiro! Che magnificenza!” – e “per chi sente, ama, onora la natura, era come per il conoscitore d’arte scoprire un ignoto…” – capolavoro, poco importa a quale tribù appartenga!
E l’uggiolante Clé giunge a pronunciare un’assurdità: “E che me ne importa di Malachite? Questa splendida, incredibile Sicilia non è uno sfondo per lei e i suoi incanti, è lei che è un puntolino qualsiasi s questa geografia di meraviglie!” – e chi non ha mai espresso una simile grullagine scagli in alto il proprio mutandone da mare!
A chi gli domandava cosa pensasse dei trinacrini, “Clé si schermiva ridendo. ‘Ne conosco troppo pochi per averne ancora un’opinione… Lasciatemi respirare! Gli esseri umani son ben più complicati delle pietre, delle montagne, degli alberi.” – e io, che ho visitato pur anche Caltanissetta, che opinione ne ho, se non che sono tutti ugualmente e ossimoricamente differenti?!
Si odono degli spari. E Malachite lo tranquillizza, sussurrandogli: “Non ti muovere! È semplicissimo. Si ammazzano tra di loro. Mai occuparsi di simili cose. Hai davvero sentito qualcosa? Io direi che non abbiamo sentito nulla. Proprio nulla.” – e se compare Turiddu, talvolta Turiddu malamente scompare!
Lessi in Il cappello scemo di Haim Baharier che arca in ebraico è tevà, che significa anche parola. Ad Amalfi vale il detto che con la lingua si va in Sardegna. Mia madre pure diceva: il portafoglio ce l’ho, la lingua pure: posso uscire. La lingua è il mezzo per recarsi altrove, a comunicare con l’Altro. E ti può bloccare dappertutto. Dipende sempre dall’Altro, e tu null’altro che questo sei per lui. L’episodio biblico della Torre di Babele non l’ho mai compreso, né amato. Un Nume che confonde gli uomini perché in tal modo rinuncino a raggiungere le sue altezze, se posso, vorrei lasciarlo per sempre da solo. La lingua è un bene da salvare, come raccomanda il poliglotta Canetti, come fai intendere anche tu, Fosco mio: voi due eravate benedetti dalla buona sorte, ma quanto ci avete messo per capirlo? Avendo vissuto per tanti anni (anche) in un luogo lontano da casa, ho visto aprirsi la mia mente, grazie agli idiomi che ivi ho udito parlare. Pensa che una volta ho fatto da intermediario culturale tra un amalfitano e un pisciottano, che discorrevano soltanto nel loro aulico dialetto! Si guardavano senza capirsi, ma grazie a me alla fine riuscirono a comunicare.
Ecco, comunicazione: parolina essenziale per risvegliare la coscienza che per caso s’è assopita.
Questa premessa è per anticipare la novità: Clé ha trovato un impiego, sia pure momentaneo. Dovrà salire su un battello e per un paio di mesi parlare inglese con gli altri viaggiatori, tutti studenti in crociera, fingendo di essere un albionico col pedigree. Gli dicono: “Ricorda, tu sai solo un inglese, anzi sei un inglese. Non far capire a nessuno che sei italiano, per di più fiorentino, sarebbe un vero disastro!” – e questo per un toscanazzo (ma anche per un emilianazzo o un campanazzo), specie a quell’epoca, non era possibile. Quando viene smascherato, “gli allievi e Clé si erano già presi in forte reciproca simpatia”. In quell’ameno luogo “gli ufficiali venivano nominati come il ‘Signor’…” – … tal dei tali “e non con i loro gradi, come avviene nell’esercito…” – nave e paese che vai… ad Amalfi, per esempio, ci si dà del tu o del voi, mai del lei (anche se qualche guaglione si sta evolvendo in tal senso). Nel salutarsi, anche fra estranei, ci si dice ciao!, che deriva dal veneziano s-ciavo vostro, schiavo vostro! Mistero della fede! Cioè nella parola che si evolve e si diffonde, come fa il destino.
Sulla nave non si dice “corde” ma “cime”; non “remare” ma “vogare”, non “barca” ma “battello”.
Odio (parola che odio!) dare i voti a un libro, e faccio fatica a non darne uno a questo capolavoro!
E già mi sono compromesso con quest’ultima parola. La scrittura di Fosco è cosmica, nel senso di universale, essendo infinitesima, attentissima ai singoli particolari, e al contempo infinita, sapendo condurti, tenendoti costantemente per mano, ovunque egli si recherà (con la memoria, nei luoghi in cui ha respirato, vissuto, amato, pensato, penato). Ed è grazie a te, Fosco, che scopro tante parole nuove. Per dirne un’altra: “navarca”. E conosci tante persone, come “il nostromo Brandimarte”, che era “piccoletto, tarchiato, rivestito da una sorta di uniformastra…” – termine non so se traducibile in inglese e in swahili.
Ulisse sta scrivendo un libro che potrebbe essere una specie di “Buddenbrook” e chi sarà mai? Sto pensando ad Alberto Pincherle, che so essere stato un grande amico di Dacia, più anziano dello stesso Fosco. Ma chissà chi è, ‘sto intrepido Odisseo!
“Intorno al 1935 si ebbero alcuni matrimoni, che riguardavano persone di nostra conoscenza. forse è simpatico parlarne.” – come no…
Si sposano, in primis, Clé “e Malachite (o Chitella come la chiamava nei momenti di intimità domestica)”: il cui nome spiumato è Topazio, quindi Paziella? ‘O Paziello in amalfitano è il giocattolo che ha da resta’ in mano a criatura. Chi mi potrà ora e forse mai rispondere? Dacia?
“… giapponesi e valdostani, come doveva in futuro scoprie Clé, non sono un po’ simili…” – due riposte arşâne possibili: seh, in dal pisêr, oppure: no: gnân in dal pisêr! Poiché ognuno ha la minzione che si merita.
Tale valle t’affascina, amico autore, essendo la regione italica con le maggiori altezze. La mia amica Manuela, che preferisce il suo Trentino, dice che sono montagnacce!, e non ha tutti i torti, che invece abbondano in chi pretende di dare un nazionalità a quel che dev’essere universale, come il Monte Bianco, la cui immensità mi offrì un salvifico turbamento. Immagina poi che effetto mi susciterebbe l’Himalaya! Dimenticavo di riportare il fatto che ormai ti sei dato alle scalate, insieme ad amici e pure con la tua donna. Ho deciso che ti aspetto giù perché, come quell’Ulisse, amo mirare talvolta i miei piedi e, a quelle altezze, ‘sto vizio mi recherebbe senz’altro del male!
A pagina 303 dici che t’imbatti “una volta o due” con “l’editore Enrico Vallecchi”, a cui non concedi alcun nome di piuma, che strano! Enumeri tutte le parole (chiamiamole fallaci/passeriniformi), che condividi con la tua mogliettina, senza alcun ritegno nei confronti di chi legge, e fai bene!: “Ce n’era insomma per ogni capitolo, paragrafo e comma del Kamasutra domestico.” A pagina 304 scopro l’etimo di “lavorare a ufo”, fatto strambo (e fiorentinissimo) davvero!
“Clé scoprì tutta una serie di piaceri nell’abitare a Fiesole…” – e non so come dirtelo, caro, ma quando da noi qualcuno rompe le scatole, gli si dice: Veh, va’ a Fiesole!, chissà perché. Pare che nelle nostre campagne un colono avesse sposato una donna originaria di quelle inclite bande, che ogni sera lo martoriava ricordando la bellezza del suo storico borgo. E ogni tanto allo sfinito villico scappavano i cavalli e anche i buoi!
A pagina 312 fa una comparsata la tua primogenita, una certa Dafni, e alla sua nascita la tua casa fiesolana diventa all’improvviso una mirabile dacia. Ci presenti ora un paio di stranieri, il più stimolante dei quali è “il barone Dersken”, non del tutto proletario, come la maggior parte dei vostri conoscenti, che ti stimola a proiettarti nel futuro, che ci condurrà a incontrarci, nel tibetano libro di Stefano. Ma anche quell’inglese esibizionista, James, con tutto il suo corredo di personale etnico, non era male, dai! Un giorno mi dirai cos’avesse di tanto esoterico quel gioiello di Malachite, mulier così simpatica ed esuberante, che non sempre riuscivi a gestire. A due punti vorrei accennare, perché tu li hai indicati a me. A casa di James appare una gigantessa scura e un po’ scosciata e “Clé avrebbe voluto sbirciare, ma restò inchiodato dalle buone maniere al suo posto e nella sua posizione d’osservatore di stendardi…” – anche se non mi pare che ci sia al momento alcuna Magica Pietruzza a controllarti. E poi anche: “Clé non aveva mai visto nulla di simile. Per un attimo restò addirittura sconvolto dall’apparizione…” – e ora starò più attento a quegli spoiler piscologici, che tu, a occhio, destini, non stranamente, a quel personaggio.
Presto poi m’accorgo che è una fatica improba e inutile. Fosco è quasi esattamente Clé. Perché dubitarne? Perché quasi? Poiché ogni scrittura è un quasi e poco più.
Passo ora, insieme a Clé e a un certo “professor Giuseppe Tucci” a Innamorarsi del Tibet, III parte del romanzo: Tucci è nato a Macerata nel 1884, morto in un paesino romano 90 anni dopo. Il Tibet fa bene, a quanto pare, e fa esistere a lungo. E qui sorge la (fallace) problematica: perché alcuni personaggi hanno pure anche il codice fiscale e altri un nom del plume? A Fosco l’ardua sentenza, ma non so se gli vada di pronunciarsi, oramai che è Colà. Egli invia una missiva a Giuseppe e questi gli risponde, più o meno, sì, ti prendo con me, dai, preparati che si parte al più presto. E la pietra angolare e forse esoterica Malachite, che fa? Rimane a casa con la creaturiedda! Qualcuno deve pur sacrificarsi affinché qualcun altro cresca!
“‘Ora siamo davvero in Tibet!’ – esclamò Tucci stropicciandosi energicamente le mani, con un gesto tipico di quando era felice e voleva comunicare a tutti il suo stato d’animo.” – e a quel Tucci si potrebbe conferire il premio di datore di lavoro del ventesimo secolo! E “Clé si sentì davvero, e finalmente, ‘battezzato tibetano.” – e io manco so’ cresimato, né comunicato tale. Ma so leggere di tutto, anche il tuo immane volume e il più smilzo di Stefano.
Esempio di fosca prosa: “… chi doveva sgravarsi, saliva e s’accucciava a culo spoglio, in piena vista dei quattro venti e degli eventuali passanti…” – diceva Zeri che il sesso è una funzione, come evacuare, aggiungerei io: “I lasciti s’accumulavano alla base del trespolo, ed essendo l’aria secca, gelida e sterile, finivano con il formare un gran cumulo bruno-rossiccio, che terminava in alto con il vezzo d’una punta, stereometria elegante della più recente cacata.” – e questo per dire che i toscani i loro bisogni li fanno hahando.
Un popolo felice lo chiamerà, decenni dopo, Stefano: “Cantavano i boscaioli al taglio della legna, cantavano i contadini all’aratro, cantavano i carpentieri rifacendo un tetto – e ora cantavano le donne battendo per indurirla la creta che fa da cemento.” – chi vive cantando muore non si può dire, tanto per fraintendere i fiorentini Litfiba. Ma c’è dell’altro: “Piume sublimi di molecole elegantissime coronavano, tremila metri più su, il capo del gigante.” – che poi, rispetto ad Alfa Centauri, non è che una bazzeccola.
“Uno di loro portava vistosamente a tracolla un ombrello. Sissignori, un autentico ombrello londinese di seta nera…” – Mistero della fede! Preghiamo per noi e per…
“Poveri tibetani!” – sterminati dalle “forze angolo-indiane” e poi da quelle maoiste!
“La notizia riempì Clé di curiosità e di gioia. L’esplorazione di un antico monastero sconosciuto!” – mi ci porterai un giorno, Fosco, e ci andremo insieme a chi amiamo.
Pavese “parlava di una certa collina piemontese come di ‘una mammellaccia’” – e ora sono costretto a leggere quel romanzo che ha una collina nel titolo! E se poi non è lì? Beh, fa lo stesso…
“La ragazzotta era scalza e indossava una camicia sporchissima e talmente stracciata che una spalla, e quasi due mammellacce verginali, restavano scoperte, beati e innocenti, al sole…” – e se si intra-vedevano vuol dire che intra-esistevano…
“Nei riguardi degli individui, il Buddismo cerca di adattarsi alla varietà delle singole disposizioni, alla personalità morale, alla levatura dell’intelletto, al livello della cultura, al colore e al calore del carattere, al patrimonio karmico, all’esperienza religiosa del passato, considera insomma ogni caso da angolazioni molteplice e incrociate.” – come un disegno opportunamente rigirato da un vago geometra dell’anima.
“Anni più tardi, quando Clé vide il film di Zurlini Il deserto dei tartari: ‘Ah, ecco Iwang’, esclamò tra sé.” – e ora con te, Fosco, io e tutti quelli che lo vogliono udire. A pagina 364, per chi è interessato, c’è la precisa descrizione dell’ambiente.
Ora passi a Gli anni del Sol Levante Hokkaido. E ora m’accorgo che poco mi sento di riportare, chissà perché.
A pagina 388 Clé si accorge di figurare “come minzoku-gukusha (etnologo), classificazione accademica che lo soddisfaceva in pieno.” – assai più che parastatale, I imagine, dove quel para non promette granché. Mi sono chiesto talvolta quale sia la differenza fra etnologo e antropologo. Mi rivolgo al sempre efficiente (7 dì su 7, 24 ore al giorno: lavoratore inde-fesso!) zio Google. mi pare che le due figure si assomiglino (già suggerita reggianata) nel mingere e poco più, un po’ come un fisico teorico e uno sperimentale.
Interessante: “Se Carlo Levi avesse scritto il suo famoso libro in Giappone, non l’avrebbe chiamato Cristo si è fermato a Eboli, ma forse Buddha s’è arrestato a Sendar!” – mai fu chiarito quanto Gesù fosse coniugato con la Maddalena, ma può essere che si sia fermato colà per visitare il Cilento Outlet Village, che io subii due anni fa, con un esausto ed ebete sorriso sulle labbra, perché mi ci condusse una mia neopatentata e amata consanguinea.
Leggo poi l’amara storia dell’assai consapevole “signora francese, Mathilde (detta dai giapponesi ‘Machirudo’), anch’essa insegnante…” – come te – “… della propria lingua agli studenti locali”, la quale si sposa un dozzinante nipponico della casa della sua famiglia, che poi la conduce con sé nella sua patria. Dove tutto cambia. Per esigenze sociali lui diventa un marito-padrone e lei la “gaijin” (bianca) a rischio di maldicenza, per cui l’unica via è di maltrattarla davanti agli altri, salvo poi dirle in privato che tutto ciò è socialmente necessario. E lei subisce, con stoica rassegnazione. Almeno finché, il marito, sempre per obbligo connesso al suo stato di possidente, si infatua di una geisha: “La mia donna di casa, Nobe-san, che mi era molto affezionata, cominciò a farmi dei veri rapporti segreti: ‘Eh sì, il danna-san (il padrone) c’è caduto davvero… Vuole riscattarla dalla professione…Chissà che somma… Vuole metterle su casa’” – e la storia finisce che la gaijin le buttò sul grugno (in dal grógn) la verità, con così tanta determinazione che quel maritozzo, non più assoluto poiché dissoluto, “chinava la testa, sembrava disfatto” – dopo di cui lei prese su baracca e burattini (i due figli) e se ne andò a vivere per conto suo, per cui ora dice: “io mi sono resa indipendente con la scuola.” – e dicono che siano protetti dall’Unesco gli ultimi due o tre luoghi del mondo dove non vige il detto la brógna l ē un frût acsé dòuls ch’a vôlti at mâgna la cà, ché questo è l’effetto della prugna, che alla fine ti può far andare (fuori) di corpo. E che, più è carnosa, più può essere cannibale! Non necessariamente, però.
“… della polizia, che era estremamente sospettosa riguardo alle attività degli stranieri, e dei giapponesi che li frequentavano…” – ogni popolo è stato, almeno una volta nella sua storia, un forestiero che da fuori a volte chiede solo d’essere incluso a tempo determinato. E poi rimane finché non può evitare di farlo, a volte per sempre, diventando fatalmente locale. Con “Gourdiaeff non sai mai quanto ci sia di vero, e quanto di romantica decorazione!” – dice Dick a Clé. L’episodio narrato a pagina 419 è incredibile e possibile al contempo: ogni conversazione e ogni scrittura non richiedono tanto la fede, quanto un attento ascolto.
Nel frattempo nasce “Yuri, ‘Giglio’ fiore popolarissimo nell’Hokkaido”: Yuki nella realtà esterna a quella del presente romanzo; cosa significa?
A pagina 420 spunta una leggiadra “suor Beltrada”, e tutti si domandano: “Come fa una fanciulla dell’avvenenza di Baltrada a seppellirsi in un convento, in Hokkaido?” – Mistero della Fede! Tale mulier viene paragonata a “Uta di Naumburg”, così bella che quasi mi pento di averla testé conosciuta.
L’io narrato legge “Alone with The Hairy Ainu”, dopo di cui, Fosco ricorda, sessanta anni dopo, di aver provato “un’invidia senza limiti per quel tale che quarantasei anni prima aveva potuto percorrere, libero come il vento, un Hokkaido quasi intatto, vicino alla sua natura primordiale, eterna.” – ventiquattro anni dopo ancora io provo un analogo sentimento.
“Konna osoi jikan de Nibutani made Kimashita!” – è vero. Clé: “a quest’ora tarda è venuto fino a Nibutani”, un ameno paese della zona: “‘Paese’ era veramente un termine un po’ ampolloso per una fila di venti o trenta capanne, uasi tutte del tipo tradizionale ainu…” – se tutto il mondo è paese, è vero anche il contrario: la microscopica Nibutani è come il resto del mondo.
Un anziano ainu che altro può dire se non che: “Mio figlio ha preso l’avione ed è andato a Parigi…” – come noi diciamo film, bar, chewing-gum, pronunciando cevingum…
Il globo è bello perché è melesco: “gli australiani da lui studiati…” – con lui s’intende ora un autore che sta leggendo, il darwinista sociale Spencer – “… vivono o vivevano completamente nudi…” – e quel doppio tempo verbale ferisce, riducendo “i bisogni della sussistenza al minimo assoluto. Ma poi, che incredibile complessità di riti…” – essendo esistenziali. Anche a Nibutani non scherzano, o forse scherzano pure respirando, e nessuno se ne accorge: e creano edifici “come se la costruzione non fosse solo opera umana, ma lavoro collettivo di moltissimi kamui, la cui collaborazione è assolutamente necessaria per condurre tutto a buon fine.” – inutili che gugoleggi a dire chi siano per il mondo intero i kamui.
I riti sono complessi per chi li ammira per la prima volta, ma sono naturali per chi li conosce dalla prima infanzia: “sempre in perfetto atteggiamento d’oripak, senza confusione, senza urti, senza incertezze: si sarebbe quasi detto un balletto in cui ciascuno, delle due dozzine di partecipanti, conoscesse a memoria, fin da fanciullo, non solo tutti i gesti e le mosse del caso, non solo tutte le formule di rito, ma l’intreccio strettissimo di tempi che regolavano l’insieme.” – a cui io non potrei mai più partecipare, se non leggendo.
A Clé, “giovane antropologo toscano”, viene allora “in mente”, assurdamente e logicamente, “un certo libretto di devozioni, che gli aveva tenuto compagnia durante la sua breve ma significativa ‘mania religiosa’ da fanciullo, a Ricorboli, sotto gli influssi di don Sestino…” – come io amavo, nelle messe di don Gaetano, quella sonora Ostia divina!, che talvolta, magari scribacchiando, uso ancora gorgheggiare.
Ci si sposta, ora, a Gli anni del Sol levante: Kyoto – che è la sacra città nipponica che vorrei tanto visitare.
Mi fa sorridere, e vergognare, allorché penso al mio inglese e francese. “il professor Kuroda” che invita il nostro “a visitare la ‘Birra Imperiale’” – cioè la Villa Imperiale, ma per lui la B talvolta, spesso, diventa V, e viceversa, e la R s’altera in L, e viceversa.
“… quando ti lanci tra le nubi della filosofia le cose cambiano di brutto…” – intendendo le stesse parole, non solo i concetti: “Come si fa, per esempio, a tradurre quidditas?” – è una quidditas di problema!
A pagina 488 Malachite scopre che Genji monogatari, che io tanto ammirai, non è un’opera isolata, anche se forse la più inclita del periodo, essendo stato scritto mentre da noi ancora si balbettava l’idioma italico. Anch’io restai come abbagliato da quell’opera. Leggendo una frasetta spiritosa infilata da “Sei Shonagon” in “Makura no Shoshi” alla futura scultrice scappa pensato “Che incantevole frivolona” – e chissà come Fosco l’ha saputo?! Malachite ipotizza di tornare a dipingere: “solo che ho paura del Verde maggiore che sottolinea i passaggi di qui. Non l’ho negli occhi. Ho ancora nella retina la chiave giallo-blu (rocce-mare) della Sicilia.”
Domanda penosa: “… a che serve il Cristianesimo, a cos’è servito, se risultati umani addirittura migliori si ottengono per altre vie religiose e filosofiche…” – poiché talvolta citi Pier Paolo Pasolini, ti prego, per non farlo infuriare, non nominare in sua presenza il nome di quel Saulo!
La Pietra Più O Meno Angolare è ancora incinta: “la nuova venuta venne chiamata Kiku, che in giapponese significa ‘crisantemo’” – anche se oji Google dice diversamente (Toni).
“Si tenga presente che fatto basilare nei riguardi dei giapponesi è l’essere nati isolani.” – i più isolati di tutti, “connati ab aeterno con le rocce, i vulcani, le acque, le selve delle proprie isole.”
Ed è questa la “premessa ideale dunque per l’insorgere d’una dottrina del popolo giapponese come ‘popolo eletto’” – mio e loro, per sempre nostro e al contempo altrui, Dio! Ma Goddam! dà forse più l’idea. E ciò nonostante “la fenomenale invasione culturale cinese, sistema di scrittura incluso, uno dei rari casi al mondo in cui un popolo abbia letteralemente adottato gran parte del bagaglio culturale di genti vicine senza restarne sottomeso politicamente. Si ebbe, in altre parole, un travaso senza conquista.” – mi pareva che all’inizio, forse per prudenza, quegli ideogrammi fossero inseriti in verticale, ma chi può dirmelo oramai, se non l’amato oji.
Ogni tanto Fosco mi stupisce coi suoi effetti speciali: “miti nippogonici”, “sacerrimo oggetto di venerazione”, e poi parla delle “somiglianze con gli ebrei”, anche se i giapponesi sono d’indole più “pragmatica” – e chissà che ne pensa a proposito l’arguto Haim Baharier.
“Andava ormai profilandosi uno scontro supremo, demiurgico, titanico, cioè Giappone-Mondo.” – ergo vinca il più favorito dal Destino!
Ora “i giapponesi ‘dovevano’ fatalmente e finalmente provare a loro stessi e all’umanità la propria elezione divina.” – e qui iniziano sempre frotte di guai.
“Stanno bombardando Pearl Harbour, capisci?”
Ho qui fin troppo sintetizzato la lezione foschiana. E ora segnalo vilmente alcune amabili incertezze del narrante (nonché del narrato): “… insegnavano inglese (o letteratura inglese?)…”, “… come fanno (o facevano) le signore giapponesi bene educate…”, “…gli dava un’aria da artista (pittore?)…”.
Intanto riporto che, non so se soltanto a quei tempi, mia penosa incertezza, “possedere un cane è cospicuo indizio d’occidentalizzazione avanzata, quasi una sfida al senso comune.” – leggo che era usanza dei rari proprietari portare con sé un raccoglitore di feci canine: ecco chi ci ha educato!
Clé si reca a trovare Munro, “due europei sperduti in capo al mondo”: l’amico sta recandosi verso Chissà Dove: e i due amici si tengono per mano; “In un primo momento a Clé questo contatto parve un po’ strano, ma poi si sentì di fare tanto bene, di dare un immenso sollievo, al patetico padre adottivo, sottoposto a un bruttissimo frangente.”
Come nella quiescenza dal lavoro, anche nella morte, a farti alzare o restare a letto non è la sveglia, o la luce del sole, ma le tue morbide palpebre. Per cui ora urge recarsi a vivere Gli anni del Sol levante: Nagoya, Kosai-Ji, Tokio., di cui voglio citare uno dei quattro eserghi: “Allegramente o carcerati, ch’quannu chiovi a buona banna siti… (Scritta graffita nelle carceri dello Steri, Palermo, 1770 ca.)”
Ora fa la sua bieca comparsa, dapprima fintamente gentile e poi irrimediabilmente implacabile, una masnada di poliziotti.
“Il signor Iwami” dà il suo buongiorno sl “dottor Raimondi” e poi chiede gentilmente entrare “con sei o sette uomini in uniforme, e dall’aria poco conciliante”.
Il discorso conclusivo non può essere che: “‘… Dovrete prendere ordini solo da noi. Preparatevi a partire con i bambini e con meno bagagli possibile…’. Poi si rivolse a due dei suoi scherani: ‘E voi restate qui, sorvegliateli, sono nemici…” ‒ mentre in patria Badoglio reggeva il suo provvisorio governo.
Fuggire da quell’isola era mera follia: “Era un po’ come sentirsi sepolti da una frana dentro una miniera, a centinaia di metri dall’imbocco, nella notte delle viscere terrestri. Talvolta, pensandoci, prendeva una disperazione cupa e finale, e veniva da rassegnarsi intimamente alla morte.”
Dopo di cui segue la descrizione di un lager quasi ma non del tutto inumano, in cui quei reclusi deperiscono, pur adattandosi a ingurgitare per disperazione dei funghi non velenosi, che però si rivelano “potentemente lassativi…”.
Pur non colmandomi di gioia, un po’ mi consola penare che anche i poliziotti addetti al controllo, come faremmo noi italici, freghino ai detenuti buona parte del cibo, salvo quando si presenta uno svizzero ispettore della Croce Rossa, e in quel breve frangente i captivi sono trattati con guanti di velluto: e c’è chi afferma che anche quei nipponici siano figli dell’uomo! E gli stessi captivi si rubacchiano l’uno con l’altro, simulando e dissimulando, come tanti Catilina. Anch’essi sono umani! Il furto, l’omicidio e tutti i reati concepibili trovano talvolta un’ingloriosa giustificazione: si è tutti delle bestie che soffrono! La rivolta, in taluni casi, è d’obbligo: “Clé afferra l’accetta (della cucina), si taglia il dito mignolo della mano sinistra, lo raccatta e lo getta al terrorizzato Kasuya gridando…” – in nipponico, qualcosa del tipo: “Gli italiani non sono dei bugiardi…” – il che ricorda il grido del catanese Fabrizio Quattrocchi: Vi faccio vedere come muore un italiano – grande catanisi cche corna tisi!
Il secondo capitolo si chiude con la questione sempre aperta: quale libro ti porteresti “in un’isola deserta”. Ho deciso: porto meco un’opera qualsiasi di Bruno Vespa e La cena dei cretini di un suo pari collega: forse in quel meschino luogo riuscirei ad assaporarli (se poi si bagnano, forse è meglio).
Ricoverato in un ospedale per il dito mozzo, “Clé si sentì improvvisamente chiamare dalla mamma, in modo forte e chiaro. Il giovane uomo si voltò con le lacrime agli occhi: era terribile, ma aveva capito. Soltanto dopo un anno avrebbe saputo…” – e qui mi soffermo per un attimo a dire che la cosa che più amo del libro (tante ce ne sono!) è l’affetto che Fosco prova per quell’adolescente ormai adulto, quell’adulto per sempre adolescente.
Bombardamenti che qualche meschino dio li manda: “Clé, salendo la scala, trovò Dafni alla finestra, dalla quale si vedeva benissimo parte della città ancora in fiamme. La bimba, in piedi, guardava a valle, silenziosa: ‘Doshite, papachan’ ripeteva, ‘doshite’? (Perché, papà, perché?)’” – e io tanto la vorrei incontrare quell’infanta, che sarà nel frattempo cresciuta… I capitoli che trattano della fine della guerra, e sull’inizio dell’ipocrita pace sono bellissimi. Un consiglio: leggeteli tutti quanti, al più presto!
A pagina 622, Fosco spiega che noi occipitali (refuso da me fortemente voluto), tendenti cioè a guardare la realtà con la nuca, siamo venuti dopo un Nulla, cioè in una “creazione ex nihilo (versione moderna il Big Bang)”. I nipponici invece concepiscono il mondo come la realizzazione fisica da parte di una coppia di amorosi dei, che diventò poi il loro Eden isolano. Inevitabile, come l’Inferno, poi si prospettò l’infame resto. Ed è questo il motivo per cui “non si può parlare di Cosmogonia, bensì di Nippogonia…” – dopo tante pagine ho finalmente sciolto l’enigma!
“… e spiega, sul piano affettivo ed emotivo, sia l’amore nipponico per la natura, sia il pragmatismo mistico come filosofia della parentela con il mondo, imponendo accettazione del dato oggettivo, del fatto, come imperativo del macrocosmo al microcosmo.” – e qui potrei chiudere la lettura e la conseguente mia reazione, ma sento che dovrò ancora tornare nei campi, sotto l’amico e incandescente sole, a faticare. E così fece zio Mario che sette volte rincasò per desinare e per sei volte la moglie gli disse che il desco non era pronto, per cui lui ogni volta quello tornò scotendo il capo a falciare l’erba, a zappare, a sudare… Ma al postutto poté desinare, congiuntamente alla sua numerosa nonché affamata famiglia. Forza, un ultimo sforzo: Riallacciando i fili d’un tempo! Quando seppe l’atroce verità, già preannunciata da quell’avviso telepatico, “Clé non fu per nulla sorpreso.” – salutiamo la di lui mamma. Intanto la sua famigliola con le sue quattro femmine torna a Firenze, dopo un giro del mondo durato non so bene quanti giorni. E rivede gli amici, forse un po’ invecchiati, come anche l’acutissimo Ermete.
Strambo fenomeno è l’umana esistenza! Ovunque, anche a Portofino, dove “le bambine si esprimevano ancora in un creolo italo-giapponese…”. Constatazione che assorbo leggendo: “… i giapponesi (e gli altri popoli ex confuciani) possono benissimo perdere le loro radici religiose, senza smarrire la bussola dell’etica.” – ergo, pure io sono simil-nipponico, o forse è l’unno che nudo cavalca in me che m’è in ciò d’ausilio. “… i popoli dell’Asia non hanno modelli iconografici del nudo…” – eppure nel mingere tanto paiono ricalcati sui nostri amabili membri!
“Clé notò sulla poppa un nome, intagliato sopra una tavoletta di legno lavorato applicata allo scafo: Scopamare. Gli piacque!” – e accatta la bagnarola. Quel suo lepido nome mi ricorda tanto amodio! E anche ortomo!“Sapeva virare e orzare.” – e ora io, grazie a zio Google, so anche (non tanto) poggiare.
Per “Dane e le sorelline”, meschine!, puarete!, pôvri fiôli!, “le parole ‘nostro’, ‘nostra’, avevano un senso magico, totemico, d’altissimo voltaggio.” – stavo per scrive lignaggio – “Da quando erano nate si può dire che gli aggettivi possessivi le avevano soltanto sfiorate.” E tu, Clé travestito da Fosco scrittore, ed è anche il contrario, puoi ora gridare: “Ma è bello vivere da matti qualche volta, no? Sono stato saggio per tanti anni… Ora è tempo di follie, viva le follie!” – Tu ami descrivere le donne bruttine come bruttine, le belline come belline, e non lo eviti mai di sottolineare. Dai insomma i voti estetici a tutte quante. Ecco una cosa che poco mi piace di te, anche se oramai ci ho fatto il callo.
A pagina 682 mi spingi a studiare con la lente d’ingrandimento la differenza che corre tra “colli e colline”, dopo avermi fatto scoprire che singolare di “madieri” è madiere, non madiero. Grazie!
Si dice, ma è forse un thef-fake che l’altoatesino più orientale di cui ho conoscenza si sia fermato a pochi metri dall’ultimo 8.000, al solo fine di tornarci da anziano. E se io non leggessi il tuo ultimo capitolo, che è Aahh! gridò Sisidda. ‘U’dduca è muorto! – ma neanche per una pecora (in arşân è gnân per ‘na pêgra! Potrei però evitare di reagirci… Seh, dmatèina! A pagina 687 scopro che cos’è “l’arte topiaria”: ché l’erba va curata sennò dà ospitalità ai ratti! Dice “donna Filomena (detta da sempre donna Fila)” – e chissà mai dove ci si trova ora! – “Figghia mia, dunne venisti, eh?”.
Existo ergo vita mea mutatur: “Adesso erano veli sottili ed evanescenti di ricordi. La sala da ballo e l’alcova fatata d’una volta, si stavano trasformando in mesta e marmorea sala di morte.”
E le bimbette?: “Alla partenza dall’Asia orientale le piccole parlavano solo, e benissimo, il giapponese; sei mesi dopo avevano già dimenticato la lingua dell’infanzia e si destreggiavano ottimamente con l’italiano. La capacità dei bambini d’imparare (e di dimenticare) le lingue è fatto prodigioso.” – e di noi cosiddetti stagionati, che si può dire? Delle due l’una: o siamo cresciuti, oppure siamo ancora più infantili di loro, o forse ne deriva una mescolanza ossimorica. Contemporaneamente, e a secondo del momento (time don’t exist!), io amodio l’italiano, il reggiano, l’amalfitano e il pisciottano.
“Be’, non tutto il male viene per nuocere. Clé e Malachite avvertivano ogni giorno d’avere acquisito tastiere dell’animo, riguardanti dolori e miserie degli esseri umani prima troppo baldanzosamente ignorate.” – concetto che ho solo arguito, il resto poi me lo spiegherai dall’altrimenti vivo e mai morto. Oh my god!
Quell’urlo del titolo “fu soluzione meravigliosa, decapitazione d’ogni incertezza!” – e cosa ti avverte la tua ormai acquisita “saggezza Buddista”? Forse che “Tutto ciò nasce dovrà perire, tutto ciò che si unisce dovrà infine separarsi…” – una Singolarità che si mischia di continuo con l’Entropia. Nel mio dialetto la padrona della casa è la Reşdòura, la Reggitrice. A livello cosmico potrebbe uno spirito bicefalo e dotato di Fallulva… Chissà! L’adorata mammuzza mia, Rosalinda, sempre diceva ‘sta verace banalità: tót à fin!
E questo, Fosco, accade ora al tuo smisurato e incommensurabile libro che mai e sempre vivrà!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Fosco Maraini, Case, amori, universi, Mondadori, 2000