“I versi migliori si sciolgono nell’aria” di Stanislav Bel’skij: il territorio particolare della parola
“Se comincerò a scrivere versi/ sarà una grandissima menzogna/ davvero non noti nulla?/ Là dove è terminata una risata fanciullesca/ è il territorio particolare della parola.”

Cinque versi icastici abilmente intrecciati a costituire una poesia. Qui, in questo territorio particolare/neutrale, dimora la poetica di Stanislav Bel’skij, uno tra i più importanti e noti poeti ucraini contemporanei, poeta che si distingue e brilla per il suo stile inconfondibile, la prolificità ampia e variegata, l’introduzione della poetica dello haiku nella poetica ucraina e l’utilizzo della lingua russa.
La risata del fanciullino pascoliano o il sussurro del daimon platonico in Bels’kij, nella devastazione del conflitto russo-ucraino, è un apparente ossimoro, una pura contraddizione e anzi la stessa disumanità della guerra sarebbe la consequenziale cagione della perdita di ogni “innocenza” e stupore fanciullesco. Eppure, nonostante tutto, la voce del fanciullino in Bels’kij rimane intatta, alta, chiara consentendogli di comporre versi capaci di un’analisi lucida, distaccata, in tempo reale, della vita quotidiana nel corso del conflitto – istantanee di guerra. Come scrive il poeta “[…] c’è nel vero poeta/ una coscienza, e parla in versi/ qui essa ha torto”.
La parola poetica in Bels’kij è parola declamata pregna di significato eppure materica, palpabile, olfattiva; “poesia di guerra” condensata, essenziale, razionale, niente orpelli, poche stanze o pochi versi – solo il necessario – ma quello che resta è un “distillato di vite” tant’è che “i versi migliori si sciolgono nell’aria/ senza lasciar traccia sulla carta.” pura “sublimazione” artistica.
È forse un’apparente contraddizione rispetto al topos romantico e modernista della poesia che trionfa apparentemente negando se stessa e la propria capacità di sussistere e comunicare? Tutt’altro, come insegna la poetica dello haiku, anche per il poeta ucraino “da tutto si può spremere/ un verso comodo/ anche dalla malattia/ anche dalla morte.” Scelte estetiche, modelli di linguaggio, metapoetica e di prossemica poetica che Bels’kij si trova ad adottare (come avevano fatto nel Secolo Breve Giuseppe Ungaretti, W. Owen, ecc.) per dare una risposta all’aforisma di Adorno “Scrivere poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie/ irragionevole” o Anastasija Afanas’jeva “È possibile la poesia dopo Jasynuvata?” poiché, dopo l’invasione russa del Donbass, dopo la Pandemia, dopo anni di conflitto, dopo Bucha, Mariupol’, Irpin’, non è più possibile scrivere poesia come si faceva prima: questa “rottura di civiltà” ha cambiato il significato delle parole, ha mutato la materia stessa della creazione poetica. Dal famoso EuroMajdan la poesia ucraina è stata testimone attenta e coprotagonista del rinnovamento politico e culturale del paese. Lo shock della guerra è tale che la necessità di usare il linguaggio per cercare di capire ciò che sta succedendo si scontra con il fatto che gli strumenti espressivi tradizionali sono diventati improvvisamente insufficienti. Bel’skij come gli altri poeti ucraini sceglie – in modo unico – la parola come strumento per difendere la propria terra, la propria vita, il proprio futuro – haiku/versi come “armi”. Uomo, informatico, poeta, haijin e, forse, samurai? Oggi la poesia ucraina sta combattendo per la sua sopravvivenza fisica.
I versi migliori si sciolgono nell’aria offre una selezione delle poesie più rappresentative del poeta ucraino raccolte in un volume dalla veste grafica estremamente curata e accattivante. Il curatore della raccolta e traduttore Paolo Galvagni presenta al lettore un volume in cui è tangibile l’eccellente traduzione, l’attenzione filologica, la perizia nella conservazione della prosodia del testo russo e il rispetto della parola poetica del poeta che l’editore propone al lettore suddivisa in quattro percorsi tematici: Versi sulla guerra, Prima della Guerra, Pietruzze, Dal ciclo Conversazioni amichevoli col robot. Un’opera letteraria preziosa – quella proposta dalla casa editrice – se valutata nell’ottica sia della diffusione a un pubblico più vasto, sia della tutela di una delle vittime meno note dell’immane tragedia del conflitto russo-ucraino: la poesia russofona in Ucraina.
Come scrive il critico letterario Dmitrij Kuz’min nella prefazione al volume: “Gli autori, che nell’ultimo decennio hanno trasformato la poesia russofona in Ucraina in un fenomeno unico, particolare – lo spazio del dialogo fra due tradizioni nazionali ricche ed eterogenee ̶ uno dopo l’altro passano alla lingua ucraina, ammettendo che il dialogo non è riuscito. Ma se questo dialogo è destinato a svuotarsi, Stanislav Bel’skij probabilmente sarà colui che lo lascerà per ultimo e chiuderà dietro di sé la porta. In parte ciò è dovuto al fatto che proprio Bel’skij è stato il più attivo in Ucraina a tradurre in russo i poeti contemporanei ucraini, e anche oggi sulla sua pagina Facebook i più recenti versi militari dei leader della poesia ucraina appaiono in lingua russa alcune ore dopo la pubblicazione degli originali.”
Bel’skij è di fatto un creatore di “ponti di dialogo”. “Una voce poetica che non allude mai a nulla; ma, quando parla direttamente come nel 2022, non c’è nulla da obbiettargli.” – D. Kuz’min dalla prefazione del volume
Nato negli anni Settanta appartiene ai cosiddetti “poeti dell’Indipendenza” o visimdesjatnyky. È una generazione che ha conosciuto l’Unione Sovietica, la sua agonia e la sua fine, e che si è ritrovata a vivere l’adolescenza nel pieno della crisi degli anni Novanta, per poi aggrapparsi ai primi accenni di ripresa. Una riflessione poetica innovativa, “trasgressiva”, post-moderna, post-modernista e appoggiata al verso libero. Esteticamente Bel’skij si avvicina a poeti quali il russo Andrej Sen-Sen’Kov e all’ucraino Michajlo Žaržajlo.
La poesia della sezione Versi sulla Guerra si distingue per la presenza di diversi haiku e senryū, generi appartenenti alla cultura giapponese ma solo apparentemente slegati dalla cultura ucraina ed occidentale. Infatti diversi autori occidentali sono stati affascinati dalla brevità, dal potere suggestivo evocativo, dall’emozione lirica immediata, dalla rarefazione dei legami logici di questi componimenti. Ezra Pound, Paul Valèry, Federico García Lorca, Jorge Luis Borges, Allen Ginsberg si sono cimentati con questo genere. Lo stesso Rainer Maria Rilke ne compose ben ventinove, nel periodo tardivo della sua produzione, quel Rilke della tradizione klassische Moderne che ebbe così grande importanza nella formazione del padre spirituale della poesia ucraina contemporanea ovvero del grande poeta ucraino V. Stus. Se nello haiku il linguaggio è più forbito, è presente un kigo stagionale ed è incentrato sul rapporto uomo-natura (l’attenzione alla natura è tipica della poesia ucraina) in una riflessione filosofica profonda, riverberante e insondabile, invece nel senryū – come afferma V. Simonova Cecon – “la sagace penetrazione nel mondo della natura umana” ovvero l’analisi del mondo umano in tutta la sua varietà, complessità e caleidoscopica emotività, con un linguaggio comune, liberatorio, catartico, informale e ironico/sarcastico. Bels’kji si destreggia fra questi due stili a volte non seguendo (per i più puristi) gli stilemi formali di questo genere (ad es. la struttura metrico-sillabica 5/7/5) ma non nella sostanza dove si riconoscono i principi estetico filosofici del mono no aware, wabi-sabi, toriawase, yūgen, datsuzoku, ecc.
Inoltre lo “spirito dello haiku” emerge anche in componimenti di impostazione più “classica”. La precarietà del quotidiano nel conflitto, in Bels’kji, si traduce in una manifestazione/simbolo dell’impermanenza. Se i maestri giapponesi del genere haiku scrivevano “morto di guerra/ con tutti i suoi trentadue/ denti sani” (Kyoko Fujiki), “nel nostro mondo/ camminiamo sopra l’inferno/ guardando i fiori” (Kobayashi Issa), Bels’kji nell’acme del conflitto scrive “un razzo giace/ su un campo arato/ come una belva crepata” oppure “che riflettore potente/ tutte le buche sull’asfalto si vedono/ no, è la luna, appena vecchia ormai”, “l’allarme notturno inizia nel medesimo modo/ svegliano non le sirene/ ma le maledizioni di mia mamma rivolte a Putin” e infine “[…] camminiamo/ per la desolazione di Kiev/ e una cinciallegra […].”
Nei Versi della guerra, inoltre, la catastrofe rovesciatasi sull’Ucraina può essere interpretata come una sorta di “prisma” che proietta nuove chiavi di lettura alla precedente produzione poetica del poeta. Il Leviatano della catastrofe nucleare incombente emerge prepotente dai versi del poeta “la gola irritata/ il fumo dell’ennesimo incendio/ nella zona di esclusione.” e “giorno dopo giorno/ i russi colpiscono la centrale di Zaporižžja/ vogliono vendere agli europei/ la catastrofe nucleare […].”
Nella sezione Prima della Guerra e Sassolini la poesia di Bel’skij degli anni ’10 – quella prima della guerra e dell’epoca della “piccola guerra” dopo il 2014 – è tutta costruita sui paradossi.
È il surrealismo e l’assurdo, ma domestico, comodo – afferma ancora Dmitrij Kuz’min nella prefazione del volume: “Il quieto edonismo di questi versi è permeato di stoicismo: della disponibilità, col susseguirsi degli eventi, ad accettare il mondo come dato di fatto, a vederne la coerenza. In un mondo folle si può vivere quasi spensieratamente la contraddizione: amare la moglie e osservare una ragazza simpatica in treno.”
Come recita una massima zen: “Tutto è come deve essere che tu lo comprenda o meno.”
A volte l’assurdo e il surrealismo si traducono in apparenti voli pindarici o nonsense. Spietata lucidità, sarcasmo, fine ironia, umorismo sornione e affermazioni irriverenti ben oltre il politicamente corretto “[…] è ora/ di aprire i nostri/ siti porno ortodossi/ affinché tutto sia/ umano/ ecclesiastico/ senza queste/ cazzate da regista/ ostili allo spirito russo.” si alternano a versi delicati “ecco la felicità/ tutta scarmigliata come un riccio/ e non si lascia prendere.”, esistenziali “[…] ogni cosa ha una storia,/ e io ho solo il futuro, […].” o “la fretta a suo modo/ è una medicina universale/ non hai tempo per pensare/ non hai tempo per lavorare/ non hai tempo per innamorarti […].”, di profondo insight o ermetismo “[…] il cespuglio dei significati è rimasto come prima/ non il ricordo ma la malinconia dell’oggetto.”
Altrove Bels’kij propone versi sensuali “[…] riposarmi dai baci/ scrutando gli spettatori casuali/ della nostra felicità impacciata […].” e di fine erotismo “[…] i nostri corpi formavano un ideogramma,/ che cambia continuamente significato: […].” oppure incursioni fra istantanee di vita che ricordano il Bukovski scanzonato, guascone e caustico dei tempi della Black Sparrow “[…] la bionda con cui ho fumato di notte/ alla stazione aleksandrija/ mi sorride nel dormiveglia/ e si allunga dolcemente verso il telefonino/ per chiamare il penultimo marito.”
Il conflitto, in questa produzione poetica, è una realtà incombente, imminente, palpabile, che permea e penetra il vissuto quotidiano personale “ho paura ad assopirmi// […] un passante casuale/ mi accoltellerà sul petto […].” oppure “il sesso è diventato un lavoro quotidiano/ un canale diplomatico/ tra la metà femminile/ e maschile della famiglia/ se non scopiamo/ perdiamo questo mondo/ in un giorno simile scompare/ un vecchio ramo ferroviario/ il campanile sopra il fiume/ o qualcuno dei vecchi conoscenti.”
Il non-luogo della stazione ferroviaria, le traversate interminabili in treno delle pianure d’Ucraina sono leitmotiven nella poetica di Bel’skij che trasfigurano l’avanzare dei vagoni nel ritmo della prosodia poetica. Ambientazione di incontri romantici, sguardi rubati, flirt fugaci. Tuttavia alla luce delle scene strazianti delle primavera 2022 dell’esodo e della diaspora del popolo Ucraino l’immagine della stazione, del metrò e dei treni assumono una valenza “perturbante” in senso freudiano – per il lettore – un immaginario poetico soffuso di ferali presagi.
Doveroso menzionare il riconnettersi del tema del treno e della stazione ai grandi della letteratura russa di fine 800’ e del 900’ che hanno li hanno usati come ambientazione per le scene più folgoranti e suggestive dei loro romanzi: come non citare Anna Karenina o La sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj, Il dottor Živago di Boris Pasternak, L’idiota di Fëdor Dostoevskij, Moskva Petushki di V. Erofeev. E come scriveva, quasi con visione profetica, un’altra poeta “cantatrice” dei treni Marina Ivanovna Cvetaeva “Ulula un treno. I treni sono lupi. I lupi sono la Russia. Non è un treno. È tutta la Russia che ulula verso te!” Così pure certi “fermo immagine” e “campi lunghi” di Bels’kij riportano alla memoria del lettore attento scene de Lo Specchio e Stalker del regista Andrej Tarkovskij.
La sezione intitolata Dal ciclo Conversazioni amichevoli col robot ospita alcune delle poesie tratte dall’omonimo progetto poetico – tra più interessanti di Bel’skij – ovvero un interminabile ciclo poetico, di cui di tanto in tanto pubblica nuovi testi. Il titolo del progetto è di fatto fuorviante: nei versi non ritroviamo la parola dell’autore – programmatore informatico e creatore di App – o dell’io poetico a conversare coi robot: “I robot e le reti neurali parlano l’uno con l’altro, si scrivono lettere, non nascondono le emozioni. Un escamotage letterario per dimostrare che il dialogo è possibile. Il dialogo di per sé -per il poeta- è un valore, anche se non c’è nessuno che lo condurrà, né nessuno con cui condurlo.”[1]
Forse una metafora del rapporto “schizofrenico” o meglio dello “scisma interiore” fra il Bel’skij razionalista, rigoroso, calcolatore, matematico e l’uomo-poeta?
“Questa esperienza creativa del poeta, con cui ha cercato l’umano nel disumano, è servita ora nel climax del conflitto per tenere quello stesso tono uniforme e la serena osservazione di fronte a quanto di disumano accade nel mondo: l’odio e l’avversità umana.”[2] Tuttavia si potrebbero introdurre ulteriori intriganti chiavi di lettura a questo tipo di produzione poetica.
A un dato momento, la crescita di capacità della macchina nel simulare ed emulare prestazioni umane si è combinata con i mutamenti in atto nello statuto del corpo, e ha dato luogo, nell’immaginario, al sorgere di un “uomo artificiale” variamente figurato e denominato, che ha assunto le funzioni di un “doppio” collettivo dell’uomo, malefico e rovinoso, in cui, come in altri “doppi” della fiaba e della letteratura, si incarna un ritorno del rimosso.
Il golem, i robot, i cyborg nella letteratura hanno l’effetto, fra l’altro di mostrare ciò che è nascosto, il rimosso “sociale”: l’annuncio del declino dell’uomo o di un popolo quale noi lo conosciamo, o meglio, pensiamo di conoscerlo? D’altra parte – adottando l’ottica del programmatore – visto come indicazione dell’esistente e del futuribile nel rapporto uomo/computer, il robot diventa un problema linguistico, di linguaggi di programmazione della macchina e di arricchimento della comunicazione tra uomo e macchina: insomma, un problema di interfaccia. Certo, rimane un paradosso, un interrogativo irrisolto per la coscienza comune: come sia possibile che ci siano problemi di “traduzione” tra il linguaggio naturale dell’uomo, che è il suo marchio distintivo dagli altri esseri naturali, e il linguaggio artificiale delle macchine, create dall’uomo.[3]
Come sia possibile che una nostra creazione ci dica sul mondo più di quanto già non sapevamo e per di più attraverso un linguaggio intrinsecamente “altro” rispetto all’inanimato come quello poetico?
D’altro canto – in senso lato – le reti neurali evocano quasi naturalmente l’immagine di una “intelligenza collettiva”. Certo la forma prevalente di questa intelligenza collettiva è assunta per il momento dagli strumenti finanziari della globalizzazione economica che in pochi nano-secondi decidono il destino delle economie di intere nazioni. Poco a che vedere con le intelligenze angeliche evocate dall’ottimismo telematico di Pierre Lèvy. Ancora una volta il carattere collettivo delle reti pare ergersi contro l’individuo come una nuova versione del potere alienante dello Stato e dell’Ideologia, come un monumento dell’impersonalità, della eterodirezione e del formalismo del lavoro morto contro la pulsante individualità, l’autonomia e la ricchezza esistenziale del lavoro vivo. Il potere collettivo delle reti, il general intellect, può realizzarsi come intelletto collettivo impegnato a costruire pratiche di liberazione, o è destinato a riprodurre all’infinito i meccanismi dell’alienazione e dell’eterodirezione mascherata da scelta individuale? Come posso “rientrare in me stesso” dopo esserne uscito, come posso riportare con me la ricchezza intellettiva, emotiva e affettiva che ho contribuito a costruire nella fase di esteriorizzazione, di uscita dalla mia dimensione individuale? Come posso conservare e arricchire il mio corpo dopo averlo temporaneamente dimenticato sulle reti, o dopo averne sperimentato versioni tecnologicamente sofisticate ma apparentemente immateriali?[4]
Come posso tornare a casa se non ho più una “casa”, ma una pluralità di “dimore”, di “rifugi”, di luoghi e non-luoghi virtuali/reali della mia esistenza ibrida e telematica? Queste domande ci accompagneranno a lungo dopo aver concluso la lettura di questo prezioso volume di poesia.
In conclusione l’arte non è un divertissement, è sempre documento di un’epoca, seppure non si limiti certo a questo, e a maggior ragione se è costituita da versi nutriti dalla sofferenza, dalla resistenza e dalla resilienza – l’unico modo per salvare il presente e garantirsi un futuro.

Stanislav Bel’skij è nato nel 1976 a Dnepropetrovsk, importante città nell’Ucraina orientale. Laureato in matematica, lavora come programmatore. Abita a Kyiv. È un poeta di lingua russa e traduttore letterario. Suoi versi sono apparsi sulle riviste “Vozduch”, “Dvoetočie”, “Volga”, “Arion”, “Neva”, “Novaja Junost”, “Deti Ra”, “Futurum Art”, “Interpoezija”, “Homo Legens”, “Zinziver”, nei siti “soloneba”, “Topos”, “polutona”, “Post(non)fiction”, “Syg.ma”. Ha pubblicato varie raccolte poetiche: Pticy suščestvujut [Gli uccelli esistono] (Moskva 2014), Stancija metro Zavodskaja [La stazione del metrò Zavodskaja] (Dnepropetrovsk 2015), Putešestvie načinaetsja [Il viaggio ha inizio] (Dnepropetrovsk 2016), Muzej imën [Il museo dei nomi] (Dnepr 2019), Ošibočnye teoremy [I teoremi errati] (Dnepr 2020), Kniga vozvraščenij [Libro dei ritorni] (Dnepr 2021). Cura la serie poetica “Tonkie linii” [Linee esili]. Traduce in russo i poeti contemporanei in lingua ucraina. Suoi versi sono stati tradotti in polacco, greco, inglese, yiddish; in traduzione italiana sono apparse nelle riviste “L’Immaginazione” e “Inkroci” e nel litblog “Di sesta e di settima grandezza: avvistamenti di poesia”.
Written by Federico Ielusich
Bibliografia e Sitografia
I versi migliori si sciolgono nell’aria – di Stanislav Bel’skij – Cura e traduzione di Paolo Galvagni – Sannicola – i Quaderni del Bardo edizioni – Poesia – Prima edizione gennaio 2023
Eppure ancora i nespoli – dissertazioni sullo Haiku – di Antonio Sacco – Piazza Armerina – NullaDie NuovoAteneo Edizioni – Saggi Nulla Die – agosto 2020 prima edizione
La luna e il cancello – saggio sullo haiku – di Luca Cenisi – Roma – Castelvecchi – Cahiers- agosto 2018
10 poeti per Vasyl’ Stus e Marina Cvetaeva – Dentro di me sta già nascendo Dio – Inimitabile mente la vita
Introduzione di A. Achilli con nota di A. Lavieri – Collana 10×1 – Modena – Mucchi Editore – 2022
Marina I. Cvetaeva – a cura di P.A. Zveteremich – Milano – Universale Economica Feltrinelli – Poesie – Classici – 11° edizione – gennaio 2021 – pp. 9 – 52.
Vasyl’ Stus and Russian Culture: A Complex Issue – A. Achilli – University of Milan, Italy – Copyright @2013
Australian and New Zeland Journal of European Studies Vol.2013 5(2) – ISSN 1837-2147 (Print)
La lirica di Vasyl’ Stus: Modernismo e intertestualità poetica nell’Ucraina del secondo Novecento di A. Achilli – FUP – Firenze 2018
Il cyborg – saggio sull’uomo artificiale – A. Caronia – Milano – Shake Edizioni Underground – 2001
Sito Poesia del nostro tempo
Note
[1] D. Kuz’min dalla prefazione del volume.
[2] D. Kuz’min dalla prefazione del volume.
[3] Rielaborazione tratta da Antonio Caronia, Il Cyborg saggio sull’uomo artificiale, Milano, Shake Edizioni Underground, 2001, pp. 40-41.
[4] Rielaborazione tratta da Antonio Caronia, Il Cyborg saggio sull’uomo artificiale, Milano, Shake Edizioni Underground, 2001, pp. 128-129.