“La spiaggia del dubbio” di Patricia Highsmith: fumana esistenziale o fumosa incertezza?
La spiaggia del dubbio di Patricia Highsmith e il Charles Dickens di Il mistero di Edwin Drood sono parenti stretti. La prima parla di un dubbio, il secondo accenna a un mistero che rimane tale fino alla fine: cos’è successo a quel bravo e amato, nonché odiato ragazzo che è misteriosamente scomparso? È vivo, è morto? È felice? È Altrove? O è Colà? Non si sa.
Hammamet è il luogo dove si svolge la storia della Highsmith, celebre per noi italiani perché diede asilo a un politico nostrano. Luogo che senz’altro esiste, mentre ho dei seri dubbi a proposito di Cloisterham, di cui un giorno vorrei visitare la cripta, magari nottetempo, per meglio riconoscerla. Ma esisterà?
Quando il romanzo di Dickens finisce, quando ancora non si sa nulla del delitto, se c’è stato davvero, la prima ipotesi sull’eventuale assassino pare abbandonata, mentre una seconda, assai più inquietante, sta emergendo sempre di più. Dirò poi come finisce questa storia tunisina. Senza essere troppo spoiler, mi raccomando!
Il romanzo di Patricia mi ricorda un po’ quello narrato dall’io più io della storia letteraria. Camus lo scrisse nel 1942 e parla di un certo Meursault, la cui storia è ambientata ad Algeri e il cui delitto è tanto certo quanto avvolto nel dubbio esistenziale. Qui si può dire, parafrasando quel giornalista yankee che paragonava nazisti e stalinisti da una parte, e democratici e repubblicani dall’altra, che la stessa differenza che c’è fra algerini e tunisini è la medesima che esiste tra italiani e francesi; minutaglia di pedigree. Per utilizzare una volgarissima allegoria arşâna, manco nel mingere ci assomigliamo. Eppure noi e loro (e per loro noi siamo loro) siamo entangled da migliaia di anni. In fondo lo sono tutti gli autoproclamati sapiens.
La lettura mi è stata consigliato da Gian Mario Anselmi, docente di letteratura nell’Ateneo Alma Mater Studiorum di Bologna, che mi segnalava la Highsmith come la più grande autrice di thriller, secondo lui; per me, invece, è Cornell Woolrich, specie per il suo Appuntamenti in nero. Ma ora cessiamo questa sventagliata di autori e dedichiamoci al romanzo.
Pochi e ben descritti sono i personaggi stranieri, che vagolano un po’ eterogenei e sperduti nell’ambiente, mentre sono soltanto abbozzati i locali: diversi ma fra loro somiglianti. Inoltre, i pensieri di questi semiti sono sepolti dalle poche parole che pronunciano. Quelli dei giapetingi sono per lo più oscurati da una fastidiosa dialettica.
Il protagonista è uno scrittore di nome Howard Ingham che si trova in quel magico e assonnato ambiente, che dona qualche incubo notturno però, sito Colà, dove fino a ieri i turisti non solo europei amavano trascorrere una settimana o due. Anche mia moglie e io ci volevamo andare, e il costo non era così grande, anche se bisognava prendere l’aereo. L’alternativa era andare a Trapani e da lì prendere il traghetto. Un giorno e mezzo in tutto. anche se a Trapani ho un mio caro amico e quel lento peregrinare non mi sarebbe spiaciuto. Il prezzo coincideva con l’acquisto di una porta blindata, e colei che, per citare Woody Allen, non comandava ma decideva in famiglia, optò per la seconda opzione, che ci avrebbe difeso da eventuali intrusioni diurne o notturne, sempre che, beninteso, ci si ricordasse di chiuderla.
“Lui Ingham”, e uso questa espressione perché è ripetuta innumerevoli volte durante il romanzo, come per dire che di lui, per lei, e per noi, c’è “lui Ingham”… dicevo che lui Ingham è uno scrittore non celebrerrimo ma nemmeno sconosciuto, che vive di quel mestiere, perché ci sa fare. Un buon artigiano o un artista? Lei Highsmith forse lo sa, ma non ne parla. Il romanzo è in terza persona, ed è corale a metà, nel senso che è la voce del solito lui Ingham che spadroneggia la scena. Ed è a lui Ingham che il lettore inizia a voler bene, un po’ immedesimandosi.
Poi c’è Adams, non proveniente da quella celebre famiglia, che è lo yankee meno antiyankee che si riesca a immaginare. Perché io penso che anche loro, dentro l’anima, capiscano che qualcosa è andato storto nella loro storia. Si tenga presente che i loro due presidenti più celebri, il cui cognome è di sette lettere, sono stati assassinati, morti entrambi di venerdì a causa di un proiettile yankee che è entrato senza bussare nelle loro teste, che la segretaria del primo si chiamava Kennedy, quella del secondo era una certa Lincoln, e che il cognome dei loro successori fu Johnson, e la finisco qui perché la lista delle analogie sarebbe troppo lunga. Solo un ultimo particolare: la loro sventurata morte è tuttora immersa nelle acque torbide del dubbio e del mistero; a sparare contro di loro, per quel che si sa, è stato uno straniero (si fa per dire) del sud. Quest’ultima battuta è politicamente scorretta.
C’è poi Jensen, un artista figurativo danese, che, detto en passant ma non troppo, è gay, e nel romanzo vengono utilizzate ben altre espressioni, il quale non dà fastidio alcuno a nessuno, anche se una volta fa una mezza offerta a lui Ingham, che però gentilmente passa. Jensen è il secondo personaggio meno antipatico del romanzo. Mentre, forse lo si è capito, avrei voluto gettare il cellulare sulle pagine in cui Adams dice le sue yankate, tanto insopportabile è. È uno che giornalmente trasmette all’etere discorsi pro-yankee, sponsorizzato e ascoltato chissà da chi. Il suo soprannome, per tutto il libro, anche se in modo non esclusivo, è “Nosiste”, cioè “Nostro Sistema Adams”.
Infine ci sarà Ina, di cui dirò più avanti.
Lui Ingham è reduce da un disastroso matrimonio, finito con uno spiacevole e non so quanto indolore divorzio perché lei Lotte, ha trovato un tipo più allegro (e ci credo, lui Ingham vivace non lo è affatto, ma gli si può anche voler bene).
Lui Ingham si trova colà perché deve occuparsi della scrittura di un film che però è andato a monte in quanto il responsabile del progetto, un certo John Castlewood, si è ammazzato. Pace all’anima sua. Meno a quella delle altre, a quanto si capisce. Finché era vivo lui, gli altri credevano di poter aspirare a qualcosa di simile all’amore. Ora è tutto avvolto dal dubbio, come se l’ambiente fosse la riva del Po con le sue fumane, così come vien descritto nei noir di Valerio Varesi.
A lui Ingham è passata ora la voglia di svolgere il suo mestiere, che è basata su certi desideri professionali oltre che sulla cogenza intima. L’ho buttata lì, ma non sono sicuro di questo. Mica è un lavoro alienante, quello che esercita, anzi, il suo scopo è trarre di dosso da sé la propria alienazione, per farla sprofondare nelle acque profonde. Così la penso io, almeno. E questo vale anche per lui Ingham: “Probabilmente aveva i suoi buoni motivi per non scrivere. Certo. Ma quali erano? Non si sentiva vicino neppure a Nosiste, pensò a un tratto, con un lieve fremito di paura. O di solitudine.” – ed ecco quello che intendevo: uno scrittore non sceglie mai di non scrivere. È l’ispirazione che in genere gestisce l’orario di lavoro. A volte lo ignora, a volte lo allatta, come se fosse un bebè. A volte esce con amici. a volte dormicchia sul divano, mentre lo scrittore l’aspetta.
Patricia è un’ottima psicologa, ma non psicoterapeuta, in quanto trasferisce l’ansia del protagonista al lettore, che ne farebbe anche a meno. Grazie a tal vile meccanismo al buon, ma un po’ tetro, lui Ingham torna la voglia di scrivere, e ora si tratta di un romanzo vero e proprio, condito con tutte le sue titubanze e i suoi nervosismi, che ogni tanto dona al lettore (al suo e a quello di Patricia).
Il luogo dove abita assomiglia ad altri che chi non li conosce li evita, mentre chi li conosce, e non ne ha altri, si adatta. Ogni tanto qualcuno rubacchia, per necessità. Ci sono tre categorie di persone in quei posti negletti: i rubacchianti, i rubacchiati e coloro che dovrebbero vigilare affinchè i primi non rubacchino i secondi. Ma non ce la possono fare a gestire tutti i rubacchianti e i rubacchiati. Forse pensando al suo romanzo, che un po’ lo sta infiammando, anche se non troppo, lui Ingham si scorda di chiudere la porta e che è come scendere di notte nei vicoli di certi bui quartieri, tenendo una valigia in mano.
Nel bel mezzo della notte, lui Ingham “stava rivolto verso la porta. Sì, questa stava aprendosi. S’accovacciò, Cristiddio, s’era dimenticato di chiuderla a chiave! Si profilò una figura leggermente piegata in avanti: alle sue spalle una luce, il lampione del viale dei bungalow, la immergeva in una luminosità lattiginosa. La figura stava entrando nella stanza.” E che può fare uno scrittore in simile circostanze, se non gettare la cosa più connessa alla sua esistenza e al contempo la più dura e pesante?
“Afferrò allora la macchina per scrivere e la lanciò con tutta la forza, facendo scattare in avanti il braccio destro, come un giocatore di pallacanestro che tira al canestro.” – Alex English sarebbe stato fiero di lui, anche se allora era appena tredicenne.
Siamo in un luogo tanto luminoso, eppure tanto offuscato e misterioso, per cui, mentre aspetta Nosiste, lui Ingham cerca sulla spiaggia di scogliere almeno un dubbio: ci sarà una tomba fresca da qualche parte?
“Su nessun terreno una traccia è tanto effimera come su una sabbia, basta una brezza leggera per cancellare tutto, mentre il sole asciuga qualunque umidità uno scavo possa aver fatto affiorare.”
Un pensiero che non mi sento di condannare perché non sono affatto un giudice insindacabile, ma un uomo continuamente soggetto a errare: “In fondo cosa valeva quell’arabo? Quasi niente, probabilmente. Un pensiero ben poco cristiano questo suo, purtroppo.” – si tenga presente che quel poco umano si chiamava Abdullah, sempre che fosse lui, noto ladruncolo che era molto mal visto da chi doveva difendere i turisti dalle sue continue ruberie. Una sorta di gazza ladra, invecchiata e fatalmente destinata (che orrida espressione!) all’entropia cosmica. Abdullah aveva già derubato, più di una volta, lui Ingham, ma era sempre riuscito a farla franca. Ma tutto ha fine, si sa.
Nessuna “rappresaglia” da parte di alcuno, questo poteva temere al massimo, lui Ingham, ci fu né ci sarebbe stata per un ignobile come Abdullah, sempre che fosse lui l’ospite inatteso della notte precedente. Di lui, come di Drood, non si seppe più nulla.
“Gettò un’occhiata alla strada in cui aveva visto l’uomo con la gola tagliata.” – gli era accaduto una notte, e mai seppe chi era stata la vittima, né chi l’aveva massacrato. Nessuno disse nulla di nessuno. Un’omertà fatta d’un misto di vergogna e d’insolenza.
Nel frattempo era sparito, oltre che Abdullah, anche Hasso, il cane di Jensen. Il danese è disperato e in preda all’odio verso gli eventuali rapitori e massacratori. Nessuno aveva più visto né l’arabo né il cane. Più probabilmente, chi eventualmente aveva visto qualcosa, taceva.
Nel frattempo Jensen stava elaborando un quadro appassionato, il cui soggetto principale era “un arabo sventrato, spaccato come un manzo nella bottega di un macellaio. L’arabo stava urlando; non era affatto morto e le viscere bianche e rosse pendevano verso il fondo del quadro.”
Rembrandt ne avrebbe fatto un capolavoro, utilizzando quelle sue atmosfere che non sempre richiamano il ridestarsi della vita, eufemismo antifrastico, celando le oscurità dell’anima umana.
Lui Ingham chiede al fido Mokta se avesse avuto sentore di un frastuono notturno presso il suo bungalow. Mokta fa l’indiano, anche se è tunisino. Non sa niente, non ha visto, né sentito niente. Anche lui è tenuto a vigilare perché queste cose non succedano. Perciò forse nega, anche se sa.
“Strana sensazione, che non riusciva a spiegare, quella di fluttuare come una particella estranea (ciò che lui effettivamente era) nella vastità dell’Africa e al tempo stesso essere assolutamente sicuro che l’Africa stessa lo avrebbe messo in condizioni di affrontare meglio le cose.” – a volte questo succede con un matrimonio, in cui ti senti di svolazzare come uno straniero che è avvolto da una sorta di predestinazione.
A Jensen solo, lui Ingham confessa il lancio, non si sa manco se letale, della sua macchina per scrivere, e questo quasi si complimenta con lui, anche perché: “… quell’Abdullah valeva meno del mio cane.”
Il cristianissimo Nosiste pensa, anzi, è sicuro che, per informazioni che ha carpito in giro, Abdullah è stato ucciso da lui Ingham, e ora gli consiglia caldamente di confessare, anzi, quasi lo pretende. Cosa a cui lui Ingham non pensa proprio. Quello yankee di Nosiste insiste e già che non mi sembrava simpatico, col suo idealismo fritto e scondito, ora veramente non lo reggo più.
Un altro personaggio del romanzo di Patricia, che ancora non l’avevo nominato, è Dennison (il protagonista del romanzo di lui Ingham), un truffatore yankee, che ne combina tante, ma che, com’è naturale, è benvoluto dal suo creatore: “La sua idea era di lasciare comunque il lettore nel dubbio morale riguardo alla colpevolezza di Dennison.” – dubbio morale, non reale. Lo stesso che molti hanno relativamente a chi ha cercato di ben governare in un paese, esportando al contempo capitali in un altro, dove pensava di passare la sua serena vecchiaia.
Come un pacco che solo nell’aprirlo si scopre quanto serva al momento, arriva Ina, dopo essersi preannunciata pochi giorni prima. Ina è la sua quasi fidanzata, che però gli aveva scritto che era nel frattempo andata a letto qualche volta con quel John, che poi s’era ucciso. Non dico altro, se non che è una rompiballe, per quanto graziosa, e che frequenta cattive compagnie, cioè Nosiste, che le pianta in testa i suoi brutti pensieri, che poi lei riversa addosso a Lui Ingham. Il quale fatica un po’ a tollerarla, com’è normale. E che non si mostra spiaciuto quando lei ha deciso di far un salto a Parigi, anzi la motiva in tal senso, senza di lui, ovvio. Quasi certamente non la sposerà più. Questo è forse il dubbio a cui accenna il titolo, il più grande almeno. ma non credo che le loro due anime siano granché correlate.
Ina, e forse sbaglio a continuare a parlare di lei, era una brava ragazza, intelligente e un po’ innamorata di lui Ingham, anche se l’aveva tradito due o tre volte con quel John, che poi abbandonò a se stesso, causandone il suicidio, che fu consumato addirittura nella bella casa di Lui Ingham. Poi Ina s’era pure ri-convertita, non si sa quanto, all’amore per lui Ingham, ma più ancora alla religione protestante, iniziando addirittura ad assistere alle funzioni domenicali. Poi è venuta ad Hammamet a rompere le scatole a uno che invece avrebbe bisogno di calma per finire un romanzo, in cui sta avanzando normalmente, circa 8 pagine al dì. Ma che sembra non finire mai. Anche perché, se finisce, lui poi se ne deve tornare in Yankeeland. E la cosa non lo inebria.
“Intanto lui più di una volta aveva avuto l’impressione che le donne s’innamorino di chi s’innamorano di loro, di uomini che altrimenti non degnerebbero d’uno sguardo.” – e questo di Lui Ingham è un pensiero sessista, che può essere ancora più estremizzato: a volte le donne si innamorano di uomini che, come le donne, s’innamorano di chi s’innamorano di loro. Questo lo scopre a suo spese Lotte, che scoperti alcuni erotici altarini del suo novello sposo, lo lascia e poi invia una lettera affettuosa a lui Ingham, in cui si augura un cordiale riavvicinamento, magari solo momentaneo.
Nel romanzo di parla spesso di John e, a pagina 246, di Jack Kennedy, che sono la stessa persona. Nelle lettere che sono riportate nel corso della storia, c’è il giorno, il mese (luglio) ma non l’anno: per esempio, “20 luglio 19..”, data della lettera di Lotte. Non posso che ammirare questo senso della privacy, ma mi pare fuori luogo in quanto viene citata più volte, pur se nominata direttamente una volta sola, la guerra dei 6 giorni, occorsa tra il 5 e il 10 giugno 1967, meno di quattro anni dopo l’uccisione di Jack Kennedy (e così era chiamato allora, ricordo, nei telegiornali). Poi divenne per tutti il mitico John.
Nel frattempo, unica bella notizia di tutto il libro, torna a casa, molto mal messo, ma guaribile, il cagnone di Jensen, il quale è al colmo della felicità. Anche lui Ingham è contento. I tunisini e gli altri yankee non so.
Ora che s’è dissetato e un po’ alimentato, il buon seppur macilento canide si è assopito: “Era troppo stanco persino per sorridere, hai notato.” – e questo capita anche per me a quest’ora, ma devo finire di leggere! Uffa!
“Altri cinque minuti di giri intorno alla stanza, un’altra sigaretta, dopodiché si mise a sedere e al lavoro. Dennison era uscito di prigione.” – che però, in quei sette anni, “non l’aveva cambiato”.
Prima di partire per la Danimarca (ma poi tornerà Colà a gennaio) Jensen gli confida che si era innamorato una volta di un giovane, senza mai andarci purtroppo a letto: “L’ho amato e basta, per due anni… be’, per sempre. Ma per due anni non sono andato a letto con nessun altro.” – a thing of beauty-love is a joy for ever-never.
Lui Ingham “capì che quando sarebbe partito, Jensen gli sarebbe mancato maledettamente.” – forse anche più di Lotte, senz’altro più di Ina. Lo dico io Pioli e non lui Ingham, né lei Highsmith.
Ora non può accompagnarlo, ché deve rientrare in Yankeeland, avendo finito di scrivere la prima bozza del romanzo, ma presto lo raggiungerà.
“Ora che non c’era necessità di una routine, perché non stava scrivendo più, finì col crearsene una.” – e bestia quell’io Pioli, che non va mai in vacanza senza qualche librone e senza personal computer. Son malato…
Pensando a Lotte, ricorda una frase che forse è di Proust. Del resto, il tempo che si ritrova è simile a quello trascorso da un po’, e a quello che ci separa da esso. Per chi ha dei dubbi in proposito consiglio di leggere la poesia di Osvaldo Ferrari che è basata su un pensiero di Sant’Agostino, il cui finale mi fa piangere dal ridere e ridere dal piangere: ma se il tempo è un’illusione, si chiede il poeta, com’è che la faccia che mi riflette lo specchio è quella di un vecchio? Che fa pure rima. E questo vale per io Pioli, per lui Ferrari e un po’ per tutti.
Intanto che ti dico, a te Highsmith, se non grâsia mél, per avermi con tanto acume e bravura, annebbiato la mente, colmandola di una tepida ma fumosa incertezza?!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Patricia Highsmith, La spiaggia del dubbio, Corriere della Sera, Bompiani, 2012