“Peter Pan” di James Matthew Barrie: un personaggio pirandelliano?

Il primo romanzo, presente nel volume “Peter Pan” ed intitolato “Peter Pan in Kensington Garden”, è artefatto (ma ditemi voi quale romanzo non lo è) in quanto raccoglie sei capitoli de L’uccellino bianco, pubblicato nel 1902, nei quali James Matthew Barrie si diverte a far svolazzare l’agile figura di Peter Pan.: e che oggi viene considerato un’opera a sé.

Peter Pan di James Matthew Barrie
Peter Pan di James Matthew Barrie

Il secondo Peter e Wendy è il romanzo del 1911, che Barrie scrisse dopo il successo dell’opera teatrale Peter Pan, il bambino che non voleva crescere, rappresentata nel 1904. Prima o poi cercherò di trovare e di leggere quel primo libro che ha dato origine al personaggio di Peter Pan, ammesso che si possa trovare ancora in commercio. E anche mi andrebbe d’esaminare la suddetta commedia.

In questo momento mi sta prendendo molto un saggio di Gian Mario Anselmi intitolato White Mirror, che tratta delle Serie TV nello specchio della letteratura. Sento che queste due mie attuali letture sono entangled, impigliate, l’una all’altra. Io però faccio simili affermazioni un po’ troppo spesso.

Il Peter Pan di questo primo romanzo è un bimbo che ha un’età di appena una settimana, che pare non crescere per tutto il tempo della narrazione. Egli pare già affetto dalla sindrome che ha preso il suo nome, detta anche neotenia psichica: quando una persona è incapace di sviluppare il proprio carattere, assumendosi le sue responsabilità, rifiutandosi di esistere nel mondo e nel modo degli adulti. Nel caso in parola, però, Peter è già mentalmente un adulto che compie atti assurdi.

La sua storia nasce da un connubio fra due storyteller: il capitano W. e David, un ragazzino figlio di una vicina di casa. Il senior acconta al puer quel che quest’ultimo poi elabora, quindi la storia torna al capitano che ci aggiunge qualcosa, facendola rimbalzare ancora su David, che ci aggiunge qualcosa di suo: come in una partita di tennis, da quel che capisco. Tutto questo gioco narrativo si può cogliere però solo in quel romanzo che non si sa se riuscirò mai a scovare su una bancarella, forse dovrei cercare in rete, oppure in qualche libreria. Vedremo: chi vivrà forse troverà, o forse no.

“Insomma, Peter Pan era uscito dalla finestra, che era priva di inferriate…” – volando, perché, a quanto pare, per riuscire a farlo basta credere che rientri negli eventi possibili. Non so se debba consigliarlo al mio lettore. Non mi assumo alcuna responsabilità. È un’idea di J. M. Barrie, non mia.

Dopo di cui l’infans cominciò la sua vita errabonda: “Stupito e turbato, Peter scoprì che riusciva a mettere in fuga ogni fata che incontrava…” – chissà perché mai!

Quando incontrò Salomone, che non era un re d’Israele, ma “un vecchio corvo”, questi gli disse che non sarebbe mai statto “un essere umano vero e proprio”, né “un uccello vero e proprio”, bensì “un Traquestoequello”. Amen e così sia!, direbbe il buon, vecchio, pessimista, ma saggio Kit Carson. Grazie agli insegnamenti di quell’onesto pennuto, “Peter era colmo a tal punto di gioia che sentiva in sé un desiderio irresistibile di cantare tutto il giorno, proprio come cantano gli uccelli, per pura letizia…”. Nonostante la sua esistenza fosse quella di un diverso da tutti quanti, un groviglio d’umano e di superumano, la sua vita si svolgeva gioiosa all’interno di quel giardino, in un rapporto con le fate a dir poco complesso: “quando Peter prende a suonare con foga sempre maggiore, loro sgambettano come pazze fino a che non crollano a terra svenute.” Sono prese dal timor panico!

Poiché Peter manifestò il desiderio di tornare in volo verso la casa dove abitava la mamma, “tutte le fate gli fecero il solletico fra le scapole, e presto lui cominciò a sentire un buffo pizzorino in quel punto della schiena e poi a salire sempre più in alto…” – e così principiò a volare. Giunto a casa, Peter provò “a gridare ‘Mamma!’ e a correre da lei…” – ma “quando lui le gettò di nuovo uno sguardo vide che si era riaddormentata, con il volto rigato di lacrime.” Questo non depone bene, Peter! Quando tornerai da lei, avrai una sorpresa, che non so se definire bella o brutta, diciamo una sorpresa e basta: “… lanciando un’occhiata dentro la camera, Peter vide la sua mamma dormire pacificamente con il braccio attorno a un altro bambino.” Anche se la chiamerai mille volte, lei non ti sentirà! È come se ognuno di voi due fosse cessato per l’altro. E ora non ti rimane che tornare ai tuoi Giardini, dove troverai sempre qualcuno che ti può vedere, sentire e che riesce persino a risponderti.

Non amo le favole, perché quando mio padre le comperava per i suoi figli non mi andava di leggere, preferendo correre nei prati e giocare a pallone, anche da solo contro il muro della casa, se non trovavo dei compagni di gioco. La tua, Peter, mi reca angoscia, il perché non lo so. È brutto che gli umani non capiscano un suo simile, ma capita. Qualche eccezione la troverai sempre, per esempio Maimie, una tipetta davvero particolare, che ha un rapporto problematico con le fate, mai del tutto risolto, e che, grazie a te, riesce a evadere sana e salva dai Giardini. A lei dici: “Io non sono un bambino vero e proprio; Salomone dice che sono un Traquestequello.” – e in questo mi sento di assomigliarti: anch’io non sono un umano vero e proprio, ma non ho ancora trovato il corvo giusto che sappia attribuirmi un nome.

Mi dà angoscia una tua considerazione: l’altro bambino che hai visto tra le braccia di tua madre, tuo fratello, immagino, “doveva essere ormai un uomo con tanto di barba e baffi”: come passa il tempo! Dice l’autore di te: “Conserva ancora un vago ricordo del tempo in cui era un essere umano, e questo era una cosa che lo rende particolarmente gentile verso le rondini quando vengono sull’isola, perché le rondini sono gli spiriti dei bimbi morti.” Tu però non sei né una rondine, né quello che a Pixuntum è il munacieddu, che null’altro è che il fantasma di un bambino, vestito come un fraticello, che non smetterà mai di fare dispetti a chiunque, tipo nascondere gli oggetti, soprattutto i soldi. Tu non ti comporti così, tu sei Peter Pan!

Una delle tue sacre attività è cercare i bimbi smarriti nel gelido parco e, qualora sia necessario, scavare una fossa, “rizzandovi sopra una piccola lapide” in cui sono incise “le iniziali del nome del morticino.” Scrive l’autore, in chiusa a questa storia:Tutto questo, a dire il vero, è piuttosto triste.” Confermo.

In Peter e Wendy, mi chiedo: gli opposti si attraggono?

Il titolo del primo capitolo è Entra in scena Peter. Il quale è un ente, non so se anche una persona, questo mica l’ho capito, che non può che entrare in scena, quando lo vuole lui, né prima, né dopo: il mondo esterno non è la causa della sua entrata e della sua uscita di scena, ma il palcoscenico dove il dramma, la commedia, la farsa e la tragedia, mischiate insieme, hanno inizio, per poi scorrere verso la fine e infine cessare nella memoria del Deux ex lectio, non del pubblico né dei vari personaggi in cerca dell’autore, direbbe un certo Luigi, nativo di Girgenti (AG), ma dell’heros: l’ultimo della serie borgesiana, per (non) intenderci. Pirandello è l’autore che in più di un’occasione mi viene in mente durante questa lettura. Nel 1904 uscì a puntate in una rivista Il fu mattia Pascal e, quasi contemporaneamente, fu rappresentata a Londra Peter e Wendy, che nacque dapprima come commedia, per poi diventare in un secondo tempo questo strambo romanzo che dicono sia per bambini. Ho dei seri dubbi che sia solo (o principalmente) per loro. È per i bimbi che continuiamo ad allattare dentro di noi per l’intera vita.

Leggo quest’opera su suggerimento di un amico che tempo fa m’ha invitato a farlo poiché essa rientra nell’elenco indicato da Piero Dorfles in I cento libri – che rendono più ricca la nostra vita. Ringrazio l’amico di non essersi fatto gli affari propri e il fin troppo acuto Dorfles, che non fa che punzecchiare la mia curiosità, seppure con gentilezza, ma in modo incisivo. Ecco cosa scrive, tra l’altro: “Mentre Pinocchio alla fine cresce, Peter Pan, per restare allinterno della categoria dei monelli impenitenti, invece, non crescerà mai…” Sì, è così. Ancora: “… la lettura dei libri è sconsigliata agli adulti maturi…”: a me pare (ma non ne sono certo) che mi abbia fatto addirittura bene, ma ignoro se in futuro avrò degli effetti collaterali (tipo microchip spontanei sorti nel cervello, o quant’altro): nonostante quanto è indicato nella carta d’identità, non sono davvero un adulto maturo! Inoltre; “Peter non capisce la realtà…” – neanch’io. Resta in ogni caso insoluta, almeno per Hilary Putnam (e anche per me), la domanda che il filosofo si pone in Ragione, verità e storia: quanta certezza ho che il mondo esterno esista fuori dalla mia vasca mentale? Un giorno lo chiederò a Gian Mario Anselmi, nonché all’altro docente di Unibo Alma Mater Gino Ruozzi. Se Lei, signor Dorfles, avesse la soluzione dell’enigma putnamesco, La prego di renderla pubblica.

Come già per Via col vento, che sarà uno dei romanzi che terrò più nel cuore nella mia ancor lunghissima vita, leggendo la Sua critica mi è venuto da chiedermi perché Lei abbia inserito nella sua silloge certe opere, finendo per disprezzarne sia la forma che il contenuto. Per amore? Se un giorno (che mai spunterà) dovessi compiere un’operazione analoga, inserirei nell’Immortale Registro L’idiota di Dostoevskij, Lo Straniero di Camus, Sexus di Miller, Dissipatio H. G. di Morselli e tanti altri, ma non so se arriverò per forza a 100. Può anche darsi che l’indomani cambierei l’elenco, anche passato domani e quello che a Pixuntum è detto piscriddu (il giorno dopo di piscrai, che è il dì che segue il crai). Mi viene da dire che ogni giorno è degno di un nuovo inventario di un tot di libri da leggere almeno semel in vita nostra.

Dopo tanto insensata chiacchierata sintetizzo l’assurda trama.

Un giorno Peter Pan svolazza nella camera da letto di tre ragazzini, Wendy, John e Michael, e li convince a partire con lui, dopo aver insegnato a loro il know how del volo: come dicono a Pixuntum, nisciunu nasci imparatu.

Peter Pan
Peter Pan

200 pagine dopo, li aiuta a ritornare. Poi ogni tanto li va a trovare. Poi… calma che prima o poi arrivo in fondo al discorso… Non ricordo di aver visto per intero il lungometraggio a cartoni animati Peter Pan di Walt Disney che uscì alcuni anni prima della mia nascita. Non ne sono certo, però. Molte volte ho intravisto le faccine furbette di Peter Pan e di Trilli, che nel cartoon originale è Tinker Bell, nel presente romanzo, è Campanellina, la maghetta zica (piccirilla a Pisciotta, che è l’attuale nome di Pixuntum), maliziosetta e intrigante. Non conoscevo o non ricordavo bene la loro storia. Peter mi pareva uno sbruffoncello furbetto e nulla di più. Come ricorda giustamente Dorfles, “tutti i bambini, all’infuori di uno, finiscono per crescere…” – se non muoiono prima, preciso io.

Nella lettura del primo romanzo, lo ammetto, pensai che questo fosse successo a quel pargoletto di pochi giorni che quando andò a casa dalla mamma scoprì che quella stava frignando e che quando ci tornò una seconda volta la vide serenamente abbracciata a un altro poppante. E mi si accapponò la pelle quando Peter pensò che quel tale, ormai cresciuto, avrebbe avuto i baffi: tutto ti scorre accanto, insieme al tuo tempo, che non esiste, a quanto si dice, ma che ci fa esistere; a meno che tu non sia più a lui (al tempo) soggetto, e non più costretto ai fini dispersivi dell’entropia cosmica. Sic est! Punto!

A causa di una frase un po’ storta della mamma, “Wendy capì che avrebbe dovuto crescere anche lei.” – a meno che un certo Peter, chissà… Wendy sa chi è Peter. Anche la mamma ricorda che era un personaggio “che si diceva vivesse con le fate”, ma null’altro poteva dirne, se non che, a suo tempo, “aveva creduto in lui”. Ora tocca a Wendy, crederci. In tal modo si cresce sempre di più, fino a scoppiare, a volte.

Barrie è un poeta e lo dimostra in certi punti della sua narrazione, quando dice che “le stelle sono belle, ma non possono prendere parte attiva in niente, possono solo guardare eternamente giù”, ma perché mai?!: “per una colpa commessa così tanto tempo fa che non c’è più una sola stella che ne sappia qualcosa.” – sempre a causa di quell’entropia e della forza antitetica che quasi annichila le stelle con massa doppia rispetto a quella del Sole, costringendole a restringersi in una singolarità dove la memoria pare che, entrandovi, cessi per sempre. Anche se, svolazzando, qualche radiazione pare che riesca a evadere.

Dopo aver compiuto un’azione impossibile, come attaccare ai piedi di Peter la sua ombra, che la dice lunga sulle virtù di Wendy, lei e i suoi due fratellini decidono di seguire quel tipo svolazzante.

Dopo un periglioso volo, giungono in una perigliosa isola, dove esistono dei perigliosi pirati, comandati da un periglioso Capitan Uncino, a cui Peter aveva illo tempore amputato una mano che era stata poi divorata da un coccodrillo, che d’allora non faceva che seguire la nave dei pirati perché bramava d’inghiottire il resto di quell’orrido ma succulento corpo. Capitan Uncino assomiglia un po’ a quel dolce che a Reggio è detto Brótmabàun, brutto ma buono: però lui pare brutto e cattivo. Forse è bello solo per sua mamma, semmai ne abbia ancora una. O che l’abbia mai avuta!

Ora faccio una cosa che Piero Dorfles non ha forse mai fatto (né mai ci terrà, arguisco). Mi sono accorto ora che avevo già abbozzato l’inizio di quella che io definisco non recensione, ma reazione al libro. Ergo, ricomincio da capo.

Peter e Wendy.

Quando la mamma di Wendy disse alla figliola: “Oh, se solo tu potessi rimanere per sempre tale e quale sei ora!”, quella capì che la pacchia stava finendo: “… che avrebbe dovuto crescere anche lei. A due anni già lo capisci. Due è l’inizio della fine.” – specie se è una femminuccia. Mia figlia Anna iniziò a camminare intorno ai dieci mesi, sparando la sua prima doxa intorno a un anno. Mio figlio Michelangelo cominciò a camminare a quindici mesi e a parlare (raramente) intorno ai due. Per quest’ultimo io fui Fefo fino intorno ai quattro anni, per la prima ero già, più icasticamente, papà da quasi subito. Mi hanno sempre detto che io iniziai a balbettare i primi monosillabi intorno ai tre anni. Einstein, pare, poco dopo i sette.

In un modo o nell’altro, qualche annetto passò, e, quando la figlia gliene parlò, la mamma di Wendy, “tornando indietro con il pensiero alla sua infanzia…” – e se uno si chiama “Mrs Darling” non è di certo un’impresa agevole, “… riuscì a ricordarsi di un Peter Pan che si diceva vivesse con le fate.” Lei osò dire alla figlia: “… ormai dovrebbe essere grande.” Ma Wendy negò: “Oh no, niente affatto” – egli “è grande esattamente come me”. E anche come me? Chissà!

Quando, dopo un sonno ricco di sogni, Mrs Darling si svegliò,vide il ragazzo, e in qualche modo capì subito che era Peter Pan...” – che si rivelò essere “un ragazzino molto grazioso, vestito di foglie secche e di resine stillate dagli alberi, ma la cosa più stupefacente era che aveva ancora tutti i denti da latte…” – l’asulta insipiente fuggì spaventata. Compiuto ‘sto massacro pseudo-recensorio, ora proseguo l’avventura insieme ai nostri valenti eroi.

Mi sovviene un’aggiunta che reputo necessaria, intorno a quel fatto dell’ombra. Era stata Wendy a cucirla al piede di quel grosso insettaccio, che però sembrava credere “di essersi riattaccato l’ombra da sé”: infatti “esclamava estasiato ‘oh, che tipo in gamba che sono!’” – mentre, fino a pochi minuti prima gnolava (termine arşân che vale per piangere) come un cucciolo di pipistrello (mia allegoria). Wendy rimase piccata per questa stupida irriconoscenza, tanto che Peter finì per ammettere: “Qualcosa hai fatto”. Che coppia di ragazzi! Così diversi eppure così attratti l’uno dall’altra! E l’altra dall’uno, ovviamente.

Campanellina blatera nel suo arcano idioma qualcosa di sconveniente che Peter sconvenientemente traduce a Wendy: “… Dice che sei una gran brutta bambina, e che lei è la mia fata.” – si tenga presente che per ‘sti eroici tangheri l’Eros non esiste, figuriamoci la Civiltà. Pare che nessuno, nell’isola, abbia mai letto quell’opera di Marcuse! Non è incredibile?! Peter è addirittura analfabeta!

Da questo punto in poi mi sono divertito, e una volta o due anche annoiato, a segnare tutti i punti in cui Peter dimostra di essere un bimbo vanesio, antipatico, ingiusto e quasi criminale, a volte senza il quasi e Campanellina dà prova d’essere una che, per usare un’altra espressione arşâna, l ē gustòusa cme un s-ciâf a l’órba, simpatica come lo schiaffo che t’arriva mentre cammini al buio.

Utilizzerò queste sottolineature solo quando non riuscirò a evitarlo, sennò non finisco più e l’editrice della rivista che è bella ma schietta, potrebbe inviperirsi perché è troppo lungo l’articolo (nel mio gotico idioma si dice però il contrario: bróta ma s-cèta: e bisogna sempre ricordarsi in questi casi che a Reggio, ma anche in gran parte dell’Emilia e del Veneto, lo sc di sciacquarsi le mani, non esiste. Noi a Reggio siamo antifasisti, e, più che siocchi, siamo nèsi, dal latino nesciens. Secchio si dice s-cin, con la s e la c opportunamente separate sennò si bagnano vicendevolmente). Precisate tali amosianti (a Reggio le doppie fanno un po’ ribrezzo) siochese (da noi manco esiste la zeta), ora posso continuare a ri-narrare le avventure di questi infanti!

Andrò per sintesi, eh eh, faccio per dire… Mi contraddico subito: “‘Sì, sono adorabile, oh, se sono adorabile!’ Fece Peter, dimenticandosi le buone norme di modestia…” – che, secondo me, nessuno gli ha mai insegnato. Imparato si dice ad Amalfi, dove nisciuno nasce imparato. Mentre accade ciò, i coniugi Darling (che in inglese significa Tesoro!), genitori dei tre ragazzini, sono disperati. La colpa è solo loro, che non riescono più a capire! Sono dei matusalemmi, ma che ne parlammo a fa’!

Una pessima notizia: Peter soffre di una forma infantile di Alzheimer, per cui dice a Wendy, che dapprima non era stato in grado di riconoscere: “… quando ti accorgi che ti ho dimenticata, devi sempre dirmi ‘sono Wendy’, e allora mi ricorderò…” – la malattia non è poi così grave. E forse non è nemmeno un fatto neurologico. Chissà cos’è?!

“L’isola che non c’è si svegliava nuovamente alla vita, sentendo che Peter stava per ritornare.”e questo è l’effetto della fiction: vedo una scena che inizia di un film e mi chiedo: ma prima, questa gente esisteva?! O sta ora scalpitando solo grazie a me che la sto guardando?! È il contrario o l’analogo, non riesco a decidermi, di quel quesito putnamesco: sono io a creare il mondo mio e, per conseguenza, anche quello degli altri? O è l’inverso? Immagino che, prima della scena, quegli attori esistessero come umani, cominciando ad agire come personaggi solo dopo il ciak si gira del regista. Il dubbio però permarrà insoluto in da capa mia.

Oddio:La popolazione di ragazzi sull’isola varia, com’è ovvio, in base a quanti ne vengono ammazzati e così via e quando pare che stiano diventando grandi, cosa che è contro le regole.” – una distopia che sconvolgerebbe il Winston Smith di 1984.

Proseguo all’istante, accelerando un po’ il passo.

James Matthew Barrie
James Matthew Barrie

Il più simpatico di tutti è “Piffero”, che quando accadono “i fatti importanti”, lui ha “appena girato l’angolo”, ed è colui che “ha preso parte a meno avventure di tutti.” – e io mi sento un po’ come lui e, lo giuro, in caso di guerra, civile o incivile che sia, m’imboscherò nel bosco più pifferesco che trovo (nei dintorni di Civago, magari), dove scorre da millenni il dolente Dolo.

“… la fata Campanellina, che stasera è disposta al male…”come non la vorrei come sorella, e poi oso lamentarmi della mia, povera e innocente Mariagrazia!

“Solo quando Peter non c’era potevano parlare di madri, perché a lui pareva un argomento sciocco e dunque lo proibiva.” – la censura è cosa disdicevole, ma l’autocensura, specie quella che ti sorge, aulente, dal basso fondoschiena, fa assai più male, a quanto si dice. Non so se riuscirei mai a essere amico di Peter: odio i prepotenti, e lui lo è, come l’uncinato! Il quale pirata ama più la mano col gancio di quella sana e che i bimbi dovrebbero nascere con i ferri anziché con le dita. Terzo proverbio arşân, che non necessita di traduzione: tót i cajòun a gh an la só pasiòun! A Pixuntum però dicono: Nisciunu nasci uncinatu!

A pagina 207 uncinata è “la mano destra”: che è quella che il capitano usava a duellare; anche nell’illustrazione originale (intitolata This man is mine, di F. D. Bedford) che è a pagina 338; consultando zio Google, l’uncinata del cartoon è invece la sinistra: versione più politically correct per il maccartismo che infestava l’America in quegli anni. E non è che oggi l’epidemia sia cessata!

Quel che Uncino dice non sempre si capisce, ma sempre mostra di avere le idee chiare. M’inquieta quando dice: “Se fossi una madre pregherei perché i miei ragazzi nascessero con questo invece con questa…” – con l’uncino invece che con la carnacea mano. Ero ancora un bimbetto quando a Rapallo vidi un mendicante con due uncini al posto delle mani e la sua immagine, sorgendomi di tanto in tanto, ancora mi causa dolore. Quel buon Uncino “scoppiò in una risata non falsa ora, ma schietta. ‘Ah! Ah! E moriranno tutti!’”

Piffero, che in genere non fa quasi nulla, una cosa la sa compiere: trafiggere con una freccia Wendy. Poi, attribuendosene la colpa, “si scoprì il petto” – perché Peter possa punirlo. Al mostriciattolo volante basta al momento guarire l’amichetta, che diventerà una sorta di mamma per tutti, anche per Piffero. Ma non per Campanellina, che è orfana e sterile in quanto è la sua missione esistenziale, che capisce soltanto lei (da me intuita, però). Quando Wendy si riprende, Trilli (così la chiamerò d’ora in poi, per far prima) piange “perché la huendi è viva.” – e non sto qui a spiegare perché Wendy sia chiamata così. (Ri)leggetevi, se vi va, l’intera storia. Al che Peter la minaccia di cessare di esserle amico, anzi, le dice: “Vattene via da me per sempre!” – ripudiandola, insomma.

Poiché la piccoletta lo supplicava, Peter “si calmò un poco”, riducendo la pena a “un’intera settimana”. Peter è fatto così. Quando ti dice “Ciao”, sta’ pur certo che si è dimenticato chi sei, per i motivi su indicati. Ti perdona ogni volta, quando si sta scordando la tua colpa.

Gli oggetti (ma questo lo sapevo da prima di leggere il libro) hanno una loro anima e una loro, pur illusoria, visione del mondo: “La casa fu a tal punto lusingata di avere un camino così che, come per testimoniare la sua riconoscenza, cominciò d’un tratto a far uscire fumo dal cappello.” – e in quella casetta stregata, nel senso che è stata costruita per opera e per virtù delle streghette, avrebbe dimorato Wendy, l’infante mamma di questi ragazzini. En passant: la cosiddetta sindrome della crocerossina, è detta anche sindrome di Wendy, ed è di chi gioisce a vedere il suo prossimo (non necessariamente l’uomo che ama) guarito dal male di vivere grazie ai propri essenziali sforzi.

Troppo simpatica è la chiusa del sesto capitolo, La casetta, a cui rimando il lettore, senza riportarla, un po’ malignamente lo ammetto.

Ah, che streghette buone-cattive, e che Peter candido e sempre un po’ balordo! Egli è un arcigno Dominus: “… John e Michael dovevano fingere di divertirsi moltissimo, altrimenti li avrebbe trattati molto duramente.” – beh, un po’ di severità ci vuole, a volte, con i discenti. Quando Peter “ritornava con la testa fasciata…” – a seguito di chissà quale avventura – “Wendy lo coccolava e gli bagnava con la testa con acqua tiepida, mentre lui forniva un resoconto strabiliante dell’accaduto.”

C’è una gran bella battagliacon i Pellerossa presso il rio Algo” – che cito solo per onorare la memoria di Algo Ferrari, deceduto relativamente giovane nel 1954, che diede il suo nome al nipote, amico mio (colgo l’occasione per salutarlo).

Anche Barrie sa che non potrà mai narrare tutto e si chiede, per poi rispondersi all’istante: “Quale di queste avventure sceglieremo? La cosa migliore sarà di estrarne una a sorte.” La vincitrice è: “Ecco, l’ho estratta: tocca alla laguna.”

Di cui riporto solo l’incipit, che è meraviglioso: “Se chiudete gli occhi e siete fortunati, a volte potrà capitarvi di vedere sospesa nel buio una pallida macchia informe deliziosamente colorata; a quel punto, se stringete un po’ di più le palpebre, la chiazza comincia a prendere forma e i colori diventano così vivaci che, stringendo ancora un po’, avvamperanno come fuoco.” E con questo è (scritto) tutto, come incipit e come spiegazione del romanzo. Ora continuo la mia breve reazione.

“… uno dei tenaci motivi di rammarico per Wendy fu appunto questo, che le sirene non le rivolsero mai una sola parola gentile per tutto il tempo che passò sull’isola.”non si può piacere a tutti. E poi si sa che non esiste sirena che sia serena nei suoi giudizi. Peter “era capace di fiutare il pericolo anche nel sonno” – per questo era da tutti rispettato come il negus neghesti, il re dei re.

“Naturalmente, Wendy era molto entusiasta della prodezza di Peter, ma sapeva che lui pure era entusiasta di se stesso e pronto a fare il suo chicchirichì che lo avrebbe tradito.” – sarà che io sono un tipo riservato, ma quel gallismo da due o tre soldi mi fa proprio pena! Ne avrà emessi tre o quattro. Peter fu sconvolto dalla slealtà di Uncino: “Ogni bambino resta così impressionato la prima volta che viene trattato con slealtà. È convinto di avere diritto alla vostra lealtà. Quando sarete stati sleali con lui, continuerà comunque ad amarvi, ma non sarà mai più lo stesso bambino. Nessuno dimentica più la prima slealtà; nessuno, eccetto Peter. Lui l’ha incontrata più volte, sì, ma l’ha sempre dimenticata.”

Ancora sto pensando alla prima antifrasi in cui pensai bene di credere. Poiché avevo compiuto una bella azione, mia madre mi disse: et mōr prèst, muori presto. Non lo scorderò mai!

E Peter ci cascava ogni volta: egli non dava peso all’esperienza, re-inizializzandosi ogni volta.

“All’istante Uncino fu di nuovo se stesso, e Smee e Starkey di nuovo i suoi fedeli aguzzini.” – come i sette personaggi pirandelliani.

Peter e Wendy sono ora nei guai, e solo uno può salvarsi, la ragazzina-madre vuol giocare la sopravvivenza tirando a sorte. Lui le dice: “Tu sei una donna: vai.” – e quanto ci sia di generosità e quanto di alterigia in queste parole, nessuno lo sa, manco l’autore.

Informo ora la gentile clientela che nell’“isola che non c’è” vivacchia uno strano volatile: “il tordo che non c’è”. Tiremm innanz!

Dice Wendy: “A volte mi viene proprio da credere che i bambini diano più pene che soddisfazioni.” – è un po’ quel che capita alle stelle doppie che, vicendevolmente, con tempi che nemmeno loro conoscono, si scambiano massa ed energia. E c’è chi la chiama esistenza famigliare, con le relative costellazioni che stanno a guardare.

Peter “emise intenzionalmente una serie di brevi e rapidi respiri”, una media di “cinque soffi al secondo. E lo fece perché c’è un detto, sull’Isola che non c’è, secondo cui ogni volta che respirate muore un adulto, e Peter, per vendetta, ne stava ammazzando più che poteva.” –  ma com’è buono, ‘sto ragazzino! Qualcosa di vero c’è, ma è inverso: si dice che a ogni respiro di un viso pallido muore un bimbetto nero in Africa.

Dopo che Wendy ha deciso di partire coi due fratellini, i tre bimbetti vengono rapiti dall’esimio Capitan Uncino. Nel frattempo accade di tutto, ma, dice Barrie che “Non è nostro compito descrivere quella che fu una carneficina.” – fra indiani e pirati: e non è nemmeno il mio.

Peter e Uncino sono due poli del medesimo pianeta: e si odiano. Peter è dotato di una “sfrontatezza” che Uncino non riesce a sopportare.

Salto molte pagine, per un unico motivo: è una mia scelta e nessuno deve dire a, sennò lo trafiggo con una freccia! Arrivo al dunque finale: “Così perì James Uncino.”Pensaci, Giacomino! un’altra volta, come sarà d’uopo comportarsi! Sia prima che d’uopo! Col vascello dei pirati quei poppanti, scortati ora da Peter e dai suoi, se ne torneranno a casa. Immaginiamoci quale gioia sarà per i Darling-Tesoro! E a Peter, ora che resta da fare?

“Quel bambino era capace di molte estasi che altri ragazzi non potevano neanche concepire, ma attraverso quella finestra stava assistendo all’unica gioia che gli era preclusa per sempre…” – vogliamo dirla? No! Sì! Una famiglia. La sua era una fantastica tribù, a cui non vorrei mai appartenere. Odio chi pretende di decidere il destino dei suoi simili e Peter era in questo terribile e, forse inconsapevolmente, talora ingiusto.

Wendy cresce in età ed esperienza, e quasi ogni anno Peter la va a trovare e, col permesso di mamma, se la porta con sé nell’isola, in occasione delle pulizie di primavera, quando la presenza dei bambini rompe un po’ le scatole. Quasi ogni anno, perché a volte si scorda, e lui manco si accorge della dimenticanza. Il tempo, diceva Einstein, spalleggiato da Barbour e da Rovelli, è una scemenza, usando altre parole, però. La saputella Wendy spiega alla mamma che “quando un bebè ride per la prima volta, nasce una nuova fata, e visto che ci sono sempre nuovi bebè, ci sono sempre nuove fate.” – immortali?, lo chiedo per un amico che sto covando da sempre nel mio Chaos.

Peter non parla mai “dei tempi passati”, in quanto “le nuove avventure avevano ormai cancellato le vecchie dalla mente di Peter.Non si rammenta manco di Uncino, perché “appena li ho ammazzati, me ne dimentico…” – lui non è un tipo da camposanti.

Wendy ebbe una figlia”, di nome Jane, e cosa poteva insegnarle Peter (dopo aver constatato con amarezza che la di lei madre s’era un po’ entropizzata?), se non svolazzare per la stanza?  Mia moglie non l’avrebbe fatto con i suoi figli, nemmeno mia mamma, mi sa, ma Wendy li lascia peregrinare in quella mitica isola e questo… per me.. sigh… è il momento più commovente del romanzo e qui fa gioco ripetere ancora le salvifiche parole di quell’Amatore (o Antonio che sia): Tiremm innanz!

Barrie, autore di cui sarò per sempre debitore, spiega che questo gioco durerà per sempre: dopo Jane, toccherà alla di lei figlia Margaret, nonché alla nipotina: tutte future madri “di Peter”… e questo “fino a che i ragazzi continueranno a essere spensierati, innocenti e senza cuore.”

Ma prima di congedarmi, tento d’estrarre dall’anima-cappello un’ultima reazione. E di spezzare una lancia, sbattendola contro il muro, come facevo da ragazzo con quel pallone. È più criminale il pirata che uccide, cannoneggiando le case dei civili, che ora non desiderano altro che quell’utopistica pace a cui, quando c’era, non pensavano mai (come la salute, per cui si prova nostalgia solo quando si è ammalati); oppure lo è chi deruba il prossimo, speculando su qualsiasi tragedia, dando ogni volta la colpa alla necessità che sorge dall’altrui viltà?

Chi uccide è sempre il più colpevole. E chi ruba è sempre il più ricco e onorato. A non crescere mai, non è solo Peter. È l’animale a lui più somigliante. Qualcuno chiese a Carmelo Bene con chi ce l’avesse. E lui rispose così: Io odio l’uomo! Riudendo nella mente quelle sue amene parole, mi sta ora venendo su il Panico!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

James M. Barrie, Peter Pan, Bur (Rizzoli), 2020

 

2 pensieri su ““Peter Pan” di James Matthew Barrie: un personaggio pirandelliano?

  1. Se siete veramente interessati all’opera originale di Berrie suggerisco la lettura de L’uccellino bianco nell’accuratissima traduzione di Carla Vannuccini – https://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/2970350/l-uccellino-bianco – che contiene al suo interno anche i capitoli di Peter Pan nei giardini di Kensington – disponibile con testo a fronte sempre per Marsilio della stessa traduttrice https://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/3179342/peter-pan-nei-giardini-di-kensington

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