“C’era una volta un bel Paese e i loro Paesani” di Roberto Moscardin: un viaggio immaginario sui luoghi tanto amati
Il titolo riportato nel testo è C’era una volta un bel Paese e i loro Paes(an)i. È un particolare di scarsa rilevanza, per cui va studiato attentamente. Diversamente sarebbe stato se non ne avesse alcuna. Con Roberto Moscardin anche lo scarso diventa una risorsa essenziale. Nulla abbonda o brilla per la sua assenza: se brilla c’è, se non brilla è uscito, forse è in strada.
Per togliermi un paio di pensieri, passo direttamente a pagina 196: “Una di queste leggende, ci divertì moltissimo…” – e che significa? Che per Roberto la virgola non connette, né sconnette, ma sospende. Crea l’attesa. Prepara l’utente a selezionare l’opzione: si continua a leggere, oppure ci si pensa in quell’attimo.
Del resto, secondo Pizzul, Mazzola svirgolava il pallone. Anche secondo il Kerouac de I sotterranei le uniche virgole buone sono quelle omesse. A ognuno la punteggiatura che si merita!
“Ora miei sventurato pellegrini, non perdete la vostra consapevolezza, e ascoltate attentamente questa leggenda…” – e qui occorre leggere il libro moscardiniano, perché io non dirò niente, mica faccio la spia, io.
Ora tocca a pagina 203: “Qui si sana, era il titolo che si dava alle case di – cura…”: si badi che nel mondo moscardiniano il trattino è breve, non allungato con del latte, cioè non: –.
“Tutto è, spoglio tutto è, nudo.” – se fosse un poemetto sarebbe: “Tutto è/ Spoglio tutto è/ Nudo”.
Pagina 6 e seguenti 200 e passa: “Raccontare, significa scrivere e dire: è un racconto ‘vero’/ prendendosi gioco delle assurdità! Per me il tempo più lontano è/ l’alba del giorno successivo.”
Rimbalziamo ora a pagina 70: “Dopo la punteggiatura ci vuole lo spazio? Per il dialetto pontelongano non è necessario avere punti e contrappunti, e neppure le virgole e neppure lo spazio.”
Verità, Alétheja, è piva di nascondimento: nuda. Equivale a togliere il mucchio che impedisce di scorgerla, conducendo il discorso verso una sua liberazione, una catarsi. È altrettanto reale il mucchio che l’oggetto ricercato, ed è qui che il filosofo deve scegliere: cosa sto cercando io ora?
“Devi saper vedere, mi disse l’amico Théophile Cheminll” – e chi sia costui occorre scoprirlo, ma non subito, quando è ora.
“Non – è il (mio) linguaggio che dovete ascoltare, – casomai è il modo di fare quel (mio) modo di raccontare.”
E, più oltre: “Viene prima l’impegno del ricordare, il ripensare viene dopo, – è così un atto secondo. E questo non dipende tanto dal libro quando da una certa atmosfera del tempo, in cui si cala il libro. detto scritto fatto.” – e letto. E reagito.
“Essere liberi significa non dipendere.” – e cosa significa: vivere senza patire pesi? Non finire penzoloni? Non appartenere all’influsso altrui? Allora perché leggere? Perché e per chi scrivere?
Scrivere è attirare, leggere è farsi attrarre. È muoversi, correlarsi. È seguire il proprio e l’altrui Tao, che poi conduce sempre Colà. A Pontelongo, per esempio, dove non sono mai stato, prima di conoscere Roberto. Dove, insieme all’autore: “Eravamo dunque, bambini strani e allegri, mai tristi.” – quest’ultima è una parola da bambini, plurale di tristo e di triste. Che può significare (anche) mai torbido, mai fisso, sempre in itinere.
“Il centro di tutta la vita pontelongana è il fiume Bacchiglione…” – nome che ricorda il verbo baccagliare, sbraitare. L’infanzia è uno grido continuo, intervallato da sospiri indefiniti.
“La parola è questa, un pò stordita. insomma capisci se vuoi.”: sennò puoi sempre dire kangaroo. Pò e po’[1] per me e per il dizionario del programma sono interscambiabili.
Prima persona che vorrei conoscere, qui o Colà per me è lo stesso: “Don Caon Valentino”, uno che ebbe la ventura di dire: “Mi sarebbe davvero piaciuto realizzare la benedizione a tutto il paese da un elicottero, senza bisogno di andare di casa in casa.” – magari con nu zurieddu che reca il secchio colmo d’acqua sacra. Uno che “in dialetto stretto pontelongano” ammonisce di diffidare di Théophile il filosofo: “par mi el lè on filosofo strano e materialista.” – come se scherzasse, ma lo dice e lo pensa davvero. Il bello nella vita è avere degli amici complementari, e anche un paio di supplementari, poi ci sono i rigori e infine una monetina da cento lire, che di rado finisce in bilico.
Leggo, e diffido, poiché leggere è diffidare, che la carriola l’ha inventata un tale che veniva “da Vinci”. Ma serve effettivamente a portare libri, io l’ho fatto.
Quanti libri ho letto di Søren K.? Una carriolata!
“Giacobbe sogna proprio una scala a pioli che porta a Dio.” – e io ti ringrazio della citazione.
E potrei trarre dal tuo, mio Roberto, materiale, tanta di quella roba per costruirne uno mio, che non sarebbe più tuo, semmai nostro (fatto a base di “sisoi”, che a Reggio si chiamano anche grasô, dove il grasso di maiale lotta strenuamente contro lo strutto, esattamente come il tubetto di colore a olio lotta con l’imago che viene riprodotta, ed entrambi vincono, dieteticamente.
“La poesia va ricordata nominandola. Sì, ma poi mancano le virgole/ e la punteggiatura dell’Hemingway.” Il quale prima, in piedi, visse e poi, da seduto, scrisse.
Théophile mostra a Roberto “il ‘miracoloso’, – quello che i fedeli del Santo, vogliono vedere. Perché Vedere è Sapere.” – ho in solaio i vari volumi di tale enciclopedia, la prima che sfogliai.
“Il grande mistero del tempo. Il tempo, salta rincorre, a volte si ferma e sposta, il suo vecchio posto.”
“Il grande mistero del tempo/ Il tempo/ Salta rincorre/ A volte si ferma e sposta/ Il suo vecchio posto.”
Per sintetizzare: “L’estetica è importante e poi venne dice qualcuno, – è l’etica.” – che impose delle regole assurde che uno segue perché trasgredire è (senz’altro) più oneroso che obbedire.
“Però state ancora attenti, il finale non è con la bibliografia più sotto descritta, continua…” – e i puntini sono tuoi, Roberto.
“Ancora una cosa, una soltanto./ Aspettate! Non ho finito di sognare.”
In finir, che arida parola!, di pagina parli del tempo. Non voglio aver tempo di commentarlo. Il mio tempo, che esista o no, è sacro! Chi vuole saperne di più si getti a pesce su pagina 135.
La scrittura era un atto d’amore, dove “una rima era più baciata dell’altra, che strano”.
A proposito di Søren, dimmi come potrò incontrare il tuo “amico Søren C.”. Non mi interessa che sia morto di tbc, la sua anima vivrebbe sempre con te, anche se non fosse mai esistita, sarebbe immortale ormai: “Soffrire di etisia, fa morire.” – ma intanto fa ri-vivere un sogno.
“Nel discorso, non c’è ordine, – non esiste, – la logica, – ma una – frammentazione – di sole parole.”
Dice Søren C: “mi sono inventato un modo tutto mio di scrivere.” – che ora è tuo, mio, nostro, loro, se leggono.
“È un racconto dell’esistenza come separazione…” – come ri-congiungimento, non finale, sempre un po’ intermedio: “Separazione dell’essere, dell’essenza dell’essere.”
Nel suo brancolare a spanne il filosofo ama la precisione.
“… nella lieve primavera del 1941…” – lieve è l’attributo più primaverile che ci sia.
“Tutto è, spoglio tutto è, nudo.” – tutto è.
“A volte i miracoli avvengono. Per chi ci crede.” – per chi li fa avvenire.
“Questa è una storiella allegra gentile comica e sincera.” – anche la mia è tutto ciò.
“A Napoli, gli appuntamenti si danno dicendo ci vediamo là…” – lo saccio, quando e dove è da vedere, poi ce virimmo, forse, inevitabilmente, prima o dopo, se non si…
“E il caffè di Napoli? Sarà l’acqua, sarà il mare, ma o cafè è o cafè. E, ecco perché amai e amo Napoli.” – e non è mai abbastanza. Ad Amalfi dicono non meno di 3 non più di 33, e chi ci arriva mai!, al massimo 8 o 10…
“… la memoria è fatta di oblio, ricorda il buon Jorge Borges” – come mi rammentò il buon Riccardo a cui lo confessò il buon Jorge, e io poi lo trasmisi a te, e tu ora a me. Come tutto ciò sia successo l’ho obliato.
Si ricorda quel che si scrive. Fissandolo, esso esiste, come la particella di Bohr, se è attestata, diversamente è un’onda, una probabilità, non un’essenza di Parmenide.
Un giorno, in quel Bistrot Celeste, ci vediamo io, te, Riccardo, Jorge, che forse l’amico comune se lo ricorda o forse no, ché ci vedeva poco, e infine lui, l’eleatico… dai, facciamo sedere anche Zenone, appena ha finito d’oltrepassare la metà della metà della metà della metà del suo Tao, e allora ie faccio ‘na domanda, a Parmenide: cosa (non) c’è al di sotto dello spazio di Planck?
E subito do un occhio a Jorge, per vedere l’effetto che gli ha fatto il mio trabocchetto.
Ovvio che ogni risposta, per quanto intrigante, è volatile. Come la tua Prefazione quasi squallida non più zuccherina, in termine di concione. Ora ti lascio, kam’a mio, ché ho da fare. A presto!
Written by Stefano Pioli
Note
[1] [N.d.E. la dicitura corretta è po’ che sta per poco.]
Bibliografia
Roberto Moscardin, C’era una volta un bel Paese e i loro Paesani, Amazon, 2023