“Il castello errante” di Howl di Diana Wynne Jones: la guerra è uno spaventapasseri che gira su se stesso
Ogni favola possiede la sua morale, che è quella dell’autore che l’ha scritta, dopo che l’ha dedotta dalle vicende della propria vita, trascorsa nel cuore di una determinata società. La storia è maestra di vita. E la vita è maestra di storia. I due eventi sono collegati. La storia di ognuno può essere d’insegnamento all’Altro, ma innanzi tutto a se stesso.
Si dice che la fiaba, che è una storia le cui radici sono disperse nel tempo, non sembra averne. Quel che non appare, va ricercato. Non penso che possa esistere alcuna storia, detta o scritta che sia, priva di un intento etico, perché diversamente non sarebbe stata narrata. Esiste una bellezza che pare fine a se stessa, ma ha tutta l’aria d’essere una menzogna. Ogni storia possiede elementi sia fiabeschi che favolosi, sia arcani che palesi.
Qualcosa credo di aver carpito nella storia Il castello errante di Howl, altro sento che mi è sfuggito e vorrei sapere quanto l’autrice abbia compreso di quello che ha scritto. La sua scrittura è saggia, mirata ma incompleta, poiché nessuna scrittura può giungere ad alcuna certezza. Al pari di ogni operazione umana, come insegna il logico Kurt Godel, essa è limitata dalla propria indecidibilità, pur essendo funzionale a esprimere l’opinione del suo autore. quella che chiamiamo verità è solo un cammino verso la sua ipotesi.
Diana Wynne Jones è nata nel 1934 ed è volata via dodici anni fa. Chissà chi mi potrà più rispondere? Chissà se qualcosa mi si chiarirà leggendo le successive due storie della Trilogia? Per ora so soltanto che una bozza di verità esiste da qualche parte, pur spostandosi continuamente, e che ho letto il primo volume. Gli altri due romanzi mi stanno, chissà dove, aspettando.
Una famiglia come tante altre. Due ragazzi si vogliono bene e si sposano. Gestiscono un negozio di cappelli. Nasce loro una figlia di nome Sophie. La mamma muore. Il papà si risposa con una giovane commessa, di nome Fanny, che dona al marito altre due bambine. Il papà muore.
Il racconto era iniziato con una triste considerazione: in quel magico paese della “terra di Ingary”, essere il primogenito è considerata una sfortuna, essendo quello “destinato a sbagliare per primo” e gli andrà anche peggio “se sarà l’ultimo ad andarsene di casa in cerca di fortuna.” – l’opposto di quel che in genere accadeva una volta, o altrove, dove al primogenito spettava la maggior parte della fortuna familiare.
La mamma decide del futuro della figliastra e delle sue due figlie. Tiene con sé Sophie, che dovrà lavorare nel negozio (e in tal modo lei potrà coltivare l’ozio). Una figlia verrà destinata a fare la commessa in una pasticceria gestita da degli amici. L’altra sarà affidata a una signora che le insegnerà le arti magiche.
E la vita continua più o meno serenamente, finché un brutto giorno Sophie s’imbatte nella Strega delle terre Desolate, che la trasforma in un’arzilla novantenne, che ora, un po’ per vergogna e un po’ per spirito d’avventura, dovrà cercare rifugio da qualche parte.
Sceglierà il luogo dove nessuno vorrà mai cercarla: il castello errante dove abita il mago Howl, di cui tutti hanno paura, che è errante in quanto gira come se fosse un folletto non si sa come e perché.
Sophie ha delle grandi qualità. Innanzi tutto, lei parla con gli oggetti, e in tal modo li anima. Anche a me capita, ma in genere sono io che dico delle cose e loro si limitano ad ascoltarmi. Sophie, invece, sa interagire con loro. In secondo luogo lei prende il mondo come viene, reagendo sempre con saggezza. Non accetta le decisioni altrui, quando può opporsi, ma sa rassegnarsi quando conviene farlo. E riesce ad accettare, senza sentirsi umiliata, gli effetti dell’incantesimo di cui è stata vittima: “– Non ti preoccupare, vecchia mia – disse Sophie alla sua faccia. – Sembri in buona salute. Inoltre il tuo aspetto attuale rispecchia meglio il tuo stato d’animo…” – inutile dire che Sophie è più savia del suo lettore, che c’era rimasto male per quel che le aveva combinato quella stregaccia.
Sophie “… cominciò a parlare con il bastone, come faceva con i cappelli.” A un certo punto “sollevò il bastone, lo agitò all’indirizzo del castello e ordinò con un urlo imperioso: – Fermati! Il castello, ubbidiente, si fermò sbuffando sulla collina, circa a cinquanta metri da Sophie, che si sentì pervadere da un senso di gratitudine mentre si avviava zoppicando alla volta delle nere mura.”
A volte Sophie mi ricorda la figura di una moglie che, per fortuna del suo eventuale marito, è, come s’è detto, saggia e lungimirante! Ma che sa usare la grinta, quando è necessario. Ora vado a dormire e chissà se la sogno…
Nel castello incontra dapprima Michael un giovane commesso e remissivo; poi è il turno di Calcifer, un demone annidato nel fuoco, che non è molto simpatico, ma reattivo; un bel tipo davvero; e infine lui, il mago Howl, che in inglese significa Ululato; e sto ora pensando ad Allen Ginsberg che a lungo ululò in una sua nota canzone.
En passant, il demone affida alla ragazza il compito di liberarlo da un contratto che ha stipulato con Howl, senza però dirle nulla dei termini dello stesso.
“Howl ovviamente non si curava dello squallore in cui viveva la sua servitù.” – e questo, abbinato al fatto che la matrigna di Sophie poco si curava della sua figliastra, andando in giro a divertirsi, appropriandosi poi di tutti i cespiti del negozio, fa capire che nell’autrice covi anche un certo spirito di giustizia sociale. Viviamo in un mondo dove gli sfruttati non vengono onorati come chi approfitta della sua posizione di datore di lavoro. Non tutti sono come l’italiano Olivetti che teneva in considerazione non solo il proprio guadagno, ma anche la promozione sociale dei suoi dipendenti. Oggi questi idealisti sono stati come banditi dalla faccia della terra: se ci fossero sarebbero malvisti.
Anche al demone infuocato, che ha una “scarna faccia blu” e che di fatto è prigioniero del focolare, scappa: “Rifiuto di essere sfruttato”. Invece Michael, a un ordine ricevuto da Howl, “annuì col capo” – da vero Yes man.
Sophie, per farsi ubbidire, minaccia il demone di versargli “dell’acqua in testa”, oppure gli dice: “prenderò le molle e toglierò tutta la legna.” – anche Sophie fa parte di questo mondo, anche per lei il fine giustifica i mezzi.
Michael le svela un’arcana verità (il mio ossimoro preferito): “Howl e Calcifer hanno inventato il castello. È il demone a mantenerlo in movimento. Il suo interno è costituito dalla vecchia casa di Howl a Porthaven ed è l’unica parte reale.”
Sophie ormai sa cogliere il bello dove ad altri non rimane che il pianto e la disperazione: “Quand’era una ragazza le sarebbe venuta la pelle d’oca per l’imbarazzo al solo pensiero di come si stava comportando, da vecchia che non le importava niente di quello che dicesse e facesse. Tutto sommato era un sollievo.” – e il detto che piangere fa tre e ridere fa eguale, come m’insegnò la mia inclita madre, nessuno, nemmeno Popper, finora l’ha saputo falsificare.
A una domanda di Sophie, “– Calcifer e io stiamo cercando di mettere da parte un po’ di denaro – rispose Michael con tono colpevole. – Altrimenti Howl spenderebbe ogni penny che guadagniamo.” – come scialacqua questo ululante Howl sono in pochi. Egli è più caotico che cattivo. Peccato, perché, se si presentasse in modo più ordinato, sarebbe anche un bel ragazzo…
Il kosmos (anche se si fa chiamare ordine) è come lui: il suo è un khaosino in cui ogni cosa pare stia scivolando verso il Nulla.
Nel castello ci sono diversi pulsanti, per cui Sophie chiede: “Se il rosso porta a Kingsbury e il blu a Porthaven, dove porta il nero?” Howl prima la chiama “vecchia ficcanaso!” – ma poi le risponde: “Il nero porta al mio privatissimo rifugio e non sei tenuta a sapere dove si trovi.” – al che non posso esimermi dal rilevare che ognuno ha il pulsante nero che si merita.
Poco dopo sento Sophie mormorare qualcosa “a un paio di calzini di Michael che stava rammendando.”: queste sono le sue salvifiche conversazioni con le creature del mondo.
Calcifer fa un po’ il pettegolo sulla vita sentimentale del suo mago: “Prova interesse per una ragazza fino a quando lei non si innamora di lui, dopo di che non sopporta più di averci nulla a che fare.” – maledetto Don Giovanni!
Dice Michael che Howl non è nato mago, avendo iniziato da ragazzo l’apprendistato “sotto il nome di Jenkins lo stregone” – a Napoli dicono che nisciuno nasce imparato; tante cose Howl le ignora ancora, per esempio come affrontare quella brutta strega.
A pagina 90, “Calcifer si animò per un istante, mandando alcuni bagliori. – Non ho piedi, io. Sono un demone, non un diavolo.” – e non può manco zoppicare. È una questione che nasce dalle parole: demone è un abbozzo di divinità, ed è quello che, poiché giace dentro di noi, occorre stare ad ascoltare, almeno a sentire Socrate; mentre il diavolo è un fenomenale calunniatore, che agisce contro tutto e tutti.
“Howell Jenkins” è il vero originale di Howl che, a seconda del posto dove si trova in quel momento, cambia il proprio pseudonimo: Howl è quello che più dà l’idea, cioè di uno che ulula disperatamente quando brama qualcosa.
La “signora Pantsemmon” – anziana amica di Howl – dice a Sophie (prendendola per una quasi coetanea): “… il vostro dono mi piace molto. Voi date vita alle cose, come a quel bastone che avete in mano, a cui evidentemente avete parlato, e che avete trasformato in quella che la gente comune chiamerebbe una bacchetta magica. Penso che per voi non sarà troppo difficile rompere quel contratto.”.
Sophie di fatto è una maghetta. O una streghetta? C’è differenza? Nella sua etica, forse. In realtà “era come se Sophie avesse sempre saputo di essere una Maga, ma al tempo stesso avesse pensato che non fosse giusto il dono della magia, visto che era la primogenita fra tre sorelle. Lettie era sempre stata più sensitiva di lei, così almeno aveva ritenuto finora.” – chissà se ogni donna lo è, in fondo. Anzi, chissà se lo è ogni essere umano. Ogni essere…
Sophie scopre che quella sua anziana coetanea è stata uccisa dalla strega e all’autrice, a me e anche a lei viene da pensare una fatale banalità: “che la morte è così: la gente è viva finché non muore.” Anche mia madre diceva che alla morte ci si arriva da vivi.
Nel romanzo avviene di tutto, del bello e del brutto, e qui la rima è assai dolente… e, per rispetto non so di chi, penso di tutti, preferisco sorvolare su quei mille fatti e misfatti. Riporto soltanto il titolo del Capitolo Sedici – In cui avvengono un bel po’ di stregonerie.
Colgo una meno atroce, seppur penosa verità, a pagina 183, dove Calcifer ammette cos’era stato, prima di entrare nella stufa. Non lo faccio trapelare perché è bello che lo si scopra a questo punto. Mi limito a trasmettere un fatto: il cosmo è destinato, dicono i fisici, che citano il secondo principio della termodinamica, a scivolare piano piano nel disordine. Un bicchiere che cade sul pavimento, si frantuma per sempre. Una stella cadente pare svanire nel nulla. Pare. Staremo a vedere!
Dice intanto quel monello ululante: “Ho preso un raffreddore senza fine, ma, per fortuna, sono terribilmente disonesto.” – e questo suo dire è grave ma significativo. Per sopravvivere talora occorre esercitare la disonestà, più che la virtù. È probabile che quella si riveli la via più breve, nonostante possa condurre alla propria perdizione. Dando un occhio a chi governa il mondo, essa pare una concezione assai diffusa e vincente. almeno finché non distruggerà ogni cosa.
Si fa la guerra dicendo a destra e a manca che si vuole salvare un popolo, e intanto si bombardano le case in cui quello vive. Si finge che il nemico sia l’unico cattivo meritevole di essere fustigato, anche quando quello se ne sta per i fatti suoi, intento a gestire le proprie colpe. Diventare un giustiziere è l’atto più pericoloso che ci sia, perché il suo piatto è condito con delle essenze truffaldine. Amen, purtroppo, e così sia. Anzi, no! Così non sia! Che fare, allora? Combattere con il finto giustiziere, cercando di giustiziarlo? Uccidere, distruggere, tentare d’annullare l’Altro? Distruggere il mondo dove tutti si vorrebbe continuare a esistere? Chi mi può rispondere?
Sophie e Howl dovrebbero presto raggiungere “le Terre Desolate”, dove c’è “un caldo terribile, desolazione… completo dominio della Strega.”
Sophie è una buona donna, ma con chi si è alleata? Con un tipo di nome Howl, il cui “abito nero non era altro che la trasformazione del vestito incantato grigio e scarlatto. Ogni signora servita da Howl finiva per andarsene con almeno il doppio dei fiori che aveva effettivamente chiesto.” – un genio del commercio e del malaffare! Un tipo che a volte è simpatico, ma potrà mai convertirsi al bene? Cos’è il bene, in fondo, se non la miglior scelta che si può fare?
Ora Sophie si dedica alla coltivazione delle piante e dei fiori. Un’altra sua qualità è quella di favorire la crescita delle cose, magnificandone le singole differenze: “le foglie stavano virando al color malva e dal centro della pianta stava crescendo uno stelo con un grosso bocciolo.” – un’orchidea stupenda! Nelle sue artistiche mani tutto pare rifiorire!
Anche lei, però, sta diventando venale: “… intanto pensava ai soldi che avevano guadagnato, tanti da far aumentare di almeno dieci volte il gruzzolo che Michael teneva come riserva.” – a entrambi ricordo che oggi, coi conflitti in corso, non vale la pena investire in fondi azionari. Non so però che cosa valga la pena di fare con quello sterco di Satana. Concimare un orticello?
Finalmente, si fa per dire, Sophie è a due passi dalla “fortezza della Strega delle terre Desolate”.
Vorrei parlare di un personaggio che mi ha colpito fin da quando ero piccolo e ogni tanto me lo trovavo quando giravo in bicicletta in campagna, insieme a papà.
“Lo spaventapasseri apparve nella cornice della porta di uno scenario fiorito”. A me ha sempre fatto pena: vestiva di stracci e pareva allampanato. Secondo me non inquietava per nulla quei pennuti che un giorno vidi mentre stavano ai suoi piedi a beccare quel che a loro serviva per mantenersi in vita.
Sophie, “la sera precedente, aveva ordinato a quella cosa di andare dieci volte più in fretta e lo spaventapasseri si era semplicemente affrettato verso l’entrata del castello e aveva cercato di entrare da lì.” – ardito soldato che non era altro. Quel che gli succede è scritto a pagina 223 e seguenti. Mi limito a riportare che, alla fine, quello “spaventapasseri rimase in bilico sulla sua unica gamba…” – eroico come un Toti – e poi iniziò a ruotare “su se stesso, probabilmente pronto ad andarsene”, forse a causa dello spazio-tempo che, secondo il fisico Rovelli, usa riciclare su se stesso (looping).
Quell’essere malandato rimane un mistero, almeno per me. A lui cosa importa dei destini degli altri? Perché partecipa alla guerra degli altri? il che mi fa venire in mente quella poesia di Eliot, The hollow men: “Siamo gli uomini vuoti/ Siamo gli uomini impagliati/ Che appoggiano l’un l’altro/ La testa piena di paglia. Ahimè!”
Per l’armata del mago ululante “era un po’ come passare attraverso la porta del castello di Howl quando il pomello era sul nero”: una specie di buco oscuro che potrebbe stritolare il più massiccio gigante, figuriamoci una debole vecchietta.
Agitata da quelle forze animate dalla Giustizia, Lei, la forza attrattiva più infame della Storia, finisce per scoppiare: è una Guerra, non più né meno Santa e Ignobile di tutte le altre!
Alla fine vincono i cosiddetti buoni. Ma che siano davvero tali, finché c’è vita, sarà doveroso dubitare. Vedremo un giorno come butterà! Intanto cerchiamo di rispettarci l’un l’altro. D’accordo?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Diana Wynne Jones, Il castello errante di Howl, Kappalab, 2022