“Le piccole pensate di Kant e altre ragioni per cui scrivo” di Claire Messud: un’autobiografia in saggi

La frase che leggo a pagina 14 dell’illuminante Introduzione de “Le piccole pensate di Kant e altre ragioni per cui scrivo” di Claire Messud merita una standing ovation: “sono sempre stata d’accordo con Nabokov nel credere che parte della magia della scrittura stia nel fatto che lettore e scrittore scalano una montagna su lati opposti per poi incontrarsi in vetta: chi legge esperisce a modo suo ciascun testo, influenzato da connotazioni e allusioni, dalla propria vita e dalle proprie vicissitudini letterarie.” – strano, non l’avrei mai detto…

Le piccole pensate di Kant di Claire Messud
Le piccole pensate di Kant di Claire Messud

Mi ha colpito anche l’allegoria dell’“implacabile uroboro che ben dipinge l’intrico dei “social media”, così intenti a mordersi la coda, mentre noi restiamo appesi a quelle mortali spire.

Il tema del libro è principalmente la reazione biografica dell’autrice a vari esempi di letteratura e di arte figurativa. Spiega che “l’incontro con l’opera narrativa è solo nostro…”  – nonché di altre migliaia di anime, ognuna delle quali respira per conto suo.

La recensione e il saggio restano una versione epistolare più pubblica, per quanto idealmente ancora privata. Non sono un luogo dove esternare dettagli personali, no di certo, ma dove cercare di trasmettere, nel modo più preciso e articolato possibile, la propria percezione di un’opera d’arte, o l’evoluzione del proprio pensiero.” – sottoscrivo questi concetti aggiungendovi un prudente salvo eccezioni. Di me dico (mi scappa detto) quel che sento cogente e solo allorché mi pare tale.

Il padre di Claire aveva una grande cultura (sviluppata leggendo saggi filosofici) che tratteneva dentro di sé: “Non aveva nessuno con cui parlare, con cui condividere la sua notevole istruzione” – quasi fosse un anacoreta. Mi dispiace tanto per la sua sapienza, che potrebbe essere morta con lui. Ma forse non è così. Claire Messud è quel che è anche e forse soprattutto grazie a lui. Difficile quantificare il fenomeno, però. La prima parte dell’opera riguarda alcune sue Riflessioni.

“… tornare dalla nonna quel primo natale fu uno choc, la prima introduzione alla costante schizofrenia della vita errante.” – che io ho conosciuto a partire dal 1991, e che ho trasmesso ai miei figli, in modo lieve rispetto a Claire, che era canadese, statunitense, australiana, francese, mi pare spagnola, e nordafricana, libanese, turca, tedesca e sono certo che qualcos’altro che ora non rammento, per DNA, abitazione, scelte esistenziali, nonché influenze genitoriali e nonnesche. Io mi sento emiliano, campano e siculo, ma soprattutto me stesso. Anche tu, Claire, ti senti te stessa e poco altro, anche quando saltelli “da un inglese all’altro”, che è una questione di accenti e poco altro (non rilevante per chi non è un anglofono ortodosso).

In fondo, tutto il paese è mondo (più che il contrario):Il nonno aveva bandito l’alimentare più vicino perché la negoziante gli aveva chiesto di pagare il prezzemolo…” – analoga reazione l’ebbe la mia con-sorte campana quando seppe che al supermercato sotto casa facevano pagare gli odori. I prezzi della sua Amalfi erano globalmente maggiori, ma quegli aromi vegetali erano gratuiti (anche se ho il sospetto che il negoziante, infido e bonario, sommasse nel conto qualche centinaio di lire).

“… quando nel 2012 la zia morì, sembrò morire anche l’appartamento.” – e questa è la disgrazia che capita quando restano più abitazioni che eredi. Storie di ordinaria e minuscola borghesia.

“Dire addio a quel luogo era per tutti un peso, una grande tristezza; ma sembrava inevitabile, addirittura necessario, come seppellire un anziano parente dopo una lunga malattia.”era come andare in esilio in un luogo più idoneo alla vita.

Occorre un breve lasso di tempo “… per guardare un’ultima volta…” – quel che pare, a ragione o a torto, e mai lo si saprà, “l’eternità”, questo folle sentimento che ci sommuove dalla nascita,

“Era sembrato importante, andare a Istanbul, era sembrato importante per me, andare a Istanbul, andare a Istanbul, era sembrato importante per me, allora, andare a Istanbul” – questa è la tua scrittura, imprevedibile, prevedibile, insolita, solita, lenta, immota, rapida, che dal nulla scaturisce.

“Dopo la morte si lasciò dietro centinaia di volumi, anche se non saprei dire quanti ne avesse letti” – allora non c’era excell, né l’abitudine di segnare i titoli in un quadernone.

“Lasciò, vale a dire, sostanziali tracce di una vita non vissuta, di una vita interiore che, come tutti sappiamo, è al tempo stesso difficile da individuare e l’unica a contare davvero.” – e allora mi ergo in piedi, nel salutare quell’inclito papà.

“… com’è possibile che tutto quello che abbiamo dentro muoia insieme a noi?” – se nessuno lo scrive da qualche parte, o lo dice a uno che poi lo scrive, o lo scrive a uno che poi lo dice a qualcuno che poi lo scrive…

Partisti per il Libano mentre il genitore se ne stava andando Colà, perché forse sarebbe stato felice di saperti vagante in quel suo luogo dell’anima.

“Ero come convinta che avrei viaggiato non solo attraverso lo spazio ma anche attraverso il tempo, nel luogo lontano ma ben conservato che lui aveva disegnato su quella piccola mappa.” – per te. Andaste con lui in luoghi pregni di orrore, ma lui ve “li fece conoscere come posti di gioia innocente”. Grazie ai suoi quasi impercettibili insegnamenti, sei diventata “una scrittrice di romanzi”. Lui ti ha insegnato “a capire che la maggior parte di quello che è la si può solo immaginare, e solo attraverso tracce, spesso contraddittorie, di ciò che si può vedere.” – mio padre mi donò i suoi Idiota, Martin Eden e L’uomo che ride – due eredità eccezionale! Bella è la chiusa del capitolo: “la vita, punto.”

In Libano essa scorre come dapperutto, come in via Pansa, a Reggio, dove nacque mio padre, in un edificio che fu presto distrutto. Ne fu eretto un altro, che fu a sua volta distrutto. A Reggio, nei ‘90, quel quartiere era detto il Colosseo, perché per anni ne rimasero le rovine archeologiche. Poi ne fu costruito uno nuovo, assai elegante, con un piazzale dedicato a un papa. E io potei anche fotografare il Colosseo, ma non la casetta natale di papà. Lo stesso capita a te: “… c’era una testimonianza del Prima. Del periodo prima del Prima, invece, non c’erano tracce…” Come se la casa di tuo papà non fosse mai stata progettata, innalzata, abbattuta: una delle tante nefandezze della Storia, quando l’ineffabile decide cosa far restare nella memoria e cosa dev’essere obliato per l’eternità. E non ci rimane che la scrittura per onorarlo.

“Mio padre era felice, e per forse un’ora non provò dolore” – e chissà se papà lo era quando, quella notte, mi teneva la mano, scordando il blocco renale, stringendola con quell’ultima sua energia.

“Mia madre mi confessò che avrebbe fatto dietrofront per tornarsene a casa, se non fosse stato per…” – e c’è sempre un per di mezzo, nelle scelte esistenziali, una ragione sottesa.

Tua zia: “imparò perfettamente lo spagnolo e ancora una volta s’innamorò invano, ancora una volta di un uomo sposato, sempre con il litio a fare da guardrail.”un caso di umorismo messudiano, a cui mi sto facilmente abituando. Entrambe le affini si autodisprezzavano, ma, dici: “Io ho lottato, con dubbio successo, per liberarmi di questo lascito.” – e non sono certo che non ti sia servito. Anch’io, quando colgo i miei deficit, mi dico che non basteranno a impedire la mia prossima azione, visto che è sempre quella che conta.

“… sono una meticcia, un ibrido, fatto di tante cose diverse…” – è il destino di chi sa cogliere le proprie differenze, una ricchezza che non ha termini di paragone, qualcosa che c’è e che occorre distinguere, senza temere confronti con nessuno, perché nessuno è una mescolanza di geni e ribosomi come lo siamo noi. Noi non siamo semplice tomi, ma una miscellanea scelta di argomenti.

“Sono come sono perché sono stata dove sono stata, quando ci sono stata; e agli occhi del mondo questo è del tutto invisibile. Vale, ovviamente, per ognuno di noi.” – purché ne abbia contezza.

“Le piccole pensate di Kant…” – le nostre, le loro, quel che conta è l’intrico che ne scaturisce.

Non dico nulla dei tuoi due cani, perché sono tuoi e a me bastano le tue parole e la mia Phoebe. Anch’essa puzza abbastanza e per questo la sento mia. Al mio 184esimo lettore dico che basta annusare il tuo libro da pagina 102 a pagina 111.

L’antifrastico capitolo che segue è Come essere una donna migliore. Scorrendo l’elenco delle regole che vai enumerando, per la maggior parte volutamente negative: “non” far questo, “non” far quello, “evita” questo, “evita” quello; gli unici due che apprezzo sono “Ricicla; vai in bici”. Il primo perché in ognuno di noi si cela quel napoletano di Vico; il secondo perché la bici ti conduce là dove poi scendi, o ti appoggi a un albero, e puoi mirare il panorama sotteso.

Nell’infanzia “svanisce la convinzione di sapere chi siamo e chi sono gli altri.” – anche Socrate fu fanciullo e, crescendo, dovette ingoiare vari rospi e una dose mortale di cicuta.

“Finiamo per accettare che le persone possono avere esperienze diverse dalle nostre, e che, cosa più dolorosa di tutte, noi non sapremo mai davvero cosa provano” – e ci costringono a reinventare la loro esistenza. Gli altri siamo noi che si dilettano a ri-crearli. Manco fossimo dei.

Oddio!: “Sembra che ogni azione debba essere dichiarata proficua, dal valore misurabile, altrimenti viene considerata superflua, uno spreco di tempo.”io mal digerisco la banalità perché ci sa pigliare ogni volta per il coppino.

“Il capitalismo ci frega, ogni giorno.” – di dì e di notte. È il suo mestiere ingoiarci dopo averci succhiato a lungo.

“L’arte ha il potere di alterare la nostra interiorità, e quindi ispirarci, esaltarci, provocarci, connetterci e risvegliarci.” – né prima né dopo, ma “adesso”… con la Parte Seconda: I libri.  Scopro che tua nonna “era di origini napoletane” – ci mancavano fra i tuoi antenati i parte-nopei e parte non si sa che, il che mi fa piacere, ma mi destabilizza nu poco.

“… tutti viviamo immersi nella traduzione” – e il capitolo è così ricco di idee fenomenali che mi parrebbe di svilirlo a sintetizzarne i concetti. Che lo si legga e basta!

Cambio idea: Ogni traduzione è, per forza, una rivistazione del romanzo” – e questo lo riporto perché ne sono convinto: gli autori di Le piccole pensate di Kant etc, sono una certa Claire Messud e una certa Costanza Prinetti, a cui rivolgo i più sentiti ringraziamenti.

Interessanti le connessioni che ci sono fra i due Pieds-noirs, Albert Camus e tuo padre. Ma ancor di più l’idea, semplice ed essenziale, che quel genio francese covasse “un ateismo in costante dialogo con la religione.” – il che me lo rende con-fratello. Dopo di cui mi fai conoscere un germano algerino: Kamel Daoud, autore de Il caso Meursault, che prima o poi riuscirò a catturare in qualche selva libresca, appropriandomi per sempre della sua anima.

Obietto un attimo sulla questione “opera d’arte particolarmente interessante” – sebbene sia ispirata da istanze filosofiche anziché necessità letterarie. Per me sono problemi inesistenti: interessa qual che attira, a prescindere dalla sua natura. È un fatto d’interazione gravitazionale e nulla più.

“Riuscire a trasmettere l’aspetto ironico, persino straziante, da palinsesto della vita è un particolare punto di forza di Ishiguro.”il quale sa essere umoristico in momenti drammatici e tragico quando al lettore viene da sorridere. In tal senso spesso è ossimorico.

“… l’ironia è che il nostro desiderio, in quel momento, è di proteggerli proprio dall’adulta consapevolezza dell’inevitabilità della morte.” – e anche dall’inevitabilità di tale consapevolezza, quando uno cessa di rincorrere gli arcobaleni. Si pensa allora che la stella che in alto risplende non è che una nanetta che un bel dì finirà di scaldare le nostre umide anime e di levarsi all’orizzonte. E anche l’orizzonte cesserà di profilarsi.

Scrive quest’intrigante Jane Bowles: “solo i sogni dei folli si avverano” – non bisogna mai rinunciare ai propri desideri, e che siano folli nessuno lo potrà attestare.

“… in ogni momento del romanzo Jane è presente in caiscun personaggio” – la sua anima si moltiplica, come accade a J. K. Rowling, I guess.

Lo Zeno della Coscienza di Svevo (proprietà commutativa della letteratura) è “capace di vivere ogni giorno come fosse il primo”, di fumare sempre la sua ultima e perciò prima sigaretta (U.S., ricordo). Egli “è quel pesce scivoloso, il narratore inaffidabile, le cui commedie ci turbano e le cui contraddizioni ricordano le nostre con una certa inquietudine” – essendo nostre mentre le leggiamo. “È un romanzo senza trama, nonostante gli eventi” – come quando confonde un funerale con un altro – “più che un racconto progressivo.” È “un libro che ricorda in ogni senso la vita” – è uno dei tanti biografi nostri.

Nel capitolo successivo esamini l’opera Città aperta dello scrittore Teju Cole, con profondità, ampiezza, appassionata cura dei particolari, illuminando la mente del lettore come non mai, senza permettergli (a me, non so agli altri) alcun riporto, tanto che m’è parso che, sottraendo una tegola, possa cadere un edificio complesso e mirabile. Una tegola non è un elemento trascurabile, ma è portata, non portante. Perciò la estraggo: “Julius il medico non guarito”, l’io narrante, “dimostra un’anima buia e forse spezzata, per cui il ruolo di flâneur [1] è ermetico, più che aperto…” – ed è quel termine francese il coppo che cercavo: il termine indica chi passeggia in modo svagato, talvolta curioso, quello che da noi è detto umarell, per lo più pensionato e nullafacente, che va a visionare i vari cantieri che incontra nel suo tragitto quotidiano. Non so però quanto la traduzione sia azzeccata. Una conseguenza della tua lettura è, per mia necessità esistenziale, infilare di peso il titolo da te ogni volta citato nell’elenco delle opere da ricercare. Già è successo col romanzo di Daoud.

Ora dichiari: “Alla fine, il primo piano e lo sfondo sono di pari importanza; ma spostando la prospettiva si può cambiare moltissimo la storia che si racconta. Quando si tratta di noi, non importa con quanta chiarezza vediamo gli altri: siamo comunque colpevoli di una potenziale cecità criminale.”

Parlando di Magda Szabó, la definisciuna delle scrittrici ungheresi più importanti del ventesimo secolo”, a me sconosciuta, tanto che ti poni il problema di “quante altre gemme giacciano ancora nell’oblio”: una domanda che fa fremere. Voi due sembrate correlate come le particelle quantistiche che, una volta venite a contatto, sospendono i propri destini l’uno sull’altro, per cui giungi a dire: “Le frasi e le immagini di Szabó continuano a venirmi in mente a sorpresa, scatenando emozioni fortissime. Hanno alterato il mio modo di intendere la vita.” – e a me è capitato anche leggendo La vita dell’Arciprete Avvakum scritta da lui stesso, di cui non ricordo quasi nulla; ed è quel quasi che si agita nottetempo; o discorrendo ieri con quel barbone avvinazzato. Sic transit gloria viatoris et hominis ebrii. Cambia l’intensità della mutazione psicologica.

Parli ancora di “Tante Denise”, gravemente cattolica (e, obtorto collo, monacale), etilista, tabagica e infine tumorata. Me l’hai resa così simpatica che mi sto chiedendo ora che bello sarebbe stato se nella sua vita (e nel suo frigo) si fosse intrufolato il quasi coetaneo e birrofilo Bukowski. Amo questi autobiografismi che ti recano a una reazione psico-fisico-esistenziale a ciascuna opera letteraria: “Leggendo La porta mi sono reso di nuovo conto, con gran dolore, di aver deluso mia zia…” – per soccorrerti ho pensato di accattà ‘o papiello (in onore della tua ava vesuviana). Mi stai venendo un po’ di spesa, Claire Messud.

Sta ora bussando alla porta Rachel Cusk, autrice che stavo già cercando per conto mio, mannaggia! La quale si disse, come tu riporti: “certa che l’autobiografia sia sempre di più l’unica forma di tutte le arti…– anche quella che scatena le recensioni? E ancora: “Le descrizioni, i personaggi – sono morti, o moribondi, nella realtà come nell’arte.” – e riposino allora in eterno nei loro camerini.

“Da scrittrice la sua reazione è stata quella di imprimere una nuova forma al proprio lavoro, una sorta di romanzo semiautobiografico dove la narratrice in prima persona è quasi del tutto assente o cancellata, e serve soprattutto come registratore di vite – o meglio, di storie di vita – altrui.”

In una sua opera Rachel giunge a dire:La forma è insieme sicurezza e prigionia, sia protezione che ipocrisia: la forma, in fin dei conti, cela la verità, come il corpo cela il cancro che lo distruggerà.” – al che l’idea che mi stava venendo (forma = mamma) diventa inaccettabile.

Grazie a queste balzane eppure strepitose idee, “Cusk riesce in un’impresa rara: una narrativa ricca di filosofia” – il che non è così desueto, però nel suo caso, “le idee sono integrate nel quotidiano così bene e con tale naturalezza che il lettore può scegliere se prenderne atto o no.”

Interessante quanto un personaggio di Transiti, dice del “destino”, ma il tutto dev’essere letto in coda al capitolo sennò parrebbe un vacuo elenco di scempiaggini. Ho ora deciso che non sarà un romanzo qualunque di Cusk che leggerò, ma quello.

Ora si parla di Saul Friedländer, scrittore ebreo nato a Praga, le cui “esperienze concedono al lettore un barlume dell’irrecuperabile smarrimento del passato che risuona nella mia stessa storia.” – nella tua, cara: la solitudine dell’apolide, condizione umana a cui aspirerei, anche se non disprezzo l’assegno pensionistico concessomi dal paese che mi ha dato i natali. Scrivi: “il lascito di mio padre è stata l’assenza di radici; la famiglia di mia sorella e la mia sono disperse in vari contineti, probabilmente per sempre.” – come quelle dei miei figli, anche se nel loro caso i continenti distano non più di 767, 680 e 127 km.

“L’incapacità di Friedländer di ‘identificarsi’ senza riserve e senza riflettere è anche il suo grande dono.”non manca di stupirmi quel senza riflettere.

“Vedere la gamma di prospettive gli permette di scrivere, e di pensare, senza vanità o superiorità. In modo deduttivo, essere consepevoli della ‘difficoltà immensa di scrivere questo libro’ significa insistere su una veridicità fin troppo rara.”dove immensa significa che non si riesce a immaginare di misurarla. Ovvio che un occhio dovrà pur darla a qualche opera our mutual friend Friedländer’s.

È il turno di Yasmine El Rashidi, di cui riporto solo: “Nel romanzo di El Rashidi, come nella vita, il familiare e il sociale, alla fine, sono inseparabili.” – e poi parla di suo zio, che un giorno vi presenterò, cari miei 629 lettori.

Valeria Luiselli, oltre che molto carina, (vista da zio Google) è messicana, e di origini italiche, I guess. A quel che capisco scrive libri complessi, ma anch’io lo sono, come lettore, e non dovrei avere problemi. Ci vai giù un po’ dura, ma pari equanime, quando scrivi: “Molti elementi di Archivio dei bambini perduti sono straordinari, eppure l’atto finale di trasformazione non ha luogo.” – e più su avevi già emesso una mezza stroncatura, seppure intrisa di ammirazione, alludendo a quel suo “inchino al modernismo – il brano parte da una frase che dura quasi venti pagine” – che “non è che una delle numerose tortuosità stilistiche del romanzo.” Nella tua attuale reazione pecchi di autobiografismo, ma non mi va di specificare se in difetto o in eccesso. Al tuo prossimo e infaticabile lettore l’ardua sentenza.

La Parte terza riguarda Le immagini. Alice Neel. Pittrice, lasciò la figlia al marito cubano per un semplice motivo: “Vedete, ho sempre avuto quest’orrenda dicotomia. Amavo Isabetta, certo che l’amavo. Ma volevo dipingere.” – e io amo, certo che li amo, i miei figli che stanno colà, nel limbo, quando scribacchio, ma torno a pigliarli in giornata. Ognuno ha i tempi che si merita. Andò peggio col suo seccessivo “fidanzato”, che le “distrusse circa sessanta dipinti”, nonché “duecento tra disegni e acquarelli”. Tua conclusione, né beffarda né impietosita: “dopo aver sacrificato le sue bambine per le sue opere, Neel fu costretta a perdere le opere stesse.” – ma ne compose altre, di creature (sia biologiche che figurative).

“Il progetto di Neel era di fare con colore e inchiostro quello che i romanzieri cercano di fare con le parole.” – si convive tutti nel medesimo habitat!

“Neel riuscì alla fine a conciliare dentro di sé la grande dicotomia della donna artista, a unire la sua capacità di vedere e la sua capacità di vivere…” – e il finale della frase pare una consustanziazione: “a essere la pittrice e il dipinto al tempo stesso” – un mezzo Amen e Così sia di sapore luterano?

Claire Messud
Claire Messud

Marlene Dumas:Fin da bambina mi son sempre chiesta cosa significhi per una persona leggere un libro che ho letto anch’io…” – e io, pur essendo geloso dei miei bei tomi, sono pronto ad arrischiare un prestito perché un mio amico lo legga, facendolo suo spiritualmente, anche se non come proprietario. Poi parli dell’emozione che ti coglie ogni volta: “sono i fili che legano la mia vita a esperienze e visioni lontane dalle mie: che rendono vicino e riconoscibile qualcosa di distante.” – quel sempre misterico entanglement. Ripeti ora l’algoritmo della citazione montanara di Nabokov, altro meccanismo che abbiamo in comune: repetita iuvant scriptorem.

Ci dicono che “le opere d’arte hanno un ‘significato’ fisso”, ma i nuovi artisti vanno “garantendo il primato alla soggettività e all’interiorità”. Leggo poi, nella nota di pagina 289, che “tutte le citazioni di Marlene Dumas vengono da conversazioni avute con l’autrice, 5 agosto 2018”.

Da quel che colgo, le sue opere parlano chiaro, il che non significa che siano semplici, ma che occorre aprire bene gli occhi per comprendere tutta la loro visibile natura. Per l’invisibile non so.

Intrigante: “I legami – in amore come nell’arte – comportano rischi, il rischio comporta impaccio. Ed è attraverso la vulnerabilità che, in quanto umani, parliamo in modo profondo, dal cuore.”

Sally Man:Il memoir di Mann mette in scena per noi cosa implica vivere da artista, e in particolar modo da artista donna – un’artista che è madre, moglie e mebro di una comunità.”

Tu hai detto più di scrittrici che di scrittori e solo di artiste figurative: il perché non mi interessa solo un po’.

Mann (io direi la Mann, ma seguo la volontà della traduttrice, Costanza Prinetti) “ribadisce l’importanza della libertà artistica, e l’irrilevanza dell’indole dell’artista per la qualità dell’arte stessa” – e poco importa il comportamento sgarbato di un marito scrittore, se poi quello scrive capolavori (allude a Hemingway). Diversamente “ci sarebbe carenza di arte”. E questo perché “il valore delle sue opere sta nell’opera stessa, non nell’ammirazione del mondo”, e anche: “la vocazione dell’arte è proprio quello di volgere ‘l’occhio dalla vista intensa’ alle inammissibili verità della vita.”

Gradirei che un giorno la signorina Prinetti, o tu stessa, mi rivelaste cosa sia quella “meuse che “alla fine, emerge”. Non può essere un fiume, che mica può emergere da sé.

La Dumas “non smette mai di vedere il mondo, non smette mai di imparare…” – e in questo mi assomiglia, ma anche a te.

Ultima fatica (per oggi), la lettura di Una casa lontana da casa: il Museum di Fine Arts di Boston.

Vorrei che qualcuno mi spiegasse la seguente affermazione, riguardante Henry James: “che nonostante la naturalizzazione inglese è sepolto al cimitero di Cambridge”. Poi dici: “Con un padre francese, una madre canadese e l’unico passaporto americano in famiglia, avevo spesso l’ansia di non essere abbastanza americana…” – tranquilla, ormai sono yankee anche i pigmei della foresta pluviale. Il capitolo è uno dei più belli e mi sento di dare un consiglio al mio 812esimo lettore che è or ora entrato in ritardo, sbrodolando sudore sul pavimento: Leggilo che poi ti redimi!

Il “95% delle proprietà del museo”, come dici tu, “langue”, essendovi “tornato” nelle “misteriose camere di sicurezza”, ma qui ti preme solo che tale infame sorte sia occorsa a Watson and the shark di G. S. Copley (si prega di vedere su uncle Google), la cui prima copia si trova a Washington, la terza nella città delle auto di uncle Sammie.

Sarebbe bello, oltre che funzionale, che qualcuno si facesse promotore dell’iniziativa di distribuire in città minori il patrimonio artistico che è da secoli celato alla vista e ormai quasi obliato, lasciato a sonnecchiare in una qualche umida cantina. Non sarebbe una cessione, né un prestito, ma una semplice allocazione momentanea che non lederebbe i diritti di proprietà di nessuno. Ma temo che l’idea sia troppo fine perché possa attecchire in questo mondo ignorante.

Tralascio il passo sulla statua di Degas, perché non voglio rovinarlo, rivolgendomi al tuo “quadro preferito”: “The Daughters of Edward Darley Boit”, che non era parente dell’atleta kenyano.

Un quadro mirabile che annoia quel maschio sciovinista nonché fratello di un’unica sorella che sonnecchia in me, e che ogni tanto sobbalza sul letto. A ognuno spetta il diritto di un quadro preferito: il mio è Tigre con serpente di Antonio Ligabue. Ricordati sempre, cara, che tót i cajòun a gh ân la só pasiòun.

Per te quella di Boston è “la casa perfetta”, tenendo “un occhio rivolto al passato e l’altro al futuro.” – schizzo di tempo in cui m’imbatto nei Ringraziamenti, nei quali, parlando dell’amico “John Freeman”, non puoi far a meno di ricordare “le risate fatte quando gli ho raccontato dei nostri cani.” – e non ho difficoltà ad ammettere che anch’io ho abbozzato a proposito a un bonario sorriso.

Semmai ci incontrassimo (il mondo è bello perché semovente), ti prego: rivolgiti a me con un italiano misto a iberico e a yankee, ma non a germanico, perché l’unica espressione in quell’idioma che capisco è Das Glasperlenspiel. Io replicherò nell’ottimo inglese che appresi soquânt ân fa a Gavâsa, Reggio Emilia.

Ultima affermazione. Non so se deplorare o ringraziarti di non aver concluso la tua opera con una noiosissima Bibliografia e un ancora più illeggibile Indice analitico dei nomi. Prosit!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Claire Messud, Le piccole pensate di Kant e altre ragioni per cui scrivo, Bollati Boringhieri, 2022

 

Note

[1] Se si ha intenzione di “provare” a comprendere il Flâneur (termine che non ha traduzione in lingua italiana) si consiglia di leggere l’“Angelus Novus” di Walter Benjamin (Einaudi, 2006); “Lo sguardo vagabondo. Il flâneur e la città da Baudelaire ai postmoderni” di Giampaolo Nuvolati (Il Mulino, 2006) ed, ovviamente, tutta l’opera di Charles Baudelaire. [N.d.E.]

 

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