“Rumore Bianco” di Don DeLillo: l’assurdo che cela il Nulla Silente
Due soli momenti consentono a un umano di sesso maschile di assurgere al ruolo di creatore che appartiene per natura alla collega femmina. E mi rendo conto di essere un bel provocatore a dire questo, perché in realtà ce ne sono infiniti. E la femmina non è una collega se non nel senso che talvolta si collega al maschio, ma non necessariamente, se trova di meglio.

Quei due fatidici atti sono l’evacuazione, quando rendiamo alla natura ciò che gli abbiamo preso in prestito; e la cosiddetta creazione artistica, quando ci illudiamo di essere ispirati da una divinità.
Il libro Rumore Bianco di Don DeLillo è nato da un parto probabilmente podalico; o forse il pupo è stato estratto col forcipe. Sento che c’è stata della sofferenza sia da parte dell’autore che della traduttrice, Federica Aceto, la cui somma di sforzi ha prodotto un’opera che, almeno all’inizio delle Parte Prima, Onde e radiazioni, pare, sottolineo per prudenza il verbo, abbastanza tranquilla ma un po’ inquieta.
La prima pagina è molto yankee, e i suoi “tetti erano gravati dal peso dei bagagli accuratamente legati, pieni di abiti leggeri e pesanti, scatole con dentro…” – eccetera, eccetera. Dico yankee, in quanto, nell’immaginario mio personale, forse anche in quello collettivo, si pensa che gli americani, non solo quelli dell’est, ma un po’ tutti, siano appesantiti da una massa enorme di oggetti che, poco dopo l’acquisto, diventano inutile monnezza. Ricordo un servizio televisivo di vari anni fa in cui si mostravano gli sforzi operati da una squadra di volontari che andavano a setacciare nella spazzatura quel che ancora poteva essere utilizzato, che era stato eliminato in quanto non ritenuto più importante. Lo scopo era di donarli a chi ne aveva bisogno.
Dominique Lapierre in Più grandi dell’amore riportò un’opinione di Madre Teresa di Calcutta, che arrivò ad affermare che, di miseria, ne aveva vista di più a New York che sulle rive del Gange. Forse le pareva maggiore in quanto inaspettata in quella Grande e Rutilante Mela.
Il romanzo però incalza! Muoviamoci!
L’io narrante, nella sua terza/quarta convivenza coniugale, pare abbia avuto fortuna: “Babette è alta e piuttosto ben piantata.” – che abbia una genetica contadina?
“… riesce a darmi un tenero senso di gratificazione, la sensazione di essere legato a una donna di gran cuore…” – e non è poco, coi tempi che corrono.
“Le spiegavo che una stazza imponente, entro certi limiti, è sintomo di sincerità…” – e che, in un’era di crisi, hai ancora del grasso da bruciare.
“Il colmo è che io le donne le amo.” – io ogni tanto ci provo, ma talvolta fallisco.
“… io non desidero il corpo delle donne, ma la loro mente…” – tu, Jack Gladney, sei uno che pensa a lungo termine, mi sa.
“… ad attrarmi sono le donne complesse…” – forse sei tu troppo semplice: cioè sempio.
Ho appena finito di leggere la prima parte del tuo libro e non mi so decidere: sei semplicemente complesso, o complessivamente semplice?
“Chi morirà per primo?” – è l’eterna domanda di chi preferisce coniugarsi piuttosto che esistere da ablativo assoluto: Reluctante natura, irritus labor est. Non pensare alla morte, dice il saggio, perché vuolsi così colà dove si puote… ma puoi porti delle domande, nell’attesa.
“Heinrich sta cominciando a stempiarsi…” – ed è preoccupante, stante i quattordici anni di quel tuo acuto e intrigato figlio, nel senso che il cosmo intero pare come zippato nel suo cervello al punto che dentro egli crede di veder tutto, o forse nulla, chissà. È uno che, a quella sua tenera età, sa dire: “La mia verità non significa niente.” – per gli altri, o per lui? Ne riparleremo, H. è il personaggio più interessante, non ti offendere, molto più di te, anche se non gli esce l’ernia a esserlo.
Insegni in un corso di “Studi hitleriani”, e la cosa dapprima mi disturba un po’, ma presto mi parve di comprendere che, se sostituissi Adolf con Jiddu (Krishnamurti) e Mein Kampf con La prima e ultima libertà, poco cambierebbe nell’intera vicenda. Attenzione, però: sono solo all’inizio della Parte Prima!
Leggo del “persistente fascino che la tirannia fascista esercita sulle masse…” – mi viene da riportare il detto reggiano (città fra le più antifasciste del globo italico): tót i cajòun a gh ân la só pasiòun, poiché ognuno tifa per chi gli scalda il muscolo cardiaco, ed è la passione che differenzia i vivi dai morti.
Cos’è un gesto erotico se non un modo di comunicare i propri sentimenti a chi si ama?
Il dialogo che c’è a pagina 37 e 38, fra te e la tua Babette è così irreale che se non è vero quello, poco altro merita la definizione. La fiction è quanto di più assurdo una mente umana può creare, eppure, in questo mondo così tortuoso e contraddittorio, pare l’unica consentita. Ed è l’unica che permette di confidare nelle relazioni sentimentali.
Lei ama leggerti opere un po’ osé.
Tu dici: “Ma deve far piacere a te, baba. come dovrei sentirmi sennò?”
E Lei: “Mi fa piacere che a te piaccia ascoltarmi leggere.”
E tu, di rimando: “Ho l’impressione che ci stiamo rimpallando una patata bollente…” – è così, ma quale pomo da terra (così la chiamano verso il parmense) è più succoso?
Tu e Babette siete delle persone sincere, al limite della vergogna: “Io e Babette ci diciamo tutto.” – beati voi che credete che quel tutto esista!
“Parlo di quella franchezza che serve a rinnovarsi, a consegnarsi all’altro con fiducia.” – a dargli un pizzico della nostra energia affinché cresca in un modo che possa farvi crescere entrambi. Un lavoro che mai terminerà, come fotografare i murales di una cittadina come la mia Reggio.
A pagina 47 scatta un allarme: “I bambini accusavano mal di testa, avevano gli occhi arrossati. Una maestra aveva cominciato a rotolarsi per terra e a parlare lingue straniere…” – la causa, in tali orrori, non è mai una sola, ma è l’incrocio fra mille possibile e reali. Per esempio qualcosa che sortisce “dall’adesivo usato per i container…” – sì, anche da quello.
Il mondo è caduco perché è vario, per non essere la solita solfa, che sempre evolve, e noi con lei.
Capisci (cioè: prendi coscienza del fatto) che un insegnante di nazismo deve conoscere la lingua di Goethe e di Eva Braun. Ma è anche un fatto genetico, razziale, di lingua, intesa come muscolo, dove metterla, come metterla, come muoverla.
L’insegnante “ci teneva che io studiassi le diverse posizioni della sua lingua mentre mi mostrava la pronuncia di consonanti, dittonghi, vocali lunghe evocali brevi.” – la lingua sarebbe unica se anch’essa seguisse la propria geodetica, ma no, lei deve sempre ex-agerare dove vuole lei. Ci prova, almeno.
“… quei fonemi, articolati in modo così esaspeato e sofferto, sembravano un’improvvisa violazione delle leggi naturali…” – e lo è, ma la natura, violentando se stessa, riesce a produrre una nuova vita.
Bob Pardee, il padre di Denise, figlia di Babette, lavora in una “Fondazione per il pronto intervento in caso di incidenti nucleari.” – e io ho il sospetto che solo il prevederli, significa auspicarli. A seccia la si porta sempre addosso, dicono a Napoli: il nero di seppia è connaturato al nostro destino. Bob “andava a Coaltown sotto mentite spoglie e pagava una donna per parlargli in svedese mentre se la scopava.” – e tanto zelo pedagogico non piacque a Babette quando lo venne a sapere. Eppure è il metodo più antico del mondo per fare propria la lingua altrui, così assicurava Amanda Lear in un’intervista.
Sfizioso appare il continuo paragone fra Presley e Hitler: “Elvis e Gladys adoravano farsi le coccole.” – Gladys era sua madre. “Elvis dormì con sua madre, nello stesso letto, fin quasi all’approssimarsi della maturità fisica, tra loro usavano un liunguaggio infantile.” Similmente, “Hitler adorava sua madre”.
Come diceva Agatha Christie, l’uomo è uguale dappertutto. Quel che lo differenzia sono i dettagli. Uno scrittore, quelli cerca, se vuol creare una storia che non sia la solita che è narrata dall’alba dell’umanità.
“Le folle venivano per formare tutte insieme uno scudo protettivo contro la propria morte.” – religio significa scegliere il legame che ti libera dall’Altro, collegandoti a lui. Il fine è la sopravvivenza.
“Staccarsi dalla folla significa rischiare la morte in quanto individui, dover affrontare la morte da soli.” – molto meglio farlo tutti insieme, appassionatamente. Uno sull’altro, con amicizia, amore, fondati sul solito, pedante, kam’a, da cui anche kāma sūtra. Nulla più unisce gli esseri umani, quanto il desiderio di non morire in solitudine.
Un esempio di follia umana. Bee, tua pregressa con-sorte, dice di essere infelice, perché confidava che tu l’amassi “per sempre”; eppure è stata lei a volere il divorzio, prendendosi i tuoi soldi, avendo trovato di meglio (o così le parve). Ma il suo amore resti tu, e questo è il bello e il brutto delle vicende umane. Un conto è il sentimento e un altro è lo scegliere il proprio infame destino.
Lei ti dice: “Ci volevamo bene, non è vero? Ci dicevamo tutto, nei limiti dell’educazione e del tatto. Malcolm non mi dice niente. Chi è? Cosa fa.” – è un tipo che passa per prendere il necessario e che poi si dilegua. Tu rimani, nella mente e nel cuore, il di lei sposo, mentre il suo nuovo lui è uno che non si s-posa mai, per più di cinque minuti, un essere agitato, inafferabile e inaffidabile.
Altro punto importante: per Steffie, l’arguta figlia di 9 anni: “la sporcizia” se è tua, è limpidezza (traduco e sintetizzo il dialogo) ed è bello, quando la cricca è tua, stare “a mollo dentro l’acqua sporca” – tutto è relativo e riferito a ciascun osservatore.
Ho bisogno di parlare con l’autore e, se possibile, con la sempre precisa ed espressiva traduttrice, in quanto non comprendo un intero periodo: “Ho fatto un respiro profondo, sono rimasto immobile, in attesa di avvertire quella sensazione di pace che si crede discenda sui morti mentre attendono di vedere la luce che aleggia sopra i campi elegiaci del paesaggista.” – e non mi sono chiari alcuni punti: i morti attendono ancora?; chi è il paesaggista?; fa parte anch’esso del panorama, o gli è esterno?
È vero quello che si insinua a pagina 129, che i morti ci stanno guardando? Se è così, lo fanno scrutandoci dall’alto dei cieli o dalla parte delle radici della salvia?
“Forse noi siamo all’interno di un loro sogno.” – chi sogna chi? Io sogno di essere vivo… Lui?
Qualcuno poco fa citava il Bardo Thodol: loro da morti si illudono di scorgere noi, o noi da vivi ci illudiamo di immaginare loro? Mamma! Papà! Se ci siete, battete un… No, peferisco scoprirlo da solo.
“Murray sembrava felice di essere lì” – strano personaggio, uno che sa recare ansia al lettore.
Ogni tanto penso alla Tetralogia di Alessandria di Lawrence (Durrell). Sarebbe interessante (ma chi avrebbe il tempo di leggere tutto!) che ogni romanzo si moltiplicasse in diversi racconti, con la visione peculiare da parte di ogni personaggio. Pensando alla proustiana Recherche, immagino quanti nuovi caos si verrebbero a creare. Forse un tipo come Joyce non avrebbe problemi. Cioè, li avrebbe, ma tenterebbe di risolverli fluendo via tutto il giorno, con i suoi mille allucinati discorsi.
Babette appare su uno schermo in bianco e nero, “rinchiusa in una cornice formale. Era morta, scomparsa, disincarnata” – e qui si pone il quesito: quando si riesce a comprendere se si è nel novero dei sommersi o in quello dei salvati? Le due schiere sono comunicanti?
“Quello che contava era l’immagine…” – l’illusione…
“Murray ha sollevato lo sguardo verso di me, e mi ha fatto quel suo sorriso subdolo.” – l’unica difesa consentita, un insano ma salvifico cinismo.
La Parte seconda riguarda L’evento tossico aereo.
“… è successo qualcosa allo scalo di smistamento…” – qualcosa di anomalo, che preoccupa Heinrich, che “è salito sul tetto”, ti chiedi, caro il mio narrante e d’ora in poi girovagante, e un po’ disperso. Vuoi che il tuo straordinario rampollo, nel senso che pochi ne ho visti, a quell’età, come lui, scenda da dove si è inerpicato, ma lui ha, come sempre, la risposta pronta: “E secondo te basta dirmi che questa cosa la fa preoccupare perché io mi senta in colpa e smetta di farlo. E pensi invece che dicendomi che quello che si preoccupa sei tu io continuerei a farlo.” – quel genietto ha capito che sei tu a preoccuparsi, non Babette, come invece gli avevi detto.
Tu hai certezze simulate, condite con quel “Lo so e basta” e “lo so”, che sai ripetere ad nauseam e che ormai non sanno convincere nessuno, manco te.
“Adesso non lo chiamano pià pennacchio a forma di piuma”, ma “la chiamano nube nera in espansione”. E tu non sai replicare che con un “Bene”, senza nemmeno un esclamativo o tre puntini di sospensione. Per te il discorso è giunto al termine, sereno. Per te, non per l’ambiente che, infido, ti è esterno. Ora lo chiamano “Evento tossico aereo” – e tutti cominciate a montare in auto e a scappare là dove ti reca l’angoscia.
“La nube nera in espansione, l’evento tossico aereo rischiarato dai raggi di luce di sette elicotteri dell’esercito.”
La fantasia, per legittima difesa, si crea il precedente: “L’enorme massa scura si muoveva come la nave frantasma di una leggenda nordica, scortata nella notte da creature in armatura dotate di ali spiraliforme.” – una saga come infinite altre.
“Si trattava di una morte creata in laboratorio, definita e misurabile, ma all’epoca la consideravamo, in modo semplice e primitivo, un capriccio stagionale della terra…” – e se l’autore ne parla nel 1985, quando da poco era come uscita dal nulla quella strana malattia mortale che veniva fuori amando, e che parve a tutti un mistero spiegabile solo con la cattiveria umana, vuol dire che qualche sospetto era, in nuce, già allora. Allora con l’AIDS, ora, col Covid 19. Di chi sarà la colpa? Chi è meritevole di condanna? Riusciremo a fargli espaire la colpa? Bruciandolo? Placheremo la collera degli Dei mediante un atto che, tragicamente pio, sia in grado di commuoverli?
Il rumore è bianco è quando è caratterizzato dall’insieme di tutti i toni possibili nello spettro sonoro, con il medesimo livello di ampiezza, senza alcuna periodicità. Una mezza assurdità. Una possibilità rara, che può accadere: cose che capitano ai vivi, diceva mamma.
Ora arrivano anche “due scuolabus” pieni zeppi dei “matti di Blacksmith”, meritevoli di essere posti in salvo. In un mondo di pazzi potrebbero diventare una risorsa.
Tu rimani un paio di minuti a far rifornimento e ti becchi un po’ di quell’arietta malsana, e poi “il computer” dice che sei “un caso”, e chi non lo è, oggigiorno, quando tutti si è immersi in unico, variegato, casino. E potresti anche morire entro trent’anni, quando sarai oltre gli ottanta. C’è ancora tempo, pertanto. Don’t worry, drive happy…
“È quando la tua morte viene rappresentata graficamente, quando viene trasmessa su uno schermo, per così dire, che avverti un inquietante senso di separazione tra la tua condizione e quello che sei”: una schizofrenia di natura algoritmica.
“A cosa serve la conoscenza se è qualcosa che galleggia nell’aria?” – a illudere che, finché galleggia, c’è speranza? Anche se “Nessuno sa niente in realtà”.
Che ne sarà di Wilder, il tuo fantolino che non tarderà a esprimere la sua minuscola anima sballottata? L’impressione di questi strani primati nani è che amino gli improvvisi e inopitati sbalzi fisici e mentali. Sì, quelli che noi temiamo. Ci tenevamo a quella specie di eternità dorata, dove nulla pareva accadere, dove tutto è invece caduco. Dove tutto era così noioso!
Federica Aceto mi costringe a cercare su zio Google il significato di lutulento, quando parla di “una massa lutulenta e rigonfia, a forma di lumaca.” – lenta ma inevitabile, come a volte la Tetra Signora.
“… la nube dava l’idea di una campagna promozionale multimilionaria su scala nazionale che pubblicizzava la morte, con tanto di spot radiofonici, paginate sui giornali, cartelloni, e martelante presenza televisiva.” – di tutto il discorso quel che più m’incute orrore è la parola nazionale.
Sei indeciso se parlare in famiglia “del responso del computer, del fattore tempo che caratterizzava la morte che mi portavo nei cromosomi e nel sangue” – altro detto delle mie parti: alla morte ci si arriva vivi, e fai in tempo a comunicare quanto devi. Meno male che ‘sta Seconda parte è quasi finita! La Terza, Dylarama, non sarà da meno, temo, essendo lunga quasi quanto le altre due messe insieme.
Uno dei quesiti, anzi, Il Quesito più importante di casa Gladney è: chi morirà per primo? Capita presso molte coppie. Una mediocre risposta è data dalla separazione, consensuale o giudiziale che sia, così non ci si pensa più tanto. Una risposta illusoria può essere: contemporaneamente. Il che non accadrà mai per motivi naturali: il tempo è un’illusione che è scandita tutto il dì, tutti i dì. Poniamo il caso di un incidente aereo o automobilistico, per il quale, si dice, il decesso dei passeggeri e dell’eventuale autista è stato istantaneo: non lo è mai. C’è sempre una pur minima differenza, di qualche frazione di secondo, o di minuti. L’unica questione da ammettere è che, in simili tragici casi, il sopravvissuto muore troppo presto per accorgersi di esserlo. Allegri ragionamenti! Avverto che siamo soltanto agli inizi.
La coppia non si pone queste mie frattaglie di pensieri, ma crede fermamente che uno dei due tirerà le cuoia e che l’altro lo accompagnerà, mesto, al cimitero. Non so come avvenga in America, se sia un corteo come da noi, o se ci si ritrova come le stars, a bere del whisky al Roxy bar, come direbbe Vasco. In tempi di covid, anche da noi ci si ritrova come dei babbei alla camera mortuaria, ci si abbraccia con la dovuta cautela, mentre gli addetti della Croce Verde serrano per sempre la bara, e se la ficcano poi sul furgone, e chi s’è visto s’è visto. Il morto viene rin-chiuso, e poi giace, mentre a chi vive (e tenta di darsi pace) sono concessi dei brevi permessi, nel corso dei quali può andare a trovare il recluso.
“Sapevo che l’annuncio che la mia morte avrebbe quasi sicuramente preceduto la sua l’avrebbe gettata nella disperazione.” – per esperienza so che quando un medico tenta di capire quali siano le condizioni di quei veicolo semovente che è la persona umana, si comporta come un meccanico, dicendo dentro di sé: mah!, potrebbe anche essere che…, e poi, sempre come il meccanico, arriva a dire: quasi sicuramente è… Quel quasi, oltre che fregarci, potrebbe pure salvarci.
Babette dice di aver “paura di morire” e che ci pensa “in continuazione”. Quel pensiero fisso non le “passa mai”, altrimenti non sarebbe tale. Poi confessa, non un crimine, non un tradimento, ma un abuso del suo corpo da lei volontariamente concesso a un taumaturgo di nome Gray, che poi le ha propinato delle pillole (che danno il titolo a questa Parte).
Jack, cioè tu, e stavo dimenticandomi che ormai siamo amici, compagni di viaggio, le dici che una cosa non ce la fai a perdonarle: “di avermi rivelato che non sei la donna che credevo che fossi. Questa cosa mi offende, mi sconvolge.” – se non te l’avesse detto sarebbe stato come se non fosse accaduto, per te, non per lei e, stante la vostra sinergia, anche per te. La vostra sorte è entangled, correlata, come accade alle particelle subatomiche.
“Un rumore uniforme, bianco.” – definizione che lei fa della morte, qualcosa di simile a quello che produce un ventilatore, un condizionatore o al brusio indistinto di un canale radiofonico che esce da una frequenza inutilizzata, un sottofondo indifferenziato, che contiene tutti gli altri, amalgamandoli in quel variopinto colore/non colore. Tu prendi un piatto di cartone e lo tingi con tutti i colori dell’iride, poi lo giri velocemente e quello apparirà, globalmente, candido come la morte.
Comunicazione scientifica che va presa con le molle: “Hanno isolato la parte del cervello che ospita la paura della morte. Il Dylar accelera il senso di sollievo per quella zona.” – e a questa affermazione tu rispondi come fa un essere umano che sa di ignorare il mistero della vita: “Incredibile”.
Ti dice che è “solo un potente tranquillante”. Etimo di tranquillo = al di là della pace, non ancora eterna, nel senso di (ben) oltre, la quiete. Occhio che potrebbe pure esserci, in fondo al corridoio a sinistra, non un cesso, ma un khaos in cui tutto va precipitando.

“Desidero darvi il benvenuto a nome della Advanced Disaster Management…” – una voce “che riecheggiava per tutta la strada”: se fosse il momento clou di un programma televisivo, per reazione cambierei canale. Anzi, spegnerei, per evitare eventuali ritorni di fiamma.
Dice un giovinastro che è amico di Heinrich: “… Se dovesse mordermi una vipera soffiante morirei nel giro di una decina di secondi” – e il rischiare di essere morso è un esperimento che intende effettuare, e che io tanto rispetto al punto che ho deciso di non parlarne più, se non dicendo che decine di pagine dopo rivela d’essere una pantomina tipo superbonus: al 110%. L’eroico giovane allora saprà che più velenoso di qualunque ofide è la disonestà umana.
A pagina 272 è descritta la scena in cui Richard Wimark nei panni di Tommy Udo nel film Il bacio della morte diretto da Henry Hathaway… – quale fu l’anno di uscita?, e chi fu il produttore, chi curò i costumi? Beh, quell’ignobile biondastro/castano chiaro dalla faccia affusolata “spingeva giù per le scale quella signor anziana sulla sedia a rotelle…” – mio papà ogni tanto me la raccontava e io rabbridivo puntualmente. Ho cercato su zio (di secondo grado) Youtube, ma non ho trovato la scena. Rimarrà per me (per l’eternità?) un topos u-topico. E io che ne avrei desiderato uno eu-topico!
“… come mai cerco di immaginarmi morto, grande e grosso come sono, circondati da gente che…” – e qui stendiamo quel classico velo pietoso di Maya.
“… l’ho preso per il braccio, poco sopra il gomito, e insieme abbiamo passeggiato per il campus come una coppia di attempati europei, con le teste vicine vicine, tutti presi dalla conversazione.” – e ricordo quando, poco più ventenni entrambi, Tonino il Trapanese fece altrettanto con me, recandomi imbarazzo, sembrando ai miei occhi una coppia di omofili, ma in fondo mi andava piacendo. A Reggio, a quel tempo, si andava di fretta a rincorrere i propri guai e non era in uso quel modo di camminare.
Il solito so-tutto-io Murray, che tanto effettivamente sa e che s’inventa quel che ignora, cerca di spiegarti “che quella che vedono non è decadenza. Il cinema si allontana dalla complessità delle passioni umane per mostrarci qualcosa di elementare, qualcosa di ardente, chiassoso e diretto.” – una specie di Jiddu. Mah!, infatti:, continua l’amico: “Vogliamo tornare semplici. Vogliamo invertire il corso dell’esperienza, della mondanità e delle responsabilità che ne conseguono.” – vogliono rinascere per vedere il mondo per la prima volta.
È vero quello che dice quel cinico: “Basta guardare un incidente stradale in un qualunque film americano. È un momento di euforia, come nei vecchi spettacoli dei voli acrobatici…” – lo stesso che provai quando, nell’aspettare le pizze d’asporto, scorsi dallo schermo del locale le prime immagini del disastro delle torri gemelle, l’11.09.2001. Ben gli sta!, urlò l’antiyankee che ronfa dentro di me, e che ogni tanto si desta e spara stronzaggini. Non ho mai cessato di pentirmi di quei pensieri malvagi.
Babette dice di sé: “Babette non è un tipo nevrotico, è forte, in salute, estroversa, positiva. Accoglie le cose a braccia aperte. Babette è fatta così.” – non solo le braccia, aperte. Babette è una debole, ma chi non lo è getti il primo Dylarama, la prima, dolcissima, Euchessina, il primo fluido liquido anti-cerume. Ti chiede di smetterla “di portare gli occhiali scuri”, ma tu le dici che sono essenziali per “insegnare Hitler” – e io non li sopporto manco quando guido col riflesso del sole che mi abbacina. Non c’è una via di mezzo fra ‘ste miserevoli follie?
Poi, da vero yankee, getti un sacco di cose utili e io mai ti perdonerò di avere trasformato in pattume (senza alcun spirito di riciclaggio), delle “matite da temperare” – sei davvero intemperante! E mi domando cosa penserebbe di te William James Sidis!
Heinrich “era nella stanza, scorreva nel flusso pulsante degli elettroni…” – che è quello che ci dona l’illusione della compattenza, lo sai? Se lei ti bacia, o se bacia (poi scopriremo che riuscirà a evitarlo) il terapeuta di Babette, sono soltanto quei sempre itineranti elettroni che assicurano il (falso) contatto.
“Quella vecchia sensazione di essere vulnerabile. Piccolo, debole, assediato dalla morte, solo…” – e ringrazia chi pare a te che sia vecchia, pensa se fosse neonata, o ancora nel grembo di tua mamma.
Lei ammette: “Il Dylar è stato un mio errore. E non permetterò che diventi anche il tuo.” – il che succede ai predicatori che razzolarono male.
“La paura è la consapevolezza di sé portata a un livello superiore.” – una balla portata a sfondare il soffitto. Essa non è che un sintomo, come la febbre.
“… in quella compressa” c’era tanta brama di potere di chi la stava vendendo.
“La pausa dopo questa domanda sembrava un attimo sottratto all’eternità” – e non riporto la domanda perché è penosa, e mi limito a chiedere al mio trentaduesimo lettore se conosce il risultato di ∞ x 0.
“Molecole pesanti a parte, lo spazio è vuoto.” – anche particelle virtuali a parte, sempre che esistano e che davvero consentano a noi beoti di esistere.
“Caldo e freddo sono solo parole” – anche un’energia? Anche una massa incandescente? E = mc2?
Babette ama te e l’ultimo nato: sempre nel senso reso da kam’a, e dice: “Le due cose che più desidero al mondo sono queste: che Jack non muoia per primo, e che Wilder resti per sempre com’è adesso.”: che muoia piccino? Mancano ancora più di 100 pagine al decesso del libro.
“Quello che prima era strano e vagamente sinistro adesso era morboso…” – nel senso di entropico? Una calma che va in frantumi e non si riesce più a ricomporre? Relativamente poche righe più in basso, nella pagina che segue, mi fai leggere: “La donna è crollata a terra in una deflagrazione di bianco, come una tazza di tè che va in frantumi”.
A conclusione del 32 c’è questa misterica parola, che il tuo dio voleva conferire alla tua miserrima storia, ma i plutocrati non lo accettarono: “Panasonic”, che è qui collegata a “un cerchio che andava lentamente chiudendosi”.
Alla fine quasi del 33 rimango perplesso ma sorridente alla battuta: “Lasciamo che siano i mormoni a smettere di fumare.” – chissà se questo valga sia per i Nefiti che per i Lamaniti.
Uno dei tuoi ex suoceri ti ha fatto un regalo esplosivo, ma di questo ne parleremo forse dopo.
A pagina 333 (quasi finale del 34) getti via altra robaccia: “tutto fuori sul marciapiede” – sotto casa tua sarà come stare in certe viuzze della periferia di Napoli (ricordo alcune immagini di trent’anni fa).
“Gli hitlerologi si riunivano, gironzolavano, mangiavano voracemente, ridevano dietro i loro dentoni smisurati…” – quasi fossero una specie nuova di carnivori. I tuoi incisivi, molari e canini come sono? Forse sono miceschi, più che canini. Ma anch’essi possono tranciare, sbranare.
“Se imparassimo a non avere paura potremmo vivere in eterno.” – una balla che può sparare chi si sia presa la balla. Di quale additivo alcolico fa uso il buon Murray? Di aria fritta?
Egli rimane allibito alla tua professione di fede: “Il rimpianto più profondo è la morte. L’unica cosa da affrontare è la morte. Non penso che a questo. La questione è una sola. Non voglio morire.” – io mi limiterei a dirti l’opinione di mia nonna Linda: e mōr sōl al cajòun – traduco? Non vorrei morire nel tentativo assurdo di farlo!
“Pensa alla grande poesia, alla musica, alla danza e ai rituali che sgorgano dalla nostra aspirazione a una vita oltre la morte” – ed è la cosiddetta cultura, che è pià quella dei morti che dei vivi. Non a caso, si dice: il mondo dei più.
“Forse queste cose sono una giustificazione sufficiente per le nostre speranze e i nostri sogni, anche se questo non andrei a dirlo a un uomo in punto di morte.” – e non andrebbe detto manco a John (Keats).
A pagina 365 si parla delle opere di “Hitler”, tanto per cambiare. Non vorrei (o vorrei, invece) che conseguenza maggiore di questa lettura sia quella che Mein Kampf mi sta implorando da anni, internato com’è, sotterrato da decine di volumi maleodoranti e impietosi.
“L’assassino, in teoria, cerca di sconfiggere la propria morte uccidendo gli altri” – ricordo a questo punto che un mio affine bipolare, a cui facevo i complimenti perché dimostrava d’essere a conoscenza delle buone maniere, mi confessò: è la pratica che mi viene difficile!
“Più persone uccidi più potere ottieni sulla tua stessa morte.” – mors tua vita mea, dicono però che non sia un fatto automatico, vedi lo stesso Adolf. Devo ammettere che quel cinico ha ragione: “Meglio a te che a me” – il che però non è sempre vero. Esistono almeno due esseri a cui donerei la mia vita. E potrebbero moltiplicarsi negli anni.
“È naturale negare la nostra natura, secondo Murray. È ciò che ci rende diversi dagli animali.” – ma non dai ciucci. È come dire che è giusto praticare l’ingiustizia.
“È l’unico modo per sorpavvivere.” – ah, ecco, la natura prevede la morte, mi sa. Come la mettiamo? Chi vincerà fra noi e lei?
Strepitoso è il vostro amore. Dopo quello che è successo, tu le parli stando “tra i suoi seni”, ma ogni tanto il pensiero vola all’“altra persona” che spesso utilizzava e/o riforniva il corpo di Babette.
Ti dice la fedifraga (che non sa di esserlo stata): “Cosa sarà mai il buio? È solo un altro nome della luce.” – il suo più che pesto partner.
“Sono passato con il rosso altre due volte” – occhio che potresti incrociare Humbert che, giunto quasi alla fine del suo Lolita, ha una guida un po’ arrischiata.
“Una stanza si trova all’interno” – è un’isola nell’oceano della solitudine (Scialpi), dove le leggi sono quelle e basta. Occorre rispettarle. Oppure compiere un crimine. E tu hai con te il regalo di quell’ex suocero. E vedi che funziona da dio assassino, da Plutone d’esecuzione (piolata).
“Rumore bianco dovunque”.
Poi incontri la suora che mai ebbi la ventura di abbracciare (erano così nere e devote che pure Dio le aveva in uggia!), che d’ora in poi rimembrerò e amerò per quasi sempre.
Tra l’altro dice: “I non credenti hanno bisogno dei credenti” – della loro elemosina spirituale, finché esistono ci resta nel core un pizzico di speranza, se non di fede.
“Non esiste verità senza gli scemi” – noi a Reggio li chiamiamo nèsi, da nesciens. Mi sento il loro nudo re. Ma poi occorre una mezza stranezza. All’inizio del 40 (e ultimo): il tuo io narrante descrive quel che Jack non è in grado di vedere. L’ho capita così. Chiederò meglio alla signorina Aceto, se capita.
Detto mammesco, degna chiusa di questa mia lugubre reazione: tót à fîn. RIP!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Don DeLillo, Rumore Bianco, Einaudi, 2023