“Psicoterapia, carattere, spiritualità” di Antonio Ferrara: tra Gestalt, Analisi Transazionale ed Enneagramma

Leggendo il titolo “Psicoterapia, carattere, spiritualità”, soprattutto il sottotitolo, mi dico per una frazione infinitesimale di millennio, Ce la farò mai a commentare un saggio così complessivamente arcano? La risposta me la suggerisce ogni volta quel noto comico, di cui taccio il nome: Ceeeeerto!

Psicoterapia, carattere, spiritualità di Antonio Ferrara
Psicoterapia, carattere, spiritualità di Antonio Ferrara

Il mondo è bello perché è vario e lo si può percorrere tutto, volendo, avendo mille vite, un po’ di coraggio e ‘na giarlèina in bòca, come diceva quella santa contadina di mia madre. La ghiauzza le dava un senso di freschezza, per quanto arida potesse sembrare, facendole al contempo compagnia.

Ma quando iniziare? Mi viene in aiuto ancora mia madre: quând l ē la só ōra, quando suona la campana direbbe Ernst, esattamente (per quanto la fisica ci ha insegnato che nulla accade in modo esatto e esigibile) a pagina 55, quando leggo: “… Altri ancora sono specialisti nell’attingere da un ampio repertorio il ruolo da prendere, secondo quello che le circostanze sembrano richiedere e non ascoltano il vero bisogno. Ciò che loro importa è di esserci, di essere visti e questo dà l’illiusione di avere valore per l’altro.”

Non so se appartengo a tale infame schiera (spero di no, in quanto il titolo del paragrafo è Inganno e autoinganno). È vero però che per me importante è esserci, vivere per raccontarla, come direbbe Marquez, ma anche raccontarla per vivere, perché, come sussurra ancora la mia prima e materna psicoterapeuta, a la mȏrt as rîva vîv, ci si arriva respirando.

Poche righe sopra, in fondo alla pagina precedente, l’autore cita “una storiella sufi che è pari pari quella che raccontò negli anni ‘50 Louis Armstrong a Mario Riva, mentre fingeva di cercare la sua tromba in studio, non perché l’avesse persa da quelle parti, ma perché lì c’era più luce. Sempre la mia Gestaltica Genitrice m’insegnò che, per trovare qualcosa che s’era smarrita, bastava metterci la manina sopra.

Ogni paragrafo del saggio meriterebbe d’essere riportato e commentato, ma non finirei più e non basterebbe lo spazio Oubliette messomi a disposizione. Per cui sento il bisogno di scegliere: questo sì, questo no, ma solo perché qualcosa dentro di me me lo sconsiglia (tassativamente).

Scrive l’autore Antonio Ferrara, a pagina 18: “Senza addentrarmi nelle ricerche della fisica moderna, sulle quali non ho competenza, e nei riscontri che possono avere nel nostro modello, stando nel mio campo voglio sottolineare che proprio a partire dal vuoto si possono sperimentare stati di coscienza che facilitano il cambiamento. E questo grazie a insegnamenti ai quali sono connesse pratiche meditative che mirano all’autorealizzazione.” Si badi che io non ho competenze né in fisica, né in psicoterapia. Per cui posso procedere sereno.

Cesare Boni, poco dopo aver lasciato questa vita, sotto forma di manufatto cartaceo istruì Un tipo chiamato me stesso su una forma di meditazione che assurgeva al rango di preghiera, anche se non si sapeva a chi fosse rivolta. Egli disse che, con una pratica di appena sette minuti, da svolgersi di prima mattina, anche la sera, se possibile, anche un tipo instabile come lui avrebbe prima o poi realizzato quell’armonia che sentiva sempre sfuggirgli. Il primo minuto era destinato alla consapevolezza che il risveglio era avvenuto e che si trattava di un dono, anche se non si individuava il mittente. Nel secondo minuto l’orante rivolgeva a se stesso il proponimento di affrontare la giornata col cuore in mano, in accordo con la natura e, in particolar modo, con il genere più problematico, quello umano. Gli ultimi cinque minuti erano destinati all’ascolto del proprio respiro e a togliere le croste dall’anima. Ahmmm ahmmm ahmmmm. Haaaaaa haaaaa haaaa. Tutto questo serviva a quel losco individuo per sopportare le scemenze altrui, che gli apparivano, alla fine, quasi simpatiche. Quel tapino ovviamente ero io. Tuttora utilizzo quest’ameno sistema alla mattina e anche alla sera. Non si tratta di certo di una vera e propria meditazione. E qui interviene la solita consanguinea, che consola: piutóst che gnînt l ē mej piutóst. Chi si contenta, a modo suo, gode tutto quel che può…

“… al principio non c’è dualismo” poiché “Caos non è disordine, come comunemente si pensa, ma l’unione indifferenziata di ordine-disordine e disorganizzazione”pensiero riportato da “Michel Cassé, astrofisico e poeta”.

Lessi una volta che nel cosmo ogni tanto si produce un buco nero (che ordina tanta materia eterogenea in una singolarità) ma che si prevede che, alla fine, la vittoria arriderà (si fa per dire, non essendoci più denti) al secondo principio della termodinamica, che prevede il totale disordine (entropia) in cui tutte le particelle del cosmo cesseranno di interagire l’una con l’altra, peccando in maniera assoluta di energia. Sarebbe davvero un vano peccato! Sarebbe un giudizio universale in cui mancherebbero giudici, imputati, avvocati, periti e testimoni. Pare però che le due opposte tendenze, al momento, si alternino allegramente. Meno male! A paghêr e a murîr ‘s fa sèinper a tèinp!

“Ciò che esiste prende massa da un regno invisibile, il vuoto quantomeccanico, lo chiama l’autore, che accompagna tutti gli oggetti e noi stessi.” – forse alludi alle particelle virtuali che, non esistendo, promovuono l’altrui formazione. Il vuoto, pur non esistendo, opera farfugliando, indefessamente.

Caro Antonio, tu citi la “volontà irrazionale” che Schopenhauer “mette all’origine ‘del muoversi consapevole e inconsapevole di tutto il vivente, di tutto l’organico ma anche dell’inorganico e delle forze in esso immanenti’…”. Si tratta, per ora, di una teoria religiosa non falsificabile. Perciò desta incanto. Per Platone il caos “è un ricettacolo della materia”, ma chi sarebbe e chi fu la mamma di quel Demiurgós che, come un indefesso impiegato statale, produce sempre nuove pratiche? È forse iscritto alla Cassa Artigiani, li versa i contributi, li dichiara i redditi? È conosciuto alla Pubblica Amministrazione oppure opera in nero?

“Dal caos, un’indefinita e misteriosa unità originaria, si entra nella polarità, nelle antitesi, nelle differenze, fino ad arrivare ai conflitti…” – per cui si necessita di una piscoterapia, immagino. Non tutti hanno avuto per mamma ‘na cuntadèina arşâna tésta quêdra, diplomata con la quinta elementare, in un’epoca che chi arrivava alla terza poteva considerarsi un intellettuale.

“… si perde coscienza della ‘mente ingenua’, come la definisce Francesco Varela”, il quale “sposta l’attenzione dal pensiero orientato al contenuto”, dove il cervello “prima di percepire coglie la realtà  attraverso stimoli che riceve come ‘sensazione’…” – mi pare che questo discorso sia in linea con l’insegnamento di Krishnamurti, che suggeriva di vedere la realtà come si fa con un cobra, agendo, più che perdendosi in inutili cabale: egli voleva conoscere andando al di là del conosciuto, senza pregiudizi, se non, forse, quello che sbattere la testa contro la parete produce un certo stordimento. Ma senza pensare continuamente allo stordimento!

I meccanismi di difesa che indichi: confluenza, introiezione, proiezione, retroflessione ed egotismo, ricordano quell’antitesi singolarià/entropia, di cui si ciarlava poc’anzi. Suggerirei, da figlio di contadina gallo-gota, d’utilizzare entrambe le possibilità: an gh ē trést cavâgn c’â n vîn bòun ‘na vôlta l ân! Il cavagno è il cesto di vimini che serve a metterci dentro l’uva quando si vendemmia.

Gli egotisti “sembrano dire ‘il centro siamo noi’, e nei loro discorsi c’è sempre la parola ‘Io’. Parlano molto di sé e l’altro quasi non esiste, sono loro che contano.” – e una ragione se la meritano: nel cosmo non c’è un centro, tutto e nulla lo è. Anche loro, presi uno a uno. Anche noi.

“… la Gestalt, parola che peraltro significa insieme, tutt’uno: Gestalt è una totalità strutturata…” – mi verrebbe voglia di pensare a un edificio in cui è opportuno, quanto comodo, vivere. E da cui bisogna talvolta uscire, sennò si soffoca!

Scrivi che “diventò famosa per la tecnica della sedia calda, perché sulla sedia calda è difficle non esprimersi in maniera vera ed è calda perché nella verità emergono emozioni, stati d’animo, vissuti, difficilmente controllabili dagli abituali sistemi difensivi.”: col rischio che tutta ‘sta energia possa far saltare in aria il soggetto e chi gli è accanto.

“La persona media diffida del nulla…” – avendo paura di perdersi in un luogo privo di appigli, “di storie”, come “dice Perls, che riempiono il nulla…” – in assenza della firma del Creatore del Tutto. Continua lo studioso che tu citi: “Le cose non esistono; ogni evento è un processo; la cosa non è altro che una forma transitoria di un eterno processo…” – io sono un fan del “panta reieraclitiano, ma ammetti, caro Antonio, che non difettano le definizioni di essere ed esistente, quanto mancano le prove scientifiche di qualsivoglia noumeno e fenomeno. Chiedi un po’ a quel Putnam che ipotizzò, in Ragione, verità e storia, dei cervelli immersi in una vasca che credono di vivere in una via della mia città. Quando hai tempo, se vuoi, ci vediamo insieme il ciclo di Matrix. Un mio conoscente dice che un sasso è, mentre un uomo esiste. Parmenide, che frequentava le sue stesse zone, non sarebbe stato d’accordo. Proporrei di lasciare che la questione si risolva da sé: mai. A meno che, con la meditazione… chissà…!

Frielaender “propone il punto zero come centro di un equilibrio che permette la trscendenza…” – un trampolino?, “partecipò anche del movimento del Bauhaus…” – ognuno a rincorrere, più che i suoi guai, le altrui soluzioni accentratrici, ed è giusto così: lasciarsi gravitare è un diritto, come scegliere la catena fatta su misura da uno stilista. Come voler volare altrove, nel blu dipinto di blu.

“E ancora: ‘tutti si appoggiano su sostegni esterni’…”chiedo allo studioso Raffaele Catà, se Krishnamurti facesse parte di quella moltitudine di scalatori. O se li limitasse a mirarli, stando seduto su se stesso.

“Quello che propongo è un approccio unitario…”anch’io! Purché sia multiforme ed eterogeneo! A questo punto riprendo la lettura, e poi ti dico.

Tu scrivi di aver apprezzato la risposta schietta di un certo Barrie a una ragazza, a cui, su sua richiesta, disse che era decisamente “brutta”. Nel caso in parola pare che il tutto sia servito a rasserenare il soggetto, però a me vien da dire che l’eccessiva sincerità possa far del male, pur se motivata dall’onestà d’animo. Quando, Enrico Paoli, il mio maestro elementare (nonché campione di scacchi, laureato in Economia e Commercio, diplomato al Conservatorio, Capitano di Lungo Corso, etc etc) ci dava bacchettate, esigeva ogni volta un grazie! Perché, diceva, lo faceva per il nostro bene. Io so di miei compagni di classe che ancora ricordano con sgomento quelle lezioni. Il maestro ogni tanto elargiva doni a chi si mostrava meritevole. Eppure, questi non vengono mai ricordati. Mi chiedo allora quali siano state le conseguenze per il sottoscritto di tale severità alternata a generosità. Sempre, fino ai miei rari conati universitari, io ho odiato la scuola, ma amato la cultura, grazie a quel mio maestro. Più una situazione è forte, più doni e miserie elargisce. Il rischio è dietro l’angolo, come l’opportunità che muterà in meglio la tua vita. Sarà il destino a decidere e tu insieme a lui.

Una tua frase celebre, che una tua “allieva” incise su dei “ciondoli”: “La verità è una protezione” è bella, ma non riesco ad accettarla, se non nella forma che muto a mio uso e consumo (ognuno decida per sé): ogni ricerca di verità può favorire una protezione, ma può sbranare e uccidere.

“Erasmo da Rotterdam, in Elogio della follia…” – opera che tanto amai – “… dice che è una forma di pazzia quella che mette in atto quando esprime in maniera libera, così come gli vengono, senza prepararli i suoi discorsi…” – il che mi fa rimembrare quanto scrisse Henry Miller in Tropico del Capricorno: non intendeva rileggere nulla di quanto aveva scritto, perché non voleva danneggiare la purezza del suo narrare. Henry è uno dei miei scrittori più amati, eppure… non gli affiderei nulla e nessuno, poiché so (avendolo letto in varie sue pagine) che egli mirava a fottere (termine milleriano) la donna e il desinare dei suoi più cari amici. In Plexus narra di un suo caro amico che per mesi l’ha alloggiato e sfamato gratuitamente e, in cambio di tanta generosità, il buon Henry si divertiva col corpo della di lui moglie, pur disprezzandola come persona, mentre l’incauto sposo era al lavoro per mantenerli entrambi. Questo serve a dire quanto sia difficile essere onesti in tutto: se lo si è soltanto in parte, si ricade nel più candido degli egoismi.

“Il ragazzino gode a vedere gli uccellini e a sentirli cantare…” – come io rimanevo incantato quando, andando a moroso ad Amalfi, osservavo il volo dei gabbiani. Mia moglie, abitante in quel piccolo paradiso in cui difettano i passerotti, quando sbirciava tali uccellini che svolazzavano sul mio terrazzino di Reggio Emilia, si metteva ginocchioni per non farsi vedere da loro e gioiva di tanta, per me usuale, bellezza. La novità rende magico un fenomeno del cosmo, non esistendo nulla che sia universale e assoluto, checché ne dica Keats col suo fantastico verso: A thing of beauty is a oy for ever: pura māyā, illusione!

Tu e io siamo così correlati che, insieme, a pagina 101 ci viene da pensare all’entanglement: un concetto “basato sull’assunto per il quale due particelle inizialmente interagenti, anche quando si distaccano conserveranno sempre una connessione”: quando una muta il suo spin, il suo modo di girare, l’altra la imita, in quell’istante fatidico, sia pure in senso opposto. Questo fenomeno è uno dei più grandi, ma non “il più grande mistero della fisica”. Altri lo come minimo lo eguagliano: quel che accade (se accade) al di sotto dello spazio di Planck, le particelle virtuali, quell’ordine magico che indirizza l’ultimo tratto della traiettoria di una particella: Roger Penrose li sta collezionando da una vita ‘sti z mistery. E nel frattempo ha vinto il Nobel. Nella singolarità tutto è a contatto con sé e con gli altri, e tutto è entangled! Anche in quella che precedette l’ipotizzato big bang. Un black hole, ove tutto è singolare, potrebbe celare un white hole, da cui ogni cosa ri-uscirà, ri-differenziandosi.

“… la relazione c’è sempre anche quando il contatto non è evidente…” – così confermò una mia conoscente che sentì (o le parve di sentire) un’improvvisa e immotivata angoscia per l’incidente della sorella, che stava avvenendo a un centinaio di chilometri di distanza. Altro mistero che spesso è stato attestato: il mondo ha generato innumerevoli figli gemellari, non so se omozigoti.

“Chiedendo di dar voce ai non detti, sono tante le cose che vengono fuori…” lo dice Borges, o meglio glielo sto facendo dire io: è nelle finzioni che esse si celano, ed è lì che vanno cercate.

“Le carenze affettive creano vuoti angoscianti, e le Gestalt non vengono chiuse”: se usi un coperchio per farlo, ne rimane scoperta un’altra. Il problema del mondo è che ci sono più pentole che coperchi. E pullula di diavoli.

“Forse una persona vive un vuoto interno ed è quello che va riempito.” – ed è il compito della passione che però è cieca e non si accorge mai di quanti coperchi va rivoltando, quante pentole va scoperchiando.

“Nella saggezza naturale ogni fenomeno ha il suo spazio. La realtà ce lo dice, autoregolazione e intenzione, vanno insieme.” eros e civiltà, libertà e catene, amore e morte: dark sisters for ever!

Se lo zen insegna a “lasciarsi andare” e consente “il permettere che la mente cada, che il corpo cada”ti chiedo: dove? Nell’abisso, nel khaos, nel vuoto, dove “si crea un nuovo ordine”, come dissero alla particella che cadde nel black hole? Gravità ed entropia: anche loro tenere consanguinee?

Amo questa tua frase: “La verità è nuda e in questo è santa.” – e la falsifico all’istante: essa è un vuoto ribollente di virtualità. E chiunque ha il diritto di falsificarmi.

Ti chiedi se “la intuizione di Perls” abbia “la dignità di una teoria”: anche un sasso che viene lanciato in aria ce l’ha, la sua teoria, ma è quando ricade, magari sulla testa di qualcuno, che compie il suo disastro. Tutti noi, a riguardo, come dicevano i nostri nonni, dobbiamo “mangiare di pane” – di crustèin ed pân, al dgîva mé nôn

Ho tralasciato di commentare gli ultimi 3 capitoli, molto specialistici e informativi, che mi sono serviti per capire quanto l’entanglement fra psicoterapeuta, paziente e gli astri più vicini della costellazione familiare di quest’ultimo, sia necessario e talvolta sufficiente per progredire nella ricerca della cura. Riporto soltanto un assurdo, un quid che suona male, un aneddoto “forse dello stesso Erickson”, il quale, “in seguito a un grave incidente del figlio, caduto da cavallo, non andò a visitarlo, fermamente convinto che se lasciato da solo sarebbe guarito al più presto, avrebbe ricominciato a funzionare con i suoi potenziali, senza ricevere pressioni o preoccupazioni che lo avrebbero più agitato che altro.” – e non mi va di dir nulla a proposito, se non che il fatto mi ha come intirizzito.

“… una relazione nella quale l’Io e il Tu si incontrano in un sentire sottile, una intimità che ha in sé una qualità d’amore…” – molto ravvicinato, una pellicina ci divide. Quando la vogliamo togliere?

Un percorso “… che può portare ad esperienze di tipo affettivo molto profonde, ma anche all’attivarsi di difese e resistenze sulle quali agire in terapia…” – l’individuazione di quell’anello che non tiene/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità, di montaliana memoria.

“L’ideale è un rapporto Io-Tu, ma di fatto, ciò che maggiormente sperimentiamo nella realtà è quello che, come è già detto, Buber chiama l’IO-Altro.”Je est un autre, scrisse Arthur Rimbaud. Chissà che intendeva?!

Guardalo come se fosse la prima volta… lascia i pregiudizi.” – una cosa del genere insegnava Krishnamurti, e questo valeva per tutto, anche per il proprio io-mé. Quest’ultima è un’espressione tipica dell’arşân che, ironicamente, italianizza se stesso. Chi è stato?, chiede un’autorità. Io-mé, risponde l’ironico contadino gallo-goto. La mia lingua materna, pur derivando dal latino, non ha i corrispettivi di ego-tu-is-ea-nos-vos-illi, mai differenziando fra nominativo/soggetto e accusativo/oggetto: mé, té, ló, lē, nuêter, vuêter, lôr; id non esiste, ma segue la declinazione di , , diventando solo talvolta còl e còla: quello, quella. Antifrasticamente questi due termini identificano gli organi sessuali d’ló ed d’lē, Mé indica il pronome e l’aggettivo mio/mia: i mé maròun! – è un grido con cui s’intende dire: assolutamente no!

Mi domando che possano pensare a proposito i più noti psicoterapeuti, a cui do un aiutino: grazie al Tassoni, noi siamo conosciuti in tutta la regione come arşân da la tésta quêdra.

L’uomo non è sostanza ma una fitta trama di rapporti e relazioni.” – ed è una storia la cui trama è ingarbugliata, come la Recherche di Proust, che infilza storie dentro altre storie, da cui riemerge per rituffarsi in altre, ogni volta riemergendo, finché non gli appare l’illusione del Tempo Ritrovato.

L’amore è uno solo.” – chissà, di certo non lo è la sua rutilante visione. Come si fa a fermarlo?

“Io e te abbiamo la stessa natura.” – e chi è il vero psico-terapeuta? Chi è il vero im-paziente?

“La sofferenza, se adeguatamente interrogata, apre alla consapevolezza e aiuta a scoprire nuove possibilità. È uno stimolo ad andare oltre, ad andare oltre.” più oltre andar…, direbbe lo scrittore Riccardo Garbetta. Quel più pare un aggravio della pena, dell’obbligo, della necessità.

E se ci si fermasse, senza più pen(s)are?

“La bellezza, insieme all’amore, è quanto di più simile alla sua natura profonda…” – sua, dell’uomo. Ma che senso ha quel pronome possessivo, quando si parla di quel nasce e muore nel cosmo? Ei fu… una frattura, un errore, un incidente di percorso? …siccome immobile.

“La bellezza porta in alto, eleva chi la crea e quelli ai quali si manifesta…” – come quel tale che, quaranta giorni dopo un’incredibile resurrezione, pare sia svolazzato in cielo.

Anche il detto di Keats, a thing of beauty is a joy for ever, è una teoria religiosa, non falsificabile, bella però, e assai spirituale. Ma non può essere che siano tutte antifrasi? E noi si vive la nostra incerta esistenza scongiurando che non lo siano.

Leggo della tua esperienza “a Porto Velho, ad Acuda”, del tuo “Teatro Trasformatore” che hai realizzato in mezzo a carcerati. Hai creato con loro un luogo d’evasione, complimenti. Ho sempre provato una simpatia istintiva col recluso, e il mio eroe preferito fu il Felix Milani de Il forzato. In quegli anni io mi sentivo un forzato della scuola: ancora due anni di galera, mi dicevo quando ero alla fine della terza liceo. Tatuata sul petto di Felix era la scritta Mon droit forçé. Mon droit liberté!

“Un copione è un piano di vita personale che un individuo decide in giovane età in reazione alla sua interpretazione degli avvenimenti sia esterni che interni…” – e che io pubblicai una domenica durante il pranzo, dicendo che non avrei lavorato mai nemmeno un’ora della mia vita (avevo appena letto Marcuse). I miei non gioirono della mia scelta e mai la appoggiarono. Lavorai poi quarantun anni (contando anche la naja). Sarebbe bastato che uno solo di quei bastardi dell’1% della popolazione mondiale che posseggono il 50% delle risorse economiche mi avesse sponsorizzato e il mio sogno sarebbe diventato realtà.

Il problema, caro psicoterapeuta, che Karletto Marx individuò perfettamente, è che tutto quello che non è economia, anima compresa, è sovrastrutturale. Quei tizzoni d’inferno erano incarcerati per una forma qualsivoglia di passione. Avessi meritato l’ergastolo, con vent’anni di buona condotta mi avrebbero forse concesso la libertà, sia pure vigilata e provvisoria: e mi sarebbe bastata.

Ogni persona pianifica la propria esistenza…” – ma il suo progetto dev’essere accettato, modificato prima dell’eventuale vidimazione da parte del sistema: “Anche se poi il finale sarà deciso da uomini che non conosce o da germi che non vedrà mai.” a cui non affiderei l’amministrazione della cuccia del mio beagle.

Ora ti narro un esempio di rimbambimento: una certa Pina, con un passato da sindacalista, mi disse che quota 100 era immorale, anzi amorale, e che lei si sarebbe matrimoniata con la libertà utilizzando il pass sancito dalla mia legge, così definì le regole della Riforma Fornero, impropriamente detta legge, in quanto fu azzeccata all’interno del Decreto Legge 201/2011. Te ne narro un altro: un caro amico, verso cui provo una vera simpatia e stima, uomo di (estrema) sinistra fin dall’asilo, pensionatosi prima del tempo essendo stato un lavoratore precoce, definì quota 100 una porcata, adducendo anche per iscritto le motivazioni. Si tenga presente che anche lui vide negli anni allontanarsi il traguardo della libertà, della fine dell’impiego lavorativo. Per lui la legge del 2011 rappresentò un’insperata panacea, non rispetto alle leggi precedenti, ma per i malanni provocati dalla stessa legge, e qualsiasi sua modifica avrebbe rappresentato un sacrilegio.

Dagli esempi proposti, si deduce che il Copione non è mai redatto in modo certo, ma sempre in progress, una rivoluzione permanente la chiamerebbe quel russo, che era detto Penna dagli amici.

Il potere è spesso ramificato in due strade per conciliare gli iloti: definire una differente giustizia (per esempio a favore di chi iniziò a lavorare in giovane età, per bisogno o perché stanco della scuola), creando e mantenendo la diversità fra i sottoposti. In Via col vento Margaret Mitchell descrive con maestria come i peggiori razzisti nei confronti degli schiavi neri raccoglitori di cotone fossero i loro (si fa per dire) colleghi adibiti al lavoro domestico.

“… dar vita, proprio come fa un attore con i suoi personaggi, ad aspetti o parti di sé…” – una sacra rappresentazione, insomma.

Antonio Ferrara
Antonio Ferrara

A pagina 190 cominci a parlare delle perniciose ingiunzioni genitoriali, che iniziano con un “non”: mi domando se la circolarità palindroma del termine non serva che a confondere maggiormente il bambino, che può rispondere con stizza a un No!, ma che di fronte a un non potrebbe perdersi come talvolta succede, si dice, nella Val di Non.

Muto leggermente il tuo far “lo scemo per non andare alla guerra” – che, ad Amalfi almeno, si trasforma in un mi vesto da scemo per non ì a la guerra. Chi simula e dissimula, si dice che fa ‘a parata. E per sfilare occorre sempre una divisa, soprattutto se vuoi disertare. Anche a Reggio, talvolta, conviene fêr al sèmo: al fa al sèmo ma l ē piò fûreb che té!

“È tempo di guardare con i propri occhi, percepire con i propri sensi, sentire le proprie emozioni, e pensare con la propria testa.”il tuo saggio mi è simpatico perché non reca affaticanti note, che tu riesci a infilare direttamente nel testo, ammucciandole. Sei furbo, ma è questo che io chiedo a un autore: simulator ac dissimulator, come Catilina: va bene, ma internamente onesto.

Il prossimo capitolo riguarda l’infido Enneagramma: mo mâma! Lo vorrei evitare ancor prima di sapere che è! È qualcosa che “esprime la legge del 7 in unione con quella del 3”. Vedo che produce sempre 9 punti del cerchio in cui sono iscritte delle figure, tra cui riconosco un triangolo.

“Einstein, che inizialmente predilesse la fisica”, per venirci fuori, “si convinse a utilizzare di più la matematica. Infine, lo fece in maniera così profonda e complessa che anche gli specialisti ci misero tempo per intenderne il significato”: non si è ancora giunti a rinvenire tutte le soluzioni della sua equazione della relatività generale. Godel ne individuò una mi pare; e altri matematici riuscirono nell’intento. Einstein si era rivolto a loro come capita di interpellare un idraulico quando un termosifone comincia a perdere acqua. Egli “dichiarò che la matematica è una via fondamentale per lo sviluppo e la conoscenza delle leggi dell’universo.” – e su questo non ci piove. La quantistica necessita nei suoi calcoli dei numeri complessi (reali sommati agli immaginari, che non esistono in natura, come la radice quadrata di un numero negativo): roba da matti in questo manicomio cosmico! Ma che il cosmo sia fondato su dei numeri resterà sempre una teoria religiosa.

Parlando di “vertici”, “… ogni carattere ha le sue radici nei tre indicati nel triangolo e a partire da lì, poi si specializza in uno degli altri 6 tipi, assumendo una maschera che diventa fissa, abituale…” – e ogni maschera è, etimologicamente, màsca, una strega che t’incanta (nel bene e nel male).

“Per recuperare uno stato di benessere e un contatto più profonda con la propria natura bisogna togliere la maschera e vivere l’angoscia per la perdita dei riferimenti originari. Finché domina il carattere non c’è il contatto con la propria naturalezza.”nulla da eccepire e tutto da accettare, se il gioco funziona, come in quell’assurdità dei numeri complessi.

Non mi disperdo a enunciare le varie classificazioni, limitandomi a dire che confido nell’importanza della tassonomia, cioè in un’archiviazione che sia facilmente consultabile. Consiglio vivamente chi è interessato all’argomento di studiare il tuo modello GATES, che mi pare sia basato su ciò.

“È a questo che mira il terapeuta gestaltico, chiede di correre un rischio e di esprimersi liberamente.” anche tramite dei giochi che tu descrivi e che non gradisco.

Il bellum non è bello, ma talvolta occorre consumarlo, dicono, come si fa con un cero che alla fine ti strina le dita. Io lo evito. Segno di salute mentale? O di pazzia che si nega alla virtù guerriera?

Leggo con interesse il capitolo dedicato alla Meditazione e spiritualità, nonché a Il sogno. Finora, sia nella mia vita che in un recente episodio della stessa, la lettura del tuo saggio, ho compreso che ogni ente è diverso a seconda del punto di vista. Tutto è vanità e niente di nuovo sotto il sole, se non l’eventuale consapevolezza che nulla è certo, né definitivo. Se mi stropiccio gli occhi e, facendolo, smuovo quella che a ş è la garapèina, la cispa, cadendo sul pavimento essa non fa rumore ma, chissà, magari seppellisce un innocente acaro. Tutto è relativo, diceva quel tale. Anche il personal con cui sto scrivendo. Se un giorno io t’incontrassi, ti stringerei la mano, e se ti dessi un pugno, le particelle della mia mano sarebbero circondate, come il tuo viso, da un vuoto incolmabile. Se il nucleo di una particella fosse grande come il pallone sito nella lunetta di un campo di calcio, i primi elettroni navigherebbero, con dinamica incertezza, sugli spalti, mentre gli ultimi sarebbero a sfarfallare nella città vicina, relativamente tale. Se la mia stretta di mano ti parrà calda lo si dovrà al miracolo dell’interazione elettro-magnetica che dà l’illusione dell’impatto, che non c’è realmente mai. Tutto è un’illusione che funziona da Dio.

Ho appena starnutito e delle macchioline trasparenti hanno ornato lo schermo del computer. Eppure non vi sono mai scese del tutto. Il mio personal, come il mio naso, sono illusioni fotoniche.

Nei sogni, altre illusioni servono a comprendere quelle della veglia, d’essere un uomo, per esempio, che, a loro volta, servono a comprendere l’imenottero che svolazza insieme a noi, che siamo noi.

Ora passo all’ultimo capitolo, pardon, al penultimo, dedicato a Il Teatro Trasformatore. Leggo, per iniziare che è un “interpretare un ruolo e poi trasformarlo in un altro per arrivare a se stessi” Definizione: “Interpretare un ruolo e poi trasformarlo in un altro per arrivare ad interpretare se stessi: è la potenza del Teatro Trasformatore”.

Recitare è continuare sul palcoscenico quel che è rimasto appeso nella vita. Per Carmelo Bene è “morire in scena”, per rinascere, mi auguro. I suoi spettacoli prevedevano innumerevoli repliche.

Per Artaud, “l’arte non è l’imitazione della vita, ma la vita è l’imitazione di un principio trascendente col quale l’arte ci rimette in comunicazione”. Per me ciascuna cosa è imitazione di un deja vu, e l’arte è il mestiere di chi insegue ‘sto mirabile miraggio.

“Si porta se stessi nell’elemento di un sogno, o in una persona reale, si diventa un genitore, o un qualsivoglia oggetto e lo si vive come un personaggio di teatro.” – è una forma di animismo, in cui anche un paio di consunti slip o di scarpe maleodoranti contengono quel che Valdemort chiamava horcrux. Ognuno ha l’horcrux che si merita: “Ci sarebbero certamente delle espressioni simili, ma l’esperienza di ciascuno avrebbe comunque connotazioni e significati diversi.”: se non siamo fratelli, siamo come minimo cugini germani.

Dalla tua descrizione si evince che ognuno è attore e pubblico al contempo. Resta da vedere chi è l’autore originario.

“Nel mio teatro, che ha scopo terapeutico ed è rivolto al cambiamento, gli stereotipi caratteriali si manifestano in una forma più immediata e diretta.”: sempre una commedia dell’arte, volta però “verso la consapevolezza di sé”. Ora però ti lascio, per rivolgermi a Eduardo.

“Eduardo aveva una caratteristica particolare, in ogni sua opera rifletteva se stesso, non era soltanto un attore che interpretava un personaggio.” – o forse il suo doppio, come direbbe Artaud?

“Parla di un gelo. Il teatro è talmente importante per lui, e sono talmente presenti il suo impegno e la sua serietà, che non si ferma, non si intimidisce, non si intimorisce, segue la sua strada, perché ha un impegno, deve portare avanti il suo compito.”anche se si muore di paura, come capitò, forse, a Enrico Toti.

“… infine prende una posizione e fa una scelta.” enten-eller, aut-aut, direbbe Soren.

Dici in Ancora sul teatro: “Quando G. Anatrelli. del quale fui molto amico…” – e nel testo tu spesso indichi i tuoi maestri come parti integranti e integrati del tuo sentimento universalizzante.

Ti chiedo se sei a conoscenza che amore, amicizia e kāma sūtra derivano dalla stessa radice sanscrita kam’a. Sappi che io sono disponibile per la seconda, anche solo facciabuchiana.

Un ultimo e innocente quesito: riuscirò mai a superare il complesso del maestro Enrico Paoli?

Quando lo incontrai qualche anno fa in via Roma non parve riconoscermi. Al che gli dissi il mio nome e lui: Ah! Ricordo! Macchiafacile! – così mi ricordava dentro di sé…

Antonio, che te ne pare del mio Copione?

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Antonio Ferrara, Psicoterapia, carattere, spiritualità, Franco Angeli, 2022

 

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