“Volturno vudù” di Francesco Ferrante: una favola noir
Il dialogo fra l’io narrante e un certo “Max, Max S.” avviene nel settembre 2010. Max gli chiede “soltanto di ascoltare” e se il suo interlocutore gli dice che non ha tempo, Max gli offre, come se fosse una tazzullella ‘e caffè, un’idea filosofica: “Non è una questione di tempo. È quel che accade nel tempo… è quello che conta.”
Se il tempo non che è un’illusione, come diceva Einstein e come continuano ad affermare molti fisici, quel che accade nel tempo cos’è? Magia reale? E quel che brulica all’interno di una logica irreale non può essere che fantastico, a meno che…
Il racconto Volturno vudù di Francesco Ferrante prosegue a ritroso nel tempo: giovedì, 21 marzo 1996, 6.30 del mattino. Panta rei, come sempre: “Le porte vinsero l’artrosi della ruggine” – un conflitto continuo fra energia che vuol cambiare il mondo, aprendosi verso un nuovo aspetto del cosmo, e l’entropia che conduce alla sua fine: “Lo scheletro elettrico di un fulmine lacerò la campagna come la lama che il teppista conficcò nella vittima.” – tutto scorre tra le solite rive, in direzione del solito mare.
“Quanto all’uomo, si sa, nutre un intimo fastidio per la morte.” – avendo necessità di eventi che si lascino conseguire da altri; la morte è una trasformazione che non è gradita a nessuno. Non è la fine di tutto, ma di quell’io che t’illude che il mondo ti appartenga, definitivamente, almeno un po’.
Due donne africane portano a un maestro di vudù alcuni monili d’oro, il quale al momento si limita a dir loro che rappresentano “un presagio”. All’improvviso, “… un incendio era nato praticamente dal nulla e già lambiva le pareti e il soffitto” – praticamente dal nulla significa che non si capisce il perché. Tra le fiamme perde la vita colui, che poteva essere l’unico in grado di giungere a una spiegazione. Il mistero resta al momento insoluto.
I carabinieri trovano poi “un corpo carbonizzato!”, “il tenente smosse un mucchio di cenere. Scostate le ossa del femore, raccolse un sacchetto che aveva resistito alle fiamme…” – dentro vi “erano due dei cinque gioielli d’oro consegnati al maestro da mamma Lia.”
Il vudù è una religione fondata su un sincretismo di miti africani e cattolici, sviluppatosi nell’evo moderno in America Latina. Essendo l’uomo un animale migratore, ogni religione è ogni volta l’ennesimo miscuglio di antiche credenze e il vudù non faccia eccezione a tale regola, anzi…
E non lo è nessuna istituzione, benefica o malefica che sia.
La malavita partecipa a questo noir assieme ai tutori dell’ordine, alla gente per bene, ai disgraziati e a chi, come Max, cerca di individuare il senso della vita.
Camorra ha due possibili etimi: il termine in spagnolo vuole dire litigio, contesa. C’è chi ipotizza che derivi invece da chamarra, in antico napoletano gamurra, che era il vestito grossolano indossato dai lazzaroni. In toscano camorro è malanno, in siculo camurria (anche camula) è il fastidio, che forse deriva da gonorrea, che in greca è il gonos – reo, il seme che scorre. La lingua è anch’essa un miscuglio che si evolve a ogni generazione, perdendo per strada alcuni dati e acquisendone altri.
Ho definito l’interlocutore di Max un io narrante. Mentre Max narra la sua storia, quell’io non è presente e Max è uno personaggio che appare, talvolta, come per caso (o per necessità?). Cosa vuol dire questo? Ogni volta, come a pagina 60, si torna nel 2010, l’io narrante parla di un ritorno “ancora una volta nel bar di Lago Patria”, perché “Max mi aspettava al solito sul presto, per raccontarmi il proseguo di questa strana storia.”
L’io narrante è, fino a prova contraria, Francesco Ferrante, il quale dice a Max: “Insisto: non comprendo la tua storia… è un coro di figure, una matassa…” – e quello ammette: “Infatti è questo il punto, la realtà. Tutti pensiamo d’essere nel centro ma siamo solo parti, dei frammenti.” – essenziali finché duriamo, mi viene da dire. Il fato si distingue dal destino, in quanto quest’ultimo è il luogo spazio-temporale (ma c’è chi dice che lo spazio è un grumo che si agita continuamente, mentre il tempo è quel fenomeno illusorio di cu si diceva poc’anzi), dove ogni ente compie la sua pur minima azione. Ogni particella della materia segue la sua geodetica, cioè lo spazio più vicino tra due punti. I fisici quantistici parlano della minima azione possibile compiuta dalla particella in ogni attimo della sua esistenza. Ma è lei che sceglie dove andare o è un Principio Superiore che la sospinge da un punto all’altro? Incoraggiante è quel (forse pure illusorio) “Capirai” che Max promette a uno sbigottito Francesco.
Il mondo è bello perché è vario, anche se non si conosce granché della sua logica. Immaginiamoci un gruppo di mormoni che compiono la loro missione umana nei pressi delle “pescose discariche di Giuliano in Campania.” – mentre Max sta sfogliando “un libro di Hegel” – nel quale legge cosa significhi “conoscere la ragione” – una sorta di consolazione, chissà quanto vana, anche se il filosofo tedesco parla di “conciliazione che la filosofia procura a coloro, nei quali una volta è affiorata l’intera esigenza di comprendere, e altrettanto di mantenere in ciò che è sostanziale la libertà soggettiva…” – ed è come dire che si vuole seguire la logica del mondo senza perdere di vista la propria, in un groviglio confuso di destini.
Nel racconto si alternano voci etnicamente diverse. Un brigadiere dice: “Siór tenente, guardate qui! C’è un corpo carbonizzato!” Un’altra voce dirà poco dopo: “‘A quanno ha ncuntrato ‘a chillo, àmmo passato ‘e uaje nòste!” Questo è il mondo in cui viviamo, un luogo dove la differenza si mischia con la quotidianità che tende ad assimilare tutt’e cose.
In quel bailamme quei giovani mormoni canadesi (che se ben rammento si dicono anziani a diciannove anni) “parevano angeli atterrati per caso in un budello dell’inferno dantesco ma per nulla intimoriti dalle fiamme.” – c’è posto per tutti, poiché nel mondo si può entrare dappertutto pure senza bussare.
Max si pone il problema di quel misto di “virtuale e reale…” – che avvolge come un velo il globo terracqueo, e al contempo giudica corretto pensare, sempre con Hegel, che: “solo il Tutto è reale” – il che è come dire che solo Francesco Ferrante è Francesco Ferrante – ma ci sono anche gli omonimi, e quel che è reale eternamente ritorna nel medesimo mondo, che taluni definiscono ingannevole e vano, in quanto perennemente coperto da quel velo.
“L’urlo stroncò la litania della vecchia. Travolse pure una rosa appassita che se ne stava innocua in un bicchiere, giusto al centro del tavolaccio.” – non vi è un posto al mondo che sia al sicuro da quell’entropia che tutto disperde, conducendo, si teme, alla gelida morte cosmica.
“Nel mentre, il pomeriggio si scuriva, si frammentava nelle tinte incerte, conteso com’era tra un sole arancione e l’argentato piovasco” – il luogo ideale (e ce ne sono infiniti) in cui qualcuno, per esempio Max, può sentirsi finalmente “solo in quel teatro” – in cui gli è consentito di contemplare quel che resta del cosmo, anche “dal terrazzo il crepuscolo che ad occidente sanguinava in mare” – tutte le ferite si rimargineranno per meglio sanguinare il giorno che verrà.
“C’erano anche svariati filippini, nigeriani, polacchi, vestiti alla meglio o alla moda di venti anni prima, che pregavano un Cristo autobiografico” – intuizione mirabile a cui normalmente non si giunge. In un’immagine sacra noi cerchiamo noi stessi e il collegamento che, secondo Mircea Eliade, avviene talvolta, per una specie di miracolo, e questa è l’impressione che si ha.
Ogni umano continuerà a discorrere nel suo idioma: “Segur, siór tenente.” – e anche: “Chiur’ o fenestrino. ‘O vire o no cca sschizzechia?”. Il prete continuerà per la sua eternità a reiterare enfaticamente e religiosamente le sue vocali finali: “… anche stasera potremo dimostraree quanto sia veroo e sinceroo il nostro impegnooo!!” – ognuno ha le illusioni che si merita.
Il bimbo chiede: “Mamma, cosa sono i càra?” – anch’io, per un paio d’attimi, fui incerto della definizione, fino a che non li vidi abbinati prodigiosamente a “na vulante”.
“Che te ne faje ‘e na vita ca te cresce ‘ncuòllo, ca te regne ‘e rughe e t’arrubba pure ‘o suonno?” – le migliori canzoni (non solo le napoletane) nascono da queste angosce.
“Da quel punto s’irradiarono ad onda altri fili di luce: centrarono i quattro gioiellini che…” – e qui accade il portento che ognuno si attende da una storia, che deve diventare una sorta di promessa che un giorno ci sarà consentito di capire cosa c’è oltre quel velo di cui si diceva poc’anzi. Il bambino, irrealmente, compie il suo tragico destino di capro espiatorio, e tutto resta avvolto nel Mistero.
Il romanzo di Ferrante è un crogiolo di avvenimenti che, allorché accadono, sembrano preludere a qualcosa di eterno, infinito e risolutivo. La soluzione non giungerà mai, anche se Max, a sentire tutta la storia dalla voce di Angela, cameriera, prostituta, nonché la madre di quell’innocente ragazzo, si “commosse”.
È il sentimento misto di com-passione e di pietas che ci permette di sperare che tutto alla fine combinerà i suoi effetti per il meglio: qualunque cosa ciò possa significare.
Il mondo svanirà nell’inerte gelo cosmico previsto dal secondo principio della termodinamica, in un caos assoluto dove ogni particella rimarrà immobile per sempre, definitivamente priva di ogni energia? Oppure tutto rientrerà in un’unica Singolarità, da cui finalmente nessuna radiazione potrà uscire perché indietro vi sarà il Nulla. E davanti? Forse un nuovo mondo scaturirà da quella candida voragine? È quel che ipotizzò il cosmologo Stephen Hawking, prima di evaporare chissà dove.
Il romanzo si conclude con un Congedo (firmato da F F.): “Pagai io quel conto. Non ho mai più rivisto il signor Max.” – potrebbe sempre succedere, in un eventuale sequel.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Francesco Ferrante, Volturno vudù, Amazon Italia Logistica srl, 2019