“Domani nella battaglia pensa a me” di Javier Marías: un’inversa lettura
… e così è stato. L’indomani della tua scomparsa ho prelevato il tuo “Domani nella battaglia pensa a me” dalla gattabuia dovevo l’avevo rinchiuso e ho iniziato a leggere questi tuoi amabili resti.

Come sempre faccio con tutte le creaturine di cellulosa, inizio dalla quarta di copertina, la più significativa, in genere, del volume, ove leggo un pensiero di Pietro Citati: “Domani nella battaglia pensa a me è forse il libro più bello composto da uno scrittore contemporaneo…” – e qui m’oppongo: non lo è affatto oppure, se lo è, la teoria è religiosa, indimostrabile. È senz’altro uno dei più affaticanti, il che vuol dir tutto e nulla. Mi annoiai forse maggiormente a leggere La montagna incantata, con tutti quelle penose misurazioni di febbre, eppure lo considero il capolavoro di Thomas. Quando lessi Guerra e pace sognai per alcune settimane l’armistizio finale che precede la fine del (mio) conflitto, ma la morte del principe Andrej resta una delle occasioni più fatali della mia vita.
Ho divorato il presente tomo dalla prima pagina all’ultima (Note comprese). Per amor di giustizia scriverò la mia reazione dalla fine al principio, essendo il mondo un globo (non c’è bisogno che sottolinei curvo) e nessuno se ne accorgerà. A me la storia senz’altro interessa, ma ancor di più m’intriga la airots, che mi consente di dar più rilievo allo stile, questo sconosciuto.
Anche al tempo, il non meno ignoto essere, saggio e ineffabile e dalla barba lunga, candida e pidocchiosa, accadde d’essere un neonato che gemeva. Che ne sarà di lui, quando suonerà l’ora dell’eventuale, per nulla certa (termine appena scoperto Altrove), Apocatastasi, rimane il Mistero. N’apocalisse!, gridava decenni fa un giovane comico, e ora per lui il tempo ha svolto la sua penosa azione. Apocalittica è la verità celata, che cova sotto la cenere.
“Domani nella battaglia pensa a me è una frase che compare molte volte nello svolgersi del libro, accompagnata da altre” – acquisite nel presente e fuggevole mondo, nella lettura di sé e degli altri, “in alcune occasioni sono citazioni testuali, in altre soltanto perifrasi” – tutto e nulla vivono e muoiono in un’apocalisse permanente!
“… a ciò che ho inventato e aggiunto al cumulo interminabile di ciò che allo stesso tempo non succede e succede o, ed è la stessa cosa, di ciò che avrebbe potuto succedere.”
La scrittura è la salvifica condanna di alcuni che prima o poi pagheranno il fio leggendo dell’altrui tormento: “e mi domando come, nella mia età adulta, possa dedicare tante ore e tanta fatica a qualcosa di cui il mondo, me comprese, potrebbe fare tranquillamente a meno” – come dire a un bambino: ma perché continui a parlare al tuo pupazzetto come se fosse vivo, cosa gli stai dicendo?
“… i romanzi succedono per il fatto che esistono e vengono letti” – ma dev’essere successo qualcosa per cui il braccio del futuro lettore un bel dì s’allunghi sullo scaffale e arpioni il tomo come si farebbe con un cucciolo di foca monaca e lo si porti, moralmente, alla bocca per trangugiarlo a poco a poco, per poi divorarlo sfacciatamente; e questo è stato il tuo recente destino. Ma è occorso un fatto che non era previsto: eri morto il giorno prima e il sottoscritto ha inteso onorarti, come si fa con un discorso funebre (che è questa mia reazione al tuo romanzo: per cui noi due resteremmo, per l’eternità, correlati).
“… il passato è instabile e malsicuro…” – come il futuro: l’unica cosa costante è l’illusione del presente, che è come Turiddu: compare e scompare, allegramente e mestamente.
“La più completa delle biografie non è fatta d’altro che di frammenti irregolari…” – come ogni evento cosmico e che poi siano irregolari è una nostra idea, forse non meno illusoria di altre.
Arriva “a pensare che sia appunto al finzione a raccontarci tutto questo, o meglio, a servirci da promemoria di quella dimensione che siamo soliti lasciare da parte al momento di raccontare e di spiegare noi stessi e la nostra vita” – magari riportando da qualche parte i singoli fatterelli (che noi, arbitrariamente, reputiamo notevoli: siamo entrati ai Musei Vaticani intorno alle 10, abbiamo seguito il percorso giallo, diretti alle Stanze di Raffaello): a futura memoria come si dice.
“… delle numerose possibilità che nella maggior parte dei casi non sono giunte a realizzarsi – tutte tranne una, alla fin fine –, delle nostre esitazioni e dei nostri sogni, dei progetti falliti e delle aspirazioni false o deboli, delle paure che ci hanno…” – dell’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica di Hugh Everett III (solo al terzo di quella schiatta di schiattati è sorta in mente: la particella viene emessa e l’uomo ignora il suo obiettivo, ma potrà calcolarne la probabilità, che non sarà mai certezza, se non dopo l’arrivo (quando il solito felino è morto oppure vivo); e anche la sua attestazione equivarrà a un suo spostamento: osservatore e cosa osservata si modificano reciprocamente; che ne è delle altre chance? Sono volate Colà a edificare altri cosmi.
Secondo te, Javier Marías, noi tutti abbiamo “bisogno di una certa dose di finzione…” – cioè “dell’immaginario oltre che dell’accaduto e del reale” – necessitiamo del dolce, del caffè e del bargnolino che concluda quel banale pasto composta da un primo e da un pezzo di carne con lattughe varie. Io sono quel proclama che s-banalizza il bando e nulla più, immaginando, per un fatale attimo, d’essere il signore feudale e non un semplice banditore.
“Quel bambino non saprà mai quel che è successo, glielo terranno nascosto il padre e la zia e non ha importanza perché tante cose succedono senza che nessuno si accorga né le ricordi, o tutto si dimentica e va perduto…” – ma tu nei hai scritto quasi trecento pagine, ispanico, e quel bimbetto, ora di due anni, presto ne avrà sei, sedici, sessanta (gli auguro), e potrebbe leggere le tue mi(se)rabili sciocchezze.
“Quando le cose finiscono ormai hanno un loro numero…” – di riferimento, perché poi sarà più lieve la fatica della loro ricerca. E aggiungi col dire che il compito dei vari relatori sarà prima o poi reso vano dal tempo, che come si sa aumenta la dose di entropia. Nel frattempo sarà mutato il destino di numerosi individui, anch’essi vittime del secondo principio della termodinamica, ma non prima di esser riusciti a mutare quel qualcosa che prima o poi dirà la sua e infine zittirà per sempre.
E se un giorno erediterai quell’infante, magari incrociando la tua strada con quella di sua zia, con lui ti giungeranno a casa quegli aerei giocattolo che svettano ora nella sua stanza, che tanto spesso nomini con invidia e che così diverranno tuoi, finalmente.
“– Andrò via, vado” – che parole meravigliosamente orrende dici a Deán, tuo “cosposo”, perché qualcuno le disse a te. La vita è un’eterna nemesis, non sempre però a nostro sfavore oppure dei nostri nemici: un ritirare il dado e l’esito rimarrà incerto fin quasi alla fine. Un dado, a differenza di una monetina, non può rimanere in bilico, ma indica ogni volta la sua maledetta scelta.
“… il suo lamento funebre come una banshee ancora giovane” – creatura metafisica che ogni tanto citi. Non te l’ha mai detto nessuno che sei molto ripetitivo? – e tu puoi sempre replicare: e tu? Quante volte ho citato quello Hugh? O Jiddu? O Padre Aldo Bergamaschi? O la mia mammina? Per non dire quei cenni sull’entropia e sull’effetto tunnel…! Tót i cajòun a gh ân la só pasiòun, altro detto memorabile spesso citato dal sottoscritto! E tu reiteri: “Andrò via, vado devo andare.” – siamo i neutrini che vengono dal passato, oggetto della speculazione e della diatriba (in realtà una semplice diversità d’opinione) tra i giganti Dirac e Majorana, di cui troppo spesso scrissi.
“… chi racconta racconta sempre più tardi, il che consente di aggiungere, se vuole, per prendere le distanze” – che non era lui a scrivere, bensì un horcrux (altra mia citazione reiterata) che gli era scappato di mano.
“Rimane l’odore dei morti quando non rimane altro di loro” – anch’esso cesserà di veleggiare impavido, poi ne resterà, forse, la memoria (sempre a tempo determinato, però).
“… e il fatto che tu qualcuno muoia mentre tu continui a rimanere vivo ti fa sentire come un criminale per un istante o per una vita…” – tutto scorre, ahimè.
“… le azioni non sono le stesse se non durano abbastanza nel tempo…” – spiegami perché Einstein disse, o gli scappò detto, che il tempo è un’illusione, per poi azzeccarlo alle tre dimensioni spaziali? E non parlò più di fatti, ma di eventi spazio-temporali.
“… non vedevo la sua faccia, non vedevo i suoi occhi, soltanto la sua nuca” – ma perché ogni tanto non la chiami occipite? Ah, è vero, sei di Madrid: nuca o occipucio?
Con la morte, ‘sta misteriosa cannibale, “non soltanto scompare chi sono ma anche chi sono stata, non soltanto io ma la mia memoria tutta intera, quanto io conosco e ho imparato e anche i miei ricordi e quel che ho visto…” – allora butta giù due righe, che poi ci si pensa: di Eve ce ne ne saranno sempre! Un’Eva futura ci sarà sempre, come ben illustrò Villiers.
“La sua nuca ottocentesca…” – uffa! Vabbè, dai, è un tuo diritto. Non più di quell’Eva che ormai, sepolta da un taxi come tanti altri, ha cessato di accamparne.
“E la cosa più intollerabile è che si trasformi in passato chi si ricorda come futuro” – ma poi ti scappa una mezza spiegazione – “ero ubriaco ma non è una giustificazione…” – una mezza giustificazione. È sempre in quel tunnel, al cui termine ci sarà, dicono, una luce fortissima che costringerà ad abbassare gli occhi anche agli orbi.
“… raccontare è come convincere o farsi capire o far vedere e così tutto può essere compreso…” –lacrime e infamità, che poi acquisiranno una fama immeritata, ma chi è che decide i demeriti?

Ti dice Dean: “Sì, io non posso essere soddisfatto della mia storia, né tu della tua” – né io della mia. A me quel satif dà un po’ sui nervi, come a Rimbaud, quando questi scriveva: assez vu, assez eu, assez connu. E gh dâgh d’asèe – in arşân è ne ho abbastanza, ne faccio serenamente a meno.
“E in realtà questo non dovrebbe dolerci poi tanto, è soltanto un tempo che si trasforma in qualcosa di strano, fluttuante o fittizio…” – in realtà che significa?
“… tutto quello che dura sia pure un istante nel tempo, la stessa azione non è la stessa a secondo di ciò che produce…” – Hugh III! Corri… c’è ancora bisogno di te… Ehi, dove sei sparito? Ah, ha da tempo raggiunto I e II.
Deán dice en passant che parlicchia un po’ l’inglese e tu: “Io ho studiato Filologia inglese” – e ti accorgi all’istante che era un commento così inutile che per fortuna quello manco l’ha sentito.
“Non sopportiamo che i nostri congiunti non siano al corrente delle nostre pene” – aspettandoci da loro la com-passione, ah, maledetta e spesso tediosa kam’a, altro mio cavalluccio di battaglia, da cui deriva amore, amicizia e, nella più ardente delle ipotesi, un Kāma Sūtra.
“… o avrebbe sfaccendato senza posa per tutta casa, lui la seguiva da una stanza all’altra mentre le raccontava o discutevano o le domandava, non ho vissuto sempre da solo.” – tu sei un io narrante che ama ogni tanto fare seguire a un fatto, o a ipotesi di fatti (come queste), delle proposizioni esplicative, di cui qualcun potrebbe fare a meno, tu non ci pensi proprio.
“… a volte non si può pensare ad altro che a noi stessi e al momento, non a ciò che viene dopo” – a volte si può pensare ad altro che a noi stessi e al momento? Uhm, mi pare dura da dimostrare.
“… quando le cose terminano allora possono essere elencate e hanno un numero…” – nosologico?
“… mi sono sorpreso a pensare, non sono solito a gridare nei luoghi pubblici.” – neanch’io, ma a me non va di sottolinearlo, a te sì.
“Ha aperto la borsa con fretta improvvisa (le unghie dipinte)…” – meno male che l’hai precisato, di che colore, fucsia?
“… Madrid a tutte le ore, una città di assembramenti…” – anche altri luoghi, tranquillo…
Ben descrivi l’insonnia: “il pensiero diventa più forte della stanchezza e del sonno, e più che sognare si pensa, se si riesce ad addormentarsi del tutto” – l’incubo è uno spirito maligno che cerca di cubare nel cubicolo dove ci siamo addubbicati, di lato a noi.
“… soprattutto non sopportavo il cappello, per certe cose sono maniaco…” – qualcosa abbiamo in comune.
Mi fai ridere. A Téllez, padre della defunta Marta e della vivente Lucia, viene fatta pervenire “una composizione di fiori” – e sei stato tu l’anonimo mittente, per cui ordina alla domestica: “La apra” – e, spieghi, ha usato “lo stesso tono con cui gli imperatori romani potevano dire a un serbo ‘Assaggia” di fronte a un piatto forse avvelenato.” – chi è subordinato deve assumersi le sue responsabilità, che diamine!
“… trafitto da una spina come i bambini la cui madre non è lì a infilar loro un dito in gola e salvarli…” – allegoria che usasti nell’assodato passato o nel misterioso futuro: non ricordo se l’ho sottolineato.
“… nulla viene raccontato due volte nella stessa forma né con le stesse parole, neppure il relatore è unico tutte le volte…” – vero: fosti una volta tu e sono ora io a ciarlare.
Dice lei: “È tardi. andrò va, vado, devo andare.”
Inviti Lucia, sorella minore di Marta, a casa: “era curioso vedere la mia poltrona occupata da un’altra persona, una donna, era piacevole…” – ha invaso il tuo territorio, recandoti in dono la sua bellezza, sempre invadendo però.
“Le era sfuggito un presente indicativo, ‘si vedono spesso tutt’e quattro’…” – come se una dei quattro fosse ancora tra loro.
Javier, non offenderti, tu sei un immenso minimalista, che è sempre meglio che essere uno scarso massimalista. Per te i particolari sono una lunga fila d’essenzialità, e forse nulla più.
Come per il film le cui immagini, dici, “conservo di Mac Murray e della Stanwyck” – che poi, all’ultima pagina, sveli essere Remember the night, che dico, alla prima, scusa…
Alla penultima, pardon, alla seconda abbozzi una spiegazione dell’origine del titolo.
“… anche se era ancora mattina come è a Madrid tutto il tempo fino a quando non si pranza” – anche a Gavâsa è così, giuro.
“L’accaduto è perciò sempre molto meno grave dei timori e delle ipotesi, delle congetture e delle supposizioni e dei brutti sogni, che in realtà non introduciamo nella nostra conoscenza ma che mettiamo da parte dopo averli sofferti o dopo averli considerati momentaneamente e perciò continuano a suscitare orrori a differenza degli eventi, che diventano più lievi per la loro stessa natura, cioè, appunto, perché sono dei fatti.” – il che vuol dir tutto e forse nulla.
Distrattamente, mentre stai seguendo la sorella della tua (mancata) amante, acquisti una copia di un cartoon di Walt Disney, che poi offri al figlio della tua forse prossima amante, nipote della suddetta sorella, ex mancata tale, come se l’avessi comprata deliberatamente per offrirla a lui: non c’è che da dire, la fiction, purché realistica, è l’unica opzione che ci rimane. A Luisa dici che Marta è morta senza che l’ipotesi di andarsene per sempre Colà le fosse venuta in mente – “Che cosa ne sapevo di quello che le era passato per la mente, ma ho detto così, ero io che raccontavo.”
A proposito, tu chi sei? “Non sarei più stato quello, il rovescio del tempo, la sua nera schiena…” – come sei il tempo avesse un di dietro e un davanti, un culo e un c…
“… le case di quelli che vanno via e muoiono sono occupate da vivi o da nuovi arrivati…” – io abito in una casa che fu occupata da due anziani, RIP. Il secondo volontariamente.
“… bisogna dare un contributo al tempo che incalza e che continua a scorrere senza aspettarci, andiamo più lenti…” – confidando nella pietà altrui.
“Si sa che a Madrid gli allarmi si mettono in funzione da soli e nessuno ci bada, sono inutili…” – pressoché lo stesso a Rèş, eppure talvolta funzionano, come tutto.
Ti definisci spesso “cosposo” – ma che vuol dire?
“… non era passata nessuna banshee…”
“… vedevo la sua nuca…”
“… la sensazione di essere doppio soggetto o doppio ģe-brӯd-guma allo stesso tempo…” – cercasi lezione disperatamente; che poi tu abbini a un altrettanto misterico ģe-licgan – da non dimenticare che Victor, il tuo alter ego, è esperto di filologia inglese.
“Domani nella battaglia pensa a me, e cada la tua spada senza filo: dispera e muori.” – sorry, ma non mi va. “Quel re era haunted, o sotto incantamento, o più esattamente stava diventando haunted o hanté quella notte…” – cose che capitano, dai. C’è però il “dimenticato sostantivo ģe-for-liģer mentre era solo, o mi avrebbe trasformato per sempre in fittizio ģe-brӯd-guma” – come volevasi dimostrare. C’è infine (si fa per dire) quel “colore écru” che ricorre almeno tre volte, di qua e di là.
Tu hai una Golf, ma quel giovane trans salì “su una Golf come questa bianca”, e poi RIP, poi-prima Victoria aveva accennato a una Golf nera. Poi ne appare una rossa. L’auto più diffusa a Madrid?
Ora stai verificando che la prostituta Victoria non sia la tua ex moglie, Celia e questo mi pare grave perché, pur avendo tutto il tempo di rimirarla in tutti i modi, non giungi alla conclusione se è lei o se non è lei. Probabilmente non lo è. Chissà. ma tu quante volte, Celia, l’hai fissata dritto negli occhi?
“… il rovescio del tempo, la sua nera schiena…”
C’è anche la diatriba fra te e me: tu ti ricordi i nomi e non le facce, io più rimembro le ghigne più che i dati sensibili. A volte, per me, accade il contrario: ricordo quasi il codice fiscale, ma non il grugno, dipendendo questo da come erano stati fissati i nostri rapporti. Tu invece insisti col dire che il nome è il primo carattere di una persona, come se fosse un username. Parliamo d’altro?
“… le storie non appartengono soltanto a chi vi assiste o a chi le inventa, una volta raccontate appartengono a chiunque…” – tante grazie!
“… fra noi non c’era stata neppure importanza né solennità né passione ancora, forse soltanto un po’ di oscenità e un po’ di nascente affetto…” – una kam’ina in fieri e nulla più, un amore da poco, ma sempre un che d’ineffabile…
“… quello che è stato una volta non si può escludere che torni a essere…” – un eterno ritorno non si nega a niente e a nessuno.
“… non sopportiamo che i nostri congiunti non siano al corrente delle nostre pene…” – è assurdo, caro Victor-Javier, che tu estenda a tutti quello che è un tuo intimo bisogno.
Dice Luisa: “Non avevo mai pensato che un giorno sarei potuta diventare più grande di Marta…” – sono piccole illusioni umane, legate al conteggio aritmetico dell’età. Pensa al primo figlio di una coppia che nasce e muore nello stesso giorno; poi la coppia avrà altri figli ma quello sarà per sempre il più anziano nonché il più piccolo dei suoi fratelli.

“… i morti abbandonano l’età e così finiscono per essere i più giovani, se noi che viviamo ricordandoci di loro duriamo molto…” – quel che basta per convincerci che per noi perdurerà ancora per chissà quanto il disordine cosmico che ci condurrà, nel tempo, a isolarci dagli altri e, lentamente, rabbrividire nelle gelide immensità del quasi Nulla.
“… Marta Téllez, che ogni giorno di più mi sembra di percepire come se fosse stata sempre una morta, è tanto più tempo che lo è di quanto io l’abbia vista e frequentata e baciata viva: soltanto tre giorni viva, testimone io del suo respiro per alcune ore di quei giorni.” – e noi con te, per sempre.
“Il Llanero si fermò di colpo come se avesse interrotto la lettura di un libro…” – scritto da chi s’ignora.
“… Tellez, al quale (l’ho visto in quel momento) si era di nuovo slacciata una scarpa, e adesso non c’era la figlia per riannodare la stringa.”
Victor-Javier, ora incontri il tuo regale datore di lavoro, il “Solitario”, “il Solo”, “Solus”, “il Llanero” (altrove lo chiami “The Only One”, e anche “Only the Lonely”), ma anche lui, nella sua Altezza è preso da più che umane ansie: “O sono le scorciatoie o i contorti cammini del nostro sforzo quelli che modificano e finiamo per credere che sia il destino finiamo per vedere tutta la nostra vita alla luce di ciò che è accaduto per ultimo o di ciò che è più recente, come se il passato fosse stato soltanto preparativi e lo stessimo capendo man mano che si allontana da noi, e lo capissimo del tutto alla fine.” – siamo noi a scegliere il percorso o è il percorso che sceglie i suoi viandanti; il percorso è parte del viandante o viceversa? O valgono entrambe le cose?
“Sarà un mese fa, ho avuto una notte di insonnia…” – capita a tutti, anche ai Llaneros.
Dice Tellez, che è il tramite fra te e il Sommo (mio appellativo): “… l’unica soluzione a quel che dite, signore, è che tutto finisca e non rimanga più nulla.” – come se ci fosse una significativa differenza tra le due condizioni.
Quell’“Unico” disse (o dirà): “È intollerabile che le persone che conosciamo si trasformino in passato.” – o in futuro relativo, che poi cambia poco o nulla.
“Eccoci: dovrai scrivere un discorso per l’Unico”. Cioè? “… quello che nel gergo letterario si definisce un negro…”.
Intanto l’anziano e infelice padre ha “la scarpa di nuovo allacciata…” – tutto scorre: “… la figlia Luisa, con un ginocchio a terra (non piangeva più, aveva qualcosa di cui occuparsi), gliela stava annodando come se lui fosse un bambino e lei sua madre.”
Povero Deán, in quel momento che più che tragico è funebre, “qualcuno dietro di lui lo ha preso alla nuca – la nuca, – qualcuno lo ha tirato per quel soprabito così bello, e la donna che era al suo fianco lo ha afferrato per il braccio mentre lui rimaneva per un istante con un ginocchio a terra…” – ma non per pregare, non è da lui.
“… quanto poco rimane di ogni individuo, di quanto poco vi è testimonianza, e di quel poco che rimane tanto si tace…” – e chi tace acconsente o forse finge soltanto.
“Ho visto che a Juan Téllez si era sciolta la stringa di una scarpa…” – tutto s’aggiusta, poi o prima.
“… per superstizione e per rispetto nei loro confronti, le forme egli effetti impiegano di più a scomparire e a essere dimenticati delle cause e dei contenuti…” – ci pare di scorgere, del cosmo, la parte che più ci appassiona, là dove non restano che dei maleodoranti resti o delle anonime ceneri.
“… Luisa, che senza occhiali e senza velo sul capo né altro – ormai i veli non si vedono più in giro – piangeva con un pianto stridulo e continuo e non celabile, sebbene tentasse di celarlo.” – se i veli non si vedono più in giro, sento che lei smetterà di gemere, poi o prima.
“Non c’è stato bisogno di fermare la segreteria perché trascorso il minuto a disposizione di ogni chiamata – e in questo caso neppure intero – c’è stato un nuovo segnale di separazione e il nastro ha continuato a scorrere…” – ancora quell’ignobile panta rei?
“E se domani il bambino cade di sotto?” – prima o poi raggiungerà il suo scopo.
“Io dovevo continuare a vivere – è stato come averne improvvisa coscienza – e occuparmi di altro.” – per esempio scrivere queste allegre memorie.
“È sufficiente che non abbiamo letto un libro per non conoscere l’avvertimento principale…” – e ogni avvenimento del cosmo è una pagina scritta, strappata, arrotolata e infine (o inizialmente) arsa.
“Tutto il tempo è inutile, non soltanto quello del bambino o tutto è come il suo, quanto avviene, quanto entusiasma o fa male nel tempo si coglie soltanto per un istante, poi si perde e tutto è sdrucciolevole come la neve compatta e come è per il bambino il suo sonno di adesso, di questo stesso istante” – e Keats, che sognava: l’irrealtà? A thing of nothing is a joy for who knows when!
Chi sta morendo è infettivo, poiché contagia “la sua ansia di immobilità e di quiete” – dopo di lui tutto si dilaterà e cercherà di fuggire via da quell’assenza, più vivace ora che sta marcendo di quanto lo era allorché, ancora, seppure a fatica, respirava, magari l’ultimo rantolo di speranza.
“… i miei ricordi che allo stesso modo di tante cose di mia proprietà servono soltanto a me e diventano inutili se muoio” – tutto si getta Colà e poi o prima da lì svanirà e svanì nel Nulla; ma Tipler diceva che tutto permaneva in un limbo che tutto registrava e che poi riversava sul video in cui, viventi, morenti, agonizzanti avrebbero, per l’eternità intravisto l’immensità. Victor-Javier, se ancora hai in dotazione un paio di occhiali, leggi, finché ti è concesso, La fisica dell’immortalità! E poi vattene a dormire per un bel po’!
“Addio risate e addio offese. Non vi vedrò più, né voi vedrete me. E addio ardore, addio ricordi.” – bella come freddura. In arşân una battuta fulminante si dice ‘na masêda, un’ammazzata.
“… sempre meno tempo prima di svegliarsi e guardarsi allo specchio e lavarsi i denti e accendere la radio, u altro giorno, che sventura, un altro giorno, che fortuna” – un altro libro da leggere, che noia, e da reagirci per un po’, che tormento.
“Ma quella è una morte orrenda, si dice di certe morti; ma quella è una morte ridicola, si dice anche, sghignazzando…” – purtroppo a nessuno è consentito di ironizzare o di commentare il proprio trapasso, quando i necessari giochi sono fatti.
“Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome…” – come avere tra le mani una scultura lignea che qualche arguto spettro, per dispetto, sta gettando in quel camino ardente.
Onussen a oletid non am etnagirtni ùip arepo anu ottel iam oh non!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Javier Marías, Domani nella battaglia pensa a me, Einaudi, 1998