“La chiave a stella” di Primo Levi: otium aut negotium?
La chiave a stella di Primo Levi è un libro difficile, arcano, quasi imperscrutabile, per chi, come me, venera l’ozio in tutte le sue immaginifiche forme.

Per cui debbo reagire: fingerò di essere il garzone di questo Libertino Faussone, biellese come pochi, che riversa sulle pagine una serie di flussi di coscienza che più complessa non si può, argomento principale ma non unico il lavoro di montatore, saldatore etc etc. Io gli starò a fianco e, quando capiterà, verserò in itinere dei commenti. Non so se lui si sia accorto della mia presenza, spero di no, ma temo di sì.
Il problema è che Tino (la storia del suo vero nome è tutta da ridere, ma rimando alla lettura del libro) ha divorato pane e volpe fin da piccolo, stando appresso un padre che ha fatto altrettanto da quando è nato. Viene da dire che le volpi esistano per dar da mangiare a tipi come questi.
“… perché sa, se io faccio questo mestiere di girare per tutti i cantieri, le fabbriche e i porti del mondo, non è mica per caso, è perché ho voluto…” – ognuno ha i sogni che si merita, io per esempio vagheggiavo di esordire a sedici anni in serie A e fare gol al primo minuto su passaggio smarcante di Rivera, ma dovevo fare presto che gli anni passavano e il Golden Boy stava per andare in quiescenza.
“… a me piace vedere i paesi però sono un tipo regolare. Adesso poi ci ho fatto talmente l’abitudine che se dovessi mettermi tranquillo verrei malato: per conto mio, il mondo è bello perché è vario.”
Tino parla un italiano magicamente piemontese e quando dice “ma che laiani” non so, forse in inglese direbbero: what lazy people! In altre locuzioni non stento a capire: “in dei posti balordi”, anche a Rèş diciamo in dî pôst…; “mangiano delle robe che fanno fino senso” – a fân sèins, ribrezzo, pure da noi.
“… come c’è un arte di raccontare, solidamente codificata attraverso mille prove ed errori, così c’è anche un’arte dell’ascoltare altrettanto antica e nobile, a cui tuttavia, a cui sappia, non è mai stata data norma.” – perché non ce n’è bisogno, essendo sufficiente donare il proprio organo dell’udito e utilizzare la memoria, che poi si diverte a rielaborare. “Eppure, ogni narratore sa per esperienza che ad ogni narrazione l’ascoltatore apporta un contributo decisivo.” – creato dalla propria finzione, tanto volontaria quanto sincera.
“Ero mucco mucco…” – mortificato, forse col muco appeso?; sarebbe stato un bel cadò… – da cadeaux, intuisco… “… vigliacco se si è fatto più vedere” – in arşân: vigliâch… – che vuol dire maledetto vile è quello, che non si è degnato di farsi più vedere!
“Le cose, a vederle da una poltrona oppuramente da un traliccio alto quaranta metri, fa differenza.” – oppuramente dà più l’idea di ovvero.
“… se hanno da voltare una pagina prima si berleccano un dito…” – berlechêres, leccarsi, a casa mia.
L’io narrante dice: “‘L’ho pregato di essere più chiaro e conciso ma nel frattempo siamo arrivati al fiume, e siamo rimasti per qualche attimo senza parole.” – beh, càpita ai vîv…
“Cefola” – che significa inezia, mi mancava; “fija” – figlia, ma anche ragazza: da noi è fiôla, la figlia altrui va sempre bene, essendo sempre idonea allo scopo di…
“… mi ha fatto venire i capelli all’umberta” – tagliati corti e all’indietro, con notevoli conseguenze esistenziali.
“… questo non me lo dimentico mai più, finché vengo vecchio, finché tiro gli ultimi” – gnîr vècc l ē ‘na mèşa fregadûra, ma bisogna, per la mà!
“Però lo sa che lei è un bel tipo a farmi contare queste storie, che fuorivia di lei non le avevo mai contate a nessuno?”
La verità è questa qua: “Di regola è lui che entra di prepotenza, che ha qualche avventura o disavventura da raccontare, e la snocciola tutta d’un fiato, in quella sua maniera trasandata a cui ormai ho fatto l’abitudine, senza farsi interrompere se non per qualche richiesta di spiegazione.” – come fa un severo professore universitario. Oggi, però “non l’avevo mai visto tanto taciturno, ma, stranamente, il suo silenzio avvicinava invece di allontanare.” – singolarità silenziosa e ineluttabile.
“… una faccia gnecca…” – fissa in un punto indeterminato. Tino è un montatore e di questo può dire, delle sue montature, di impianti tecnici di vario genere, mica di cavolate. Anche uno scrittore lo è, ma non scommetterei sulla razionalità di un suo impianto: “… è comunque attestato che diversi scrittori erano nevrastenici, o tali sono diventati…” – un montatore dell’industria, qualora lo fosse, deve andare oltre la malattia e agire con lucidità sennò, addio…
La cosa bella dello scrivere, in effetti, è “l’orario flessibile”; mentre il montatore industriale deve attenersi a luoghi, orari e progetti giornalieri, lavorando insieme agli altri più che a se stesso.
“… le nozioni di umanistica mettono addosso il morbino” – a Tino, al murbèin la frenesia…
“… la machiavella la so…” – la ragion sottesa? La verità effettuale?
“… uno dei privilegi di chi scrive è si mantenersi nell’impreciso e sul vago, di dire e di non dire, di inventare a man salva, fuori di ogni regola di prudenza…” – et ego creo. “Quando riusciamo una tolleranza a sforzarla, a fare un accoppiamento impossibile, siamo contenti e veniamo lodati.” – gli ossimori sono benedetti dal dio che, se esiste, sta ronfando e forse sognando per i fatti suoi. La creazione: “come quando a un circuito spento ad un tratto passa corrente, ed allora una lampada si accende, o un indotto si muove.”
Diverso è: “veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse serverà a qualcuno che forse non conosci e che non ti conosce.” – a thing of beauty is a joy for...?
“Perché, vede, io sono uno che non tiene il minimo…” – uno che deve salire su di giri per non spegnere il motore che occorre tenere acceso per esistere.
“… una mezza dozzina di ingegnerini appena schiusi, tutti spichínglish e tutti con la barba…” – che sanno solo blaterare. Gente “con la faccia un po’ da cottolengo”: espressione brutta ma efficace.
Uno lo capisce “poi dopo…” – anche da noi si reitera l’avverbio: pó dôp. “Conviene essere sempre d’accordo con chi racconta, se no lo si intralcia e gli si fa perdere il filo…”
Chi narra diffida del mondo esterno – “Scusi sa, ma lei mi guarda in una maniera che mi pare che non si rende conto”.
A volte capitava che un ingegnere fosse lì che “nuffiava l’aria come un cane da caccia.” – sniff sniff…, “arricciava il naso e faceva dei versi come per dire che si metteva male.”
Nel frattempo, “… io mi sentivo genato, perché lì dentro non c’era neanche una tenda e mancava l’intimità, e poi avevo paura…” – imbarazzato, fuori posto.
Questo narratore non è lui se ogni tanto non dice: “un giorno o l’altro le racconto perché…” – creando la suspense.
“… una cernaia di isole e isolette…” – parola con due significati, uno dei quali è sconcio.
Il rame, quest’intimo sconosciuto, traditore come non mai, amico e nemico, amichevolmente ostile, loscamente fraterno, un quel che non ci mette granché a diventare “arverso” – arvêrs, contrario.
Le cose della genia dei Faussone, “a dirle tutte ci andrebbe un libro, e è un libro che non lo scriverà mai nessuno e in fondo è un peccato…” – e questo è un timido tentativo, che chissà quale esito avrà… Da notare anche quel e è: Tino non ama l’eufonetica.
“… l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi), costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.” – c’è chi lo giudica un sintomo di alienazione.
“… avrebbe avuto caro che io tirassi avanti…” – avèir chêr, aver piacere.
“… gli amici che ridevano largo così e invece mia madre con una faccia così tirata, che guardava da un’altra parte e rideva verde.” – sforzandosi di accettare l’assurdo! Lei “mio padre non lo trattava molto bene. Non gli diceva niente ma era rustica, e si vedeva che non aveva tanta stima: non si rendeva conto che quell’uomo, finito il suo lavoro, per lui era finito tutto.” – ed era ormai iniziato il recesso: poi dopo fu “trovato morto in officina, col martello in mano, l’aveva sempre detto.” – riposa senz’altro in pace, ora.
“‘Lei non mi lascia mai raccontare alla mia maniera’ e si è chiuso in un silenzio, corrucciato.” – niente paura, che poi gli passa. Probabilmente deve solo fare rifornimento, magari un po’ di vodka.
“… e poi lo sanno tutti che fra russi e calabresi non c’è tanta differenza…” – io lo sto scoprendo oggi.
“Senta, non mi piace dire le bugie. Esagerare un poco sì, specie quando racconto del mio lavoro, e credo che non sia peccato, perché tanto chi sta a sentire si accorge subito.” – ma solo se sta attento!
Il mondo, quest’immenso arcano, “praticamente uno non lo può girare tutto, finisce che uno si riempie di idee balorde su tutti i paesi, magari anche sul suo.” E che dire dell’altro mondo? “… a me le ragazze più sono forestiere e più mi piacciono, poiché c’è la curiosità” – forse perché respirano un po’ strano.
“Ho fatto notare a Faussone che il suo discorso mi sembrava un po’ contraddittorio, e lui mi ha confermato che lo era…”
Stava arrivando “un gnocco di alberi, terra e ramaglie grosso senza esagerare come una casa, e rotolava come una palla…” – una gnocca è una bella donna: segno d’abbondanza. Ma anche il significato di cosa goffa, persona sciocca. Forse dal longobardo knohhil, nodo nel legno, irregolarità, incongruenza, forse.
India: terra di una povertà assoluta: “… ho visto una famiglia che andava a letto centro a un pezzo di tubo di cemento, un tubo nuovo di quelli per le fognature, lungo quattro metri e diametro uno: c’erano il papà la mamma e tre bambini, nel tubo avevano messo un lumino, e due pezzi di tela uno da una parte e uno dall’altra…” – gente a modo suo fortunata e forse lo sa.
“… si poteva incamminare il lavoro…” – it’s a long way to…
“… in tutti i cantoni trova un napoletano che fa la pizza e un biellese che fa i muri…” – e un apolide che si mette a descriverli.
“Ho promesso a Faussone che mi sarei attenuto con la miglior diligenza alle sue indicazioni; che in nessun caso avrei ceduto alla tentazione professionale dell’inventare, dell’abbellire, dell’arrotondare…” – anche io, ogni mattina, mi racconto un sacco di balle davanti allo specchio, al che l’immagine annuisce ogni volta.
“C’è il tipo rancino che…” – avaro, che pare che il mondo stia finendo penosamente (in giornata).
Imparare a saldare significa imparare a compiere un’ardua impresa: “se non fai tutto a regola, e sgarri anche di poco, invece di una saldatura fai un buco…” – e questo te lo può insegnare solo un genitore.
“… ma io era il mio primo lavoro fuori officina…” – un anacoluto è una nuova speranza di vita.
“… avevo un appetito da suonatori…” – e certo che ne hanno, se mangiano una volta al giorno, quando va bene.
“… la funzione sviluppa l’organo…” – è anche il pregio della solitudine, ché induce a scriverne.
L’ingegneressa della diga, “brava come il sole, con due spalle così e il naso rotto come un boxeur…” – una compagna di lavoro ideale. il sole brucia o riscalda, a seconda dell’esposizione.

Il nocciolo dei discorsi di Tino è sempre l’inaudita complessità del lavoro di montatore/saldatore. Non ne parlo diffusamente perché è inutile che accenni a quel che è scritto in modo così mirabile. È come se io analizzassi un saggio di meccanica quantistica, di filosofia cibernetica o di bio-sociologia. Talvolta mi è anche capitato, lo ammetto, ma quelli sono argomenti teorici che permettono di bleffare un po’ (inoltre si confida nell’ignoranza di chi legge). Ma con le montature e le saldature il discorso si fa troppo tecnico. Ci rinuncio. Si legga per intero l’inclita opera di Primo Levi e si capirà quasi ogni cosa.
Il chimico Primo Levi sta pensando che a quel punto della sua vita forse è meglio allontanarsi dal negotium, avvicinandosi all’otium aetermum. Non ha ancora deciso, però… È un “chimico montatore”, e ora monterebbe delle storie che vanno giù dritte e non più molecole che sbandano da tutte le parti.
“Avrei scelto l’altra strada, dal momento che ne avevo la facoltà ed ancora me ne sentivo la forza; la strada del narratore di storie.” – e quali saranno? Quelle che verranno! Fino ad allora aveva cucito molecole, ora voleva collegare “parole e idee…”: meno responsabilità, più libertà. Forse.
Non sarà facile perché “la nostra stanchezza è diversa dalla vostra. Non sta nel filo della schiena ma più in su. Non viene dopo una giornata faticosa, ma quando uno ha cercato di capire e non è riuscito…” – o quando ha capito più di quello che riuscirà poi dopo a esprimere.
All’io narrante capita di “sentire dei crampi allo stomaco”, mentre a Faussone “viene male qui a destra, credo che sia il fegato…” – ma tutto questo per andare innanzi, poiché il male è spesso una dolorosa e disperata ricerca di energia.
“… mi dia da mente…” – dam a mèint! Ascoltami!
Ora è l’io narrante che racconta la sua avventura in quel paese sconfinato (la Russia) dove i due montatori si sono incontrati casualmente e si sono dette tante cose che ormai non ce ne sta più nelle valige e nelle pagine. Tino gli affida un pacco da portare alle sue vecchie zie, che l’io narrante promette di consegnare personalmente non appena tornerà a Torino. Cosa che farà, prima di volare di nuovo in Russia, dove ha ancora aperta una delicata questione da risolvere.
“… le vernici assomigliano più a noi altri che ai mattoni. Nascono, diventano vecchie e muoiono come noi, e quando sono vecchie diventano balorde.” – ora è Tino che ascolta rapito l’io narrante.
Alla fine il chimico risolve il busillis, come farebbe un Commissario Soneri o un suo qualsivoglia collega, purché valente. L’assassino non è un maggiordomo ma una colonia intera di Drosofile, a cui “piace l’aceto acetico che sta dentro l’aceto…” – perché, si sa, tói cajòun a gh ân la só pasiòun, tanto gli insetti quanto gli implumi bipedi.
Tino pretende una maggiore chiarezza: “Finché sono stato io a raccontarle le storie del mio mestiere, lei lo deve ammettere, io non ho mai profittato…” – lo ammetto; non saprei farne un’esegesi ma chiaro lo è stato, e se qualcosa non l’ho capita, è un problema mio.
L’io narrante aggiusta il tiro, ma poi confessa che è stufo di quella vita sbandata da professionista molecolare. Ha bisogno di una serena quiescenza e di pensare alle storie sue. Al che, Tino: “Così lei vuole proprio chiudere bottega? Io, scusi sa, ma al suo posto ci penserei su bene. Guardi che fare delle cose che si toccano con le mani è un vantaggio; uno fa i confronti e capisce quanto vale…”
E il bello della vita è che a volte si sceglie quel che già è stato altrove deciso. Nessuno ci nega il diritto di avvallare il misterioso ordine che giunge dall’arcano Destino. Chissà!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, 1983