“Suite francese – Dolce” di Irène Némirovsky: l’individuo deve soccombere affinché viva la società?
Una bella notizia! Mi mancano una quarantina di pagine e posso testimoniare che questo secondo capitolo de “Suite francese”, la saga amputata, è davvero dolce!
E la signora Angellier, in pena per il figlio ancora prigioniero chissà dove, “‘… i libri di mio figlio’ mormorava ‘tra le grinfie di un tedesco!… Mai! Preferirei bruciarli.” – manco se quel tedesco fosse Goethe o Schiller, e qui forse capisco il perché di quell’ameno autodafé che compì quel crucco di Kien al termine del suo viaggio libresco.
Al momento, però, nulla va buttato, anzi, va difeso dalle unghie altrui: “sì, perfino quei due vasi che avevano fatto dire a Gaston: ‘Se la domestica li rompe mentre pulisce la stanza le aumento la paga’, perfino quelli furono messi al riparo. Erano stati donati da una mano francese, guardati da occhi francesi, spolverati da piumini di Francia – non dovevano essere profanati dal contatto con il tedesco.” – erano parte integrante della grandeur che andava protetta a costo della vita.
Gaston, per la cronaca, è il nome del figlio della padrona, che non aveva messo incinta la moglie, ma una modista di Grenoble, che in, “questo momento”, così problematico, “sferruzza per Gaston, gli fa un maglione, gli prepara dei dolci, gli manda dei pacchi e probabilmente gli scrive.” – questo lo dice lei, Lucile, la moglie che, sapendo di quella tresca, aveva fatto finta di nulla, ma che ora pensa che “se la guerra fosse andata in un altro modo oggi forse sarebbe Gaston a entrare da padrone in una casa tedesca…”. Quel coniuge per modo di dire lei lo sta aspettando, ma senza alcuna ansia.
Lucile era una buona moglie tradita, che “perdonava le infedeltà, lui invece non aveva mai dimenticato le speculazioni sbagliate del suocero.” – che avevano svilito il senso di quel matrimonio. Lei desidera che possa rivedere “la sua camera, le sue pantofole foderate di pelo…” – e tutto quel consegue a un ritorno al proprio domicilio.
Del discorso di una tronfia viscontessa, che meno interessante non può essere, ricordo il passo che riguarda “il nostro caro Maresciallo”, che tanto bene sta facendo al suo paese.
Il di lei marito è ligio al volere dei crucchi che stanno ora comandando, “lui sì che ha consegnato il fucile alla Kommandantur, e con tanti salamelecchi… ‘Prego, signori, vogliate farmi l’onore di…’. Per fortuna io e altri compagni perlustriamo il parco di notte, altrimenti sarebbe la rovina per il paese.” – a parlare è Labarie Benȏit, un contadino grosso e col cervello più esagitato che fine, che ora è molto geloso dell’ufficiale tedesco che la famiglia deve ospitare, in quanto teme per l’integrità sessuale della moglie e il poverello non sa che lei, più che a lui, e più che al tedesco, ha in mente un certo Jean-Marie, che aveva conosciuto per caso, poco prima del suo ritorno a casa. Qualcosa però aveva intuito (anzi, gli era stato detto dalla sorella), per cui ora può ben dire: “Per me, i due sono la stessa cosa…” – e poi chiarisce il concetto: “Quel genere di uomini ben rasati, ben lavati, dalla parola pronta e facile, quelli che le ragazze guardano… loro malgrado… perché sono lusingate di essere scelte e ammirate da veri signori…” – ma lasciamolo al momento a grattarsi la sua fastidiosa rogna.
Anche la casa della madre di Gaston è tenuta a ospitare un ufficiale, un giovane di nome Bruno. Sua nuora, Lucile, mentre gli parla del più e del meno (e gentilmente) non può far a meno di pensare, con mestezza: “Siamo due idioti.”
Lui paragona quella dimora alla “casa di un personaggio di Balzac…” – ah, la grandeur! Ah, la minuterie! Lucile è nata “non molto lontano, ma in un’altra provincia. Una casa nei boschi… Dove gli alberi crescono così vicini al salotto che d’estate tutto è immerso in un’ombra verde, come in un acquario.”
La cosa fa dire al suo nemico ospite (e non sapendo quale delle due funzioni predomini, le metto entrambe in corsivo): “Anche a casa mia ci sono delle foreste” e poi aggiunge: “Grandi, grandissime foreste. Dove si va a caccia tutto il giorno. Un acquario, ha detto… Sì, proprio così.” – com’è dolce questo romanzo!
Si rifà viva la viscontessa, ma a parte un accenno all’insegnamento di Gesù Cristo (“amare i nostri nemici”; o forse Lui parlava genericamente del prossimo?), m’accorgo che tendo a scordare le sue parole. Ma rimembro ora un suo articolo: “Tutto per il Maresciallo!”, in cui lei pare sognare che ogni “francese degno di questo nome non darà più ai suoi polli un solo chicco di grano, non lascerà al suo maiale una sola patata; metterà da parte l’avena, la segale, l’orzo e la colza e, raccolti tutti questi frutti del suo lavoro e del suo sudore, li legherà in un fascio stretto da un nastro tricolore, simbolo del suo patriottismo, e li deporrà ai piedi del Venerabile Vegliardo che ci ha ridato la speranza!” – a parte che, in tal modo, i contadini vedranno deperire i propri pennuti, ho finalmente scoperto perché in tutto il mondo, ciclicamente, sorge il fascismo: per legare fra loro le risorse per poi donarle ai capi!
Intanto, mentre “i loro fratelli, i loro mariti sono prigionieri” alcune femminelle “se la spassano con i tedeschi! Ma cos’hanno in corpo, certe donne!” – un peu de joie de vivre, si franҫaise?!
Alla domanda che Lucile le fa, “ma lei cosa pensa?”, Bruno risponde: “Signora, io sono un soldato. E i soldati non pensano. Mi dicono di andare in un posto e ci vado. Di combattere, e combatto. Di farmi uccidere, e muoio. L’esercizio del pensiero renderebbe la battaglia più difficile, e la morte più terribile.”
Al che lei gli chiede che ne è più dell’“entusiasmo”. E lui gli risponde un’assurdità, non meno infondata di tante altre: “Mi perdoni, signora, ma questa è una parola da donna. Un uomo fa il suo dovere anche senza entusiasmo. E proprio da questo si riconosce l’uomo, il vero uomo.” – e allora io mi auguro di avere il gene xx e non xy, perché dei tuoi due romanzi io mi sto davvero entusiasmando, parola che deriva dal sanscrito dhu, da cui poi: thus, theós, deus, contando sul fatto che tu sei una donna fortemente, e tragicamente, ironica, ma douce Irène.
I due salutano, entrambi con un “Gute Nacht” – e l’accento di lei “fece ridere l’ufficiale”.
Una sarta di buon senso che se la fa con un boche (noi diciamo crucco) le dice: “Ci complicano abbastanza la vita con le guerre e tutto il resto. Fra un uomo e una donna sono cose che contano, queste. Fosse anche inglese o negro e lo trovassi di mio gradimento, me lo prenderei, se potessi. La disgusto? Certo, lei è ricca, gode di piaceri che io non ho…”.
La risposta “Piaceri!” di Lucile è amara (lei ne ha così pochi), per cui l’altra insiste: “Lei è istruita, vede gente. Se non ci fosse l’amore, non resterebbe che andarsi a gettare nel pozzo. E quando dico l’amore, non creda che pensi solo a quella cosa.” – anche ai piccoli gesti che ti fanno pensare al prossimo come a un altro te stesso: una passione che ti incatena all’Altro, finché che quei ferri non si spezzano, con la morte o con la vita.
Ogni tanto salta fuori nei discorsi di Bruno la nostra Commedia Umana: “Non sarà comunque come una volta, quando ci si sposava dopo due incontri in casa di amici di famiglia, come nel vostro Balzac?”
Bruno pronuncia ancora una strana verità: “… sotto certi aspetti il soldato resta bambino, e sotto altri è così vecchio, così vecchio… Non ha età. È contemporaneo delle cose più antiche che sono accadute sulla terra…” – e cita qui un episodio biblico, ma anche i “banchetti dei cannibali, dell’età della pietra…”. E poi si mette a suonare della musica che lei sa riconoscere: “Bach, vero? Mozart?”. Dopo di cui quel dolce nazista le confessa: “Sì. Volevo diventare musicista. E adesso tutto è finito.” – poiché “la musica è un’amante esigente. Non la si può abbandonare per quattro anni. Quando si torna da lei, lei non c’è più.”
I due discorrono appassionatamente, seppure con discrezione. Si amano e non lo sanno. O se forse lo intuiscono, il fatto non pare loro importante. Lui dice che “noi tedeschi crediamo nello spirito comunitario, così come si dice che le api hanno lo spirito dell’alveare…” – dopo di cui le suona ancora “una sonata di Scarlatti.”
Lucile pensa al “povero mondo, così bello e così assurdo…”, ma la musica sembra andare controvento, essendo nemica di ogni conflitto, “… questa musica, questo rumore della pioggia sui vetri, questo lugubre scricchiolio del cedro nel giardino di fronte, questo momento così dolce, così strano in mezzo alla guerra, questo non muterà… È eterno…”.
Lui le propone, forse per scherzo, forse no, di portarla via, al che “‘E di sua moglie e di mio marito, cosa ne facciamo?’ disse lei sforzandosi di ridere.” – ma la risposta non c’è, o se c’è sta soffiando in quel vento di guerra.
In quel momento un provvidenziale “temporale aveva danneggiato ancora una volta la centrale elettrica, il paese era rimasto per qualche ora senza luce e senza radio. La radio muta… che pace…”! E, in questo momento, sto pensando che tu, Irène Némirovsky, sei nata a Kiev, quando quella città era russa.
Un’occasione nuova, che non mi va di riportare, fa sì che, mentre aspettano, i due colombi hanno l’occasione di blandirsi ancora un po’, forse per l’ultima volta. Lei ammette: “… non parlo… d’amore… ma avrei voluto avere un amico come lei… Non ho mai avuto un amico. Non ho nessuno! Ma è impossibile.”
Riparlo ancora solo un attimo della viscontessa, ma solo perché il marito le dice di un “impiegato delle poste, sospettato di appartenere al Fronte Popolare benché avesse ostentatamente attaccato sulla porta della cabina telefonica una fotografia del maresciallo Pétain.” – finalmente l’amabile vegliardo è stato nominato!
Lucile pensa a quel nuovo, dolcissimo sentimento, che la sta cogliendo come si fa come un fiore, e lei è quel fiore. Anzi, non si capisce più chi stia cogliendo che, quando, all’improvviso, succede un fatto terribile che m’impone di andare a letto prima che scoppi il patatrac, lasciando all’indomani la lettura della grana che si sta profilando all’improvviso.
Ora che ho letto tutto il resto, posso dire che è stata una grossa imprudenza (lasciamo stare se se doverosa) ospitare quell’odioso contadino, Benȏit che col suo fucile aveva appena stroncato la vita del povero ufficiale nazista, nonché del suo affezionato cagnone, che erano alloggiati a casa sua, mancando di rendere onore ai sacri doveri dell’ospitalità, e che ora è in cerca di un nascondiglio per sfuggire alla giusta persecuzione degli affranti boches.
Ormai ogni soldato può solo pensare: “Io che vengo accolto in casa, e mi sorridono, mi fanno posto a tavola, mi lasciano prendere i bambini sulle ginocchia… Se domani un francese mi ammazza non ci sarà nessuno a compiangermi e tutti faranno a gara per proteggere l’assassino!”.
Gli altri dicono: “‘Dopo tutto sono come noi’, e invece nossignore, non è vero. Siamo due specie diverse, inconciliabili, eternamente nemiche.” – E no! tót à fîn! Almeno così diceva la mia mamma. Oggi i cattivi sono molto più a nord-est, domani saranno a sud-ovest, quando anche questa cogente e ignobile frottola cesserà di esistere.
Mi viene in mente che la signora Angellier (che per fortuna non mi è suocera) tiene “sotterrate nella sabbia” le bottiglie di “Château d’Yquem”, le quali fanno “parte dell’eredità”, possedendo quel “sacro” che “è destinato a durare dopo la nostra morte.” – e io sto pensando con la giusta riconoscenza al mio caro lambrusco che, per fortuna, occorre berlo entro due anni, prima che sgasi, e che blèşga şò aksé bèin, scivola giù così bene, e che più lo mandi giù e più…
Dice la sempre più greve signora Angellier: “I francesi non si accusano tra di loro.” – ma di diverso avviso è il tenente Bruno von Falk: “Il giorno del nostro arrivo abbiamo trovato alla Kommandantur un pacco di lettere anonime che ci aspettava. Le persone si accusavano reciprocamente di propaganda inglese e gollista, di incetta di generi alimentari, di spionaggio” – l’uomo è uguale dappertutto, mi ha sempre insegnato zia Agatha (Christie).
L’ultima fesseria ricca di verità la dice Bruno: “Ma come paragonare il risentimento di un grande popolo al cieco soprassalto d’odio di un contadino.” – che del resto, nel liberarsi dalla sua pregressa prigionia ne aveva già fatti fuori due, di quei cruccacci, così si vantava con gli amici.
“E poi c’è un’altra cosa, forse stupida, ma che mi indigna profondamente. Perché è stato ucciso anche il cane, la nostra mascotte, il povero Bubi? Se mai scoprirò quell’uomo, sarà per me un piacere ammazzarlo con le mie stese mani.” – in guerra (e in amore) il numero delle zampe non conta.
Un giovinetto tedesco sta ora comprando “un corredino per neonato”, perché la mogliettina lontana ha partorito un pargolo nazista, non si sa se maschietto o una femminuccia (non c’era allora il web).
La Wehrmacht chiede l’ausilio al paese per organizzare la festa d’addio (presto dovrà invadere qualche altra nazione). Alcune collaborazioniste gastronomiche “si affaccendavano intorno al tavolo insieme ai tedeschi: una tritava le mandorle, l’altra polverizzava lo zucchero.” – e se qualcuno diceva “Ce né per tutti, tutti quanti.” – non solo per gli ufficiali, o anche per i soldati, quelle sogghignavano: “Tranne che per noi!”. Allorché “si sentivano saltare i tappi di champagne con allegri scoppi. ‘Ah, canaglie!’ dicevano i francesi, ma senza troppo rancore perché l’allegria è contagiosa e smorza l’odio. ‘E pensare che è il nostro vino quello che bevono…’”.
C’è chi, sarcastico, commenta che “alla radio hanno appena annunciato che sono entrati in guerra anche con la Russia.” – e poi, mormora, “guardando il cielo: ‘Ancora niente pioggia domani; finirà per far male alle piante, questo tempo!’”
Pensando al suo Bruno, Lucile pensa: “È risaputo che l’essere umano è complesso, molteplice, diviso, misterioso, ma ci vogliono le guerre o i grandi rivolgimenti per constatarlo.”
Il mare, quest’atroce ma profondo amico-nemico, “non ci si può illudere di conoscerlo”, se non lo si è visto “nella tempesta come nella bonaccia”.
I due giovani si lasciano così, come… due esseri umani. Lui le dice: “… io la prego, in mia memoria, di aver cura per quanto possibile della sua vita.” – e lei ricambia la preghiera; e ognuno dice all’Altro che l’altrui vita “significa qualcosa” per lui, per lei, per tutti e due. E per chi crede ancora in quel tiepido e dolce sentimento che al momento è un po’ in disuso.
Nella prima Appendice al libro leggo una frase dell’autrice: “Vogliono farci credere che siamo in un’epoca comunitaria in cui l’individuo deve soccombere affinché viva la società, e non vogliamo vedere che quella che soccombe è la società affinché vivano i tiranni.”
Nella pagina successiva ne colgo un’altra: “L’individuo vale solo se ha coscienza degli altri uomini, d’accordo. Ma che siano ‘gli altri uomini’ e non ‘un uomo’. È grazie a questa confusione che nasce la dittatura. Napoleone dice che vuole solo la grandezza della Francia, ma grida a Metternich: ‘Me ne frego della vita di milioni di uomini’.”
Irène Némirovsky, cercherò d’ora in poi di salvarti in ogni modo, tramandando, finché posso, la tua voce che a un certo punto fu stroncata da quegli uomini vuoti e impagliati. Il resto me lo canterai di persona.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Irène Némirovsky, Suite francese, Adelphi, 2009
Info
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