“Suite francese – Tempesta in giugno” di Irène Némirovsky: un giorno duro come una pietra

“Prendi certi scrittori, come Proust: hanno saputo utilizzare le comparse. Se ne servono per umiliare, per sminuire i personaggi principali. Niente di più salutare, in un romanzo, di questa lezione di umiltà inflitta ai protagonisti. Pensa, in Guerra e pace, alle contadinelle che attraversano la strada davanti alla carrozza del principe André ridendo e la prima immagine che ne hanno è quella” – e qui c’è un primo senso, forse il più significativo, che cova sotto le ceneri di quell’incendio che tutti temono ma che tentano ogn’ora di rinfocolare, anche mentre si sta fuggendo come disperati, per salvare la pelle.

Suite francese di Irène Némirovsky
Suite francese di Irène Némirovsky

“… è più che probabile che tutti noi patiremo una sofferenza personale, perché le disgrazie pubbliche sono fatte di una moltitudine di sofferenze private…” è la somma che fa il totale, dice Totò.

“Ciascuno guardava la sua casa con una stretta al cuore e pensava: ‘Domani sarà distrutta, domani non avrò più niente. Non abbiamo fatto del male a nessuno. Perché?’” – e questo è l’interrogativo che ci si pone quando si è vittime del barbaro nemico, non quando ci si professa come orgogliosi difensori della patria. “E contemporaneamente si sentiva sopraffatto da un’ondata di indifferenza: ‘Che importa! Sono solo pietre, legno, materia inerte! L’essenziale è salvare la pelle.” – quando gli eventi diventano tragici, le sciocchezze prendono aria, svanendo in quel Caos.

“L’importante era stringere fra le braccia una moglie o un figlio. Il resto non contava, il resto poteva pure sprofondare tra le fiamme.” – a volte il tuo cagnolino ti pare più sacro della cattedrale dove sono rintanate le ossa del santo: femore più o femore meno, quel che davvero conta è ciò che regna dentro di te.

“Era come se agissero in due tempi, metà nel presente e metà nel passato, quasi che gli eventi fossero penetrati solo in una piccola zona della loro coscienza, la più superficiale, lasciando addormentata e in pace tutta un’area profonda.” – e il tempo, se esiste, pare quasi singhiozzare, tra un tiepido sogno e l’incubo successivo.

“Charles Langelet”: un collezionista di inclite quanto inutili “schegge di bellezza, a volte umili, a volte preziose, che finivano per creargli intorno un’atmosfera particolare, morbida, luminosa…” – e un suo anello riportava “la scritta ‘The thing of Beauty is a guilt for ever’”, che parafrasava un verso immortale: una colpevolezza eterna, un’ennesima bugia, o chiamala se vuoi l’illusione che, come il resto, deperirà quando nessuno più la terrà in conto, frastornato dall’ennesima meraviglia.

Charles parte, non perché ha paura (così dice e non so quanto credergli), ma perché “non posso sopportare questo disordine, queste esplosioni di odio, lo spettacolo ripugnante della guerra…” – essa, svergognata, avvelena anche te ma non c’è modo di dirle di smetterla. Rientra nella categoria delle necessità casuali, che sono state ordinate da un dio meschino alla più tediosa delle creature: l’uomo.

“… ma il suo cuore sanguinava: non poteva portare con sé un certo tavolino da toilette, un vero pezzo da museo” – e chi desidera la descrizione intera del pezzo, dovrà leggere il romanzo, io non gli faccio da spoiler. Se ne riporto la metà è solo perché mi permette di ripetere l’adagio, che più lento non può essere e che non necessita di traduzione, soprattutto in tempo di guerra, ché altre sono le urgenze: tót i cajòun a gh ân la só pasiòun…

“I Michaud”: una coppia di brave persone, che pensano innanzi tutto a recare in salvo “la foto di Jean-Marie bambino…”l’amato figlio che è là fuori, non si sa dove, si spera che ancora cammini sopra il suolo, e che non vi giaccia al di sotto, e che stia guardando l’erba dalla parte più favorevole, e non da quella delle radici. Ai due coniugi non è permesso utilizzare alcun mezzo che non sia quello che un disgraziato nume ha donato loro alla nascita, ché di più non poteva loro concedere: “È un sogno!” – pensano, e intanto “si erano messi in cammino”.

“Gabriel Corte e Florence” – lui è uno scrittore di nome, lei è il suo capitolo meno importante, quello che lui ha meno timore di veder disperso in quell’ameno conflitto. Lui è un tipo sensibile, quando dice: “Credo che non potrò più ingoiare un boccone. Hai visto quell’orrenda vecchia dall’altra parte, con la sua gabbia di uccelli e le pezze sporche di sangue?” – tranquillo, l’appetito ti tornerà quando ne avrai scritto una gustosa novella.

“I Péricand erano in viaggio da circa una settimana: un tragitto irto di ostacoli.”e una solo certezza nel loro animo devastato: “I profughi erano troppi. Troppi i volti stanchi, lividi, sudati, troppi i bambini che piangevano, troppe le bocche tremanti che chiedevano: ‘Sapete dove si possa trovare una camera? un letto?’, ‘Potrebbe indicarci un ristorante, signora?’” – più che gente umana, “somigliava a un branco di animali in rotta.”

Dopo aver donato un biscotto a un bimbetto d’altri, lei dice alla sua Jacqueline: “Sai bene che bisogna dividere quello che abbiamo con chi non ha niente e darsi aiuto a vicenda nella sventura. È il momento di mettere in pratica quello che ti hanno insegnato al catechismo.” – a una donna così non posso che augurare un figlio santo, e sento che il buon Dio provvederà alla bisogna.

“… gli esodi si erano sempre verificati, in ogni periodo. Quanti uomini erano caduti su quella terra (come su tutte le terre del mondo) piangendo lacrime di sangue, fuggendo il nemico, lasciando città in fiamme, stringendosi al petto i figli…”è una ruota che gira, il fuggitivo nocchiero di oggi sarà l’atroce persecutore di domani, magari fra un’ottantina d’anni.

Irène Némirovsky è un’ebrea ucraina convertita al cattolicesimo, che fu internata nel lager di Auschwitz, dove perì il 17 agosto 1942. Suite francese”, e tutte le altre, anche quelle che non videro la luce, furono scritte (le ultime furono, forse, terminate Altrove) in lingua francese. Al momento il di lei spettro è apolide.

“I fuggiaschi camminavano a piccoli gruppi. Il caso li aveva messi insieme alle porte di Parigi e adesso non si separavano, anche se nessuno conosceva il nome di chi gli camminava accanto.” non era per nulla necessario, avrebbe detto Jacques Monod.

Jeanne Michaud, al figlio al momento disperso, aveva insegnato, “fin da bambino a cogliere il lato comico e commovente del prossimo”, che lui definiva “il tuo lato dickensiano, mammina”, ora pensava tra sé e sé che, in un certo senso, la gente li reputava “una coppia di poveri impiegatucci”, ma “in un altro siamo esseri preziosi e rari.” – concetto che chiunque di voi deve condividere, diversamente esca da questo articolo.

“C’erano donne che, in preda al panico, gettavano via i loro figli come pacchi ingombranti e scappavano. Altre, invece, li afferravano e stringevano a sé con tanta forza che sembrava volessero farli tornare di nuovo nel loro grembo, come se quello fosse l’unico rifugio sicuro.” – perché, non lo è?

Jean-Marie, spuntato chissà da dove, pensa: “Quando vola lo sparviero, polli e galline devono sentirsi come noi…” – e teme che anche lui sarà “preso e portato via… e domani, nudo e stecchito, gettato nella terra, non sarò meglio di un pollo…”.

E quelle persone (non mi va di chiamarle povere, né disgraziate, perché sarebbe uno sparar loro addosso) “non provavano una vera e propria disperazione; era piuttosto un rifiuto di comprendere, un attonito stupore del tipo di quello che si prova dopo un brutto sogno, quando piano piano si emerge dal sonno, si avverte che il giorno è vicino, tutto l’essere tende alla luce e si pensa: ‘È un incubo, adesso mi sveglio.’” – che il meglio è passato, ora incombe sopra di me la realtà!

“La vita era shakespeariana, mirabile e tragica.” – e il palcoscenico è incavato a forza dentro di noi!

Hubert, il figlio non del tutto cresciuto dei Péricand decide di andarsene, da quel vero uomo che pretende di essere: “andava incontro la suo destino come un giovane dio carico di doni.” – voleva dire la sua al mondo, con la propria pur giovane voce, poverino. È la sua scelta, accettiamola. La prima cosa che dice a un soldato sarà un timido: “… vorrei combattere.” – ma colui a cui si rivolge non è più in grado di reagire con stupore o emozione, bensì con il solo fatalismo.

Gabriel Corte teme di aver perso i suoi manoscritti (insieme all’auto). A chi gli ricorda “che c’è gente che ha perso molto di più”, lui dà dello “zoticone” – e quando poi li ritrova, si sente rinascere, forse anche indeperibile e immortale, l’ennesimo miracolo che accade in quei tempi cupi e prodigiosi, in cui “perfino i giovani contadini stavano perdendo i loro bei colori: illividiti dalla fame, neri di polvere, i capelli scarmigliati, gli occhi arrossati, sembravano improvvisamente più vecchi, più maturi, con un’aria ostinata, dolente e dura.” – pronti a essere raccolti e consumati.

Che dire dei ragazzetti invasori, se non che “… immergevano la testa in secchi d’acqua fredda attinta al pozzo. Si saziavano, si rimpinzavano di tutto il ben di Dio della terra…” – e mi domando del perché di questa D maiuscola. “… erano scampati alla morte, erano giovani, vivi e vincitori!”.

Irène Némirovsky
Irène Némirovsky

Charles Langeletpensava alla Cattedrale di Rouen, ai castelli della Loira, al Louvre. Una sola di quelle sacre pietre valeva mille vite umane…” – ché in tante erano servite per costruirle. Si salvi quel che si può, ognuno badando alle sue priorità. E nessuno pensi più agli altri, che a un certo punto cessano di esistere. E questo vale per tutti noi, non solo per quel fatuo monomaniaco.

Philippe Péricand, il figlio prete, “non capiva come avesse potuto amare quel gioco crudele” – che lo divertiva quando da ragazzo se la prendeva coi pesciolini dei rivi, e similmente io penso a quale opinione avessero di me le cetonie dorate che mi divertivo a infilzare su un cartoncino, simulando in tal modo di creare il mio piccolo museo casalingo. Egli ora sta custodendo l’anima e il corpo di alcuni ragazzi, due dei quali lo ammazzano come un cane, poco dopo che egli aveva detto al suo caro: “Gesù, sei qui, eccoti di nuovo. Restami vicino, adorabile Amico!”

Con “la faccia massacrata da pugni e calci”, quel sant’uomo “non annegò ma rimase imprigionato nella fanghiglia. Morì così, nell’acqua fino alla cintola, la testa rovesciata all’indietro, l’occhio maciullato da una pietra.”

In quell’epoca, “metà della Francia cercava l’altra metà”. Ai Péricand era morto il nonno (se l’erano scordato durante la fuga) e ora quel figlio prete. E tanto si temeva per la sorte di Hubert, per cui la disgraziata mamma “ricreava il passato, le sembrava” quasi “di aver mandato il figlio in guerra”. Ma quando questi appare dal nulla, più vivo che vegeto, lei non può che esclamare: “Ah, mio piccolo Hubert, io lo sapevo che non eri morto! Sei troppo birbante!”.

Pensando al fratello morto, Hubert dice: “che cosa li si manda a fare quaggiù? Se è per noi, per redimere i nostri peccati, è come offrire una perla in cambio di un sacco di pietre.”

Questo primo libro “Tempesta in giugno” della serie di cinque che non ci fu, Irène l’avrebbe dovuta intitolare Duro, ma Dolce sarà il titolo del secondo. Un pubblicano ci insegnò che non bisognava gettare le perle ai porci[1], ma nemmeno le pietre. I porci vanno semplicemente sgozzati, tagliati a fette e divorati, prima che loro facciano con noi.

A proposito di gioielli, ecco una splendida proposizione: “… ci sarà intorno a tutto questo una rete di menzogne che arriveranno a farne una pagina gloriosa nella Storia di Francia. E quanto si daranno da fare per scovare atti di eroismo e di abnegazione… Dio cosa non ho visto”non ho scorto tanto anime, quanto corpi bramosi di nutrimento o anche solo di “un bicchier d’acqua”. I morti della guerra erano “uccisi due volte perché erano morti per niente.” – il che vale per ogni popolo umano.

Corte affermava “che bisognava ripristinare nella gente il senso del dovere e della grandeur…” il cui contrario è petitesse. Molti patrioti questo temevano: “che la Francia avesse perso il senso della grandeurmentre della petitesse solo i poeti e i bipolari amano occuparsi.

Un problema ogni volta risolvibile è: “la guerra totale, la guerra totale…” – e il conseguente “panico, il caos, la fuga.” – quisquilie che si annullano insieme alla vita di pochi milioni di umani, per il bene di chi rimane a pensare alla grandeur.

“Quando scoppia il temporale non te la prendi con nessuno, sai che la folgore è prodotta da due polarità elettriche, le nuvole non ti conoscono.” – troppo grandi rispetto a te. “A un periodo di calma segue la tempesta che ha il suo principio, il suo punto culminante, la sua fine, che è spazzata via da altri periodi di tranquillità più o meno lunghi! Disgraziatamente. Siamo nati in un secolo di tempeste, ecco tutto. Ma si placheranno.” – forse. Occorre però farsi giornalmente l’augurio: “Altre ventiquattr’ore in cui non è successo niente di particolarmente brutto, grazie a Dio! Aspettiamo domani.”

Il romanzo finisce in modo romantico. Anzi, no. Potrebbe farlo, ma la mancanza di pace lo impedisce. Giunge a casa un contadino, a cui era stata promessa una ragazza di nome Madeleine. Si sposano. Poco prima la stessa aveva quasi litigato con Cécile, la sua futura cognata, perché entrambe avevano messo gli occhi su…

Ma che importa, oramai: “Quando un colpo di vento più forte degli altri scuoteva la porta le vecchie dicevano: ‘Gesù, Giuseppe e Maria, aiutateci voi!” – voi non foste meno dispersi di noi!

“Il mese volgeva alla fine e la terra era gelata, ghiacciata sin nel profondo. Come lei…” – e sto parlando di una certa Luoise, “… Che raffiche! Che furia! La tempesta avrebbe fatto sicuramente volar via” – questo piccolo romanzo, a cui ne seguirà un altro solo, dei cinque previsti, e mi auguro sia davvero un po’ meno aspro, più Dolce.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Irène Némirovsky, Suite francese, Adelphi, 2009

 

Note

[1] Vangelo secondo Matteo ed esattamente nel capitolo 7, versetto 6: “Nolite dare sanctum canibus, neque mittatis margaritas vestras ante porcos, ne forte conculcent eas pedibus suis, et conversi dirumpant vos“, ossia: “Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino“. Il brano prosegue con: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto.”

 

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