“Genetica del cane dalle origini al futuro” di Denis Ferretti: viaggio nella storia delle razze canine
A Reggio Emilia Denis Ferretti è conosciuto principalmente come il più eminente grammatico della léngua arşâna.
Lo conosco per averlo incontrato in alcune occasioni, ma soprattutto per le sue chiose accurate, chiare e semplificatrici, con cui sa istruire sui social chiunque gli ponga quesiti di tipo lessicale e fonetico, nonché glotto-geografico: egli sa come si dice la tal cosa a Reggio (fuori e dentro le mura), a Nuvalèra (ma anche nella frazione di San a Bernardino di Novellara), in alta montagna, a Buşâna e a Culâgna, come presso il Po, a Burèt e a Barsèl, uno che sbagli una pronuncia e un accento, un po’ ironizza, ma poi ti strizza l’occhio, come per dirti: dai ce la puoi fare!.
Di lui ho sempre ammirato, una competenza che si veste di un’estrema gentilezza, che non gli impedisce talvolta di usare un’ironia sferzante che non è mai offensiva: alla fine si può definire un ottimo maestro, preciso, senza essere petulante; uno che, pur donandoti la consapevolezza della tua ignoranza, ti consente di allargare la tua conoscenza.
Detto ciò, vado oltre e voglio parlare di questo saggio Genetica del cane dalle origini al futuro. Denis Ferretti non è uno specialista, ma come si dice, si vede che sta studiando coscienziosamente l’argomento da anni.
Già nelle prime pagine sento di dovergli un numero notevole, senza che risulti eccessivo, di informazioni. Scopro tra l’altro una banalità, di quelle che sono così semplici che si finiscono per saltarle a piè pari, senza mai percepirle del tutto: “Ciò che quindi in natura è un handicap, nella vita domestica può essere un vantaggio.” – e questo è il motivo per cui una modificazione genetica causata dalla domesticità “riducendo l’udito costringe il cane a concentrarsi sull’olfatto”.
Sono state teorizzate varie leggi collegate alla genetica, complesse e che paiono divergere fra loro, ma che, sommando i loro effetti, producono come risultato un’evoluzione che consente a una specie animale di adeguarsi all’ambiente in cui vive.
Leggendo il saggio, scopro quel che già credo di sapere: il cane è un derivato dal lupo, anzi, meglio: sia il cane che il lupo attuale derivano dal lupo che c’era una volta. Quattro animali, lupo, coyote, dingo e sciacallo, sono stretti parenti del cane, e tra loro incrociabili, e possono procreare figli fertili, e non sterili come il mulo e il bardotto, figli di asini e di cavalli: “L’indagine condotta su un grande campione comprendente numerose razze canine ha rivelato che tutti i cani presenti sul pianeta si riconducono a quattro linee di sangue diverse.”
Il saggio di Denis è assai chiaro e divertente, per cui rimando direttamente alla sua lettura chi ne vuol eventualmente sapere di più. A me interessa ora indicare la logica sottesa e al significato finale a cui esso certamente condurrà. Altro pregio dell’autore: per lui la conoscenza non è mai vana, nel senso di vuota e fine a sé, ma sempre rapportata alla realtà e foriera di continui sviluppi.
Mi fa un po’ sorridere e al contempo pena pensare che è stato attestato che il lupo consideri la femmina del cane come una preda da spolpare, mentre talvolta, quando le va, quando la necessità glielo impone, alla lupa non dispiace incrociarsi con un cane maschio: dopo di che condurrà una vita di canide-madre, e i suoi figli mai conosceranno il loro canino genitore. Gli animali femmine rimarranno sempre un affascinante mistero per me (e io per loro, spero e temo). Probabilmente all’altra metà del mondo interessa più la prole che il consorte; ma non sempre, dai! Sto pensando alla mia Phoebe che vive nella costiera amalfitana, la cui madre era una yorkshire, il padre un beagle, di taglia non certo enorme, la quale è un’ira di Dio quando sbraita (allucca si dice colà) dal terrazzo in direzione della Piazza, avendo forse annusato qualcuno che non le aggrada, e che trema come una foglia allorché sgambetta ai piedi della Cattedrale.
Il saggio di Denis offre una mezza spiegazione: “la taglia ridotta, per esempio, ha come conseguenza un carattere meno sicuro di sé, più sospettoso.” – e questa è la regione per cui i cani da guardia hanno spesso una “taglia ridotta”, essendo “specializzati nella funzione di avvistatori”, costando anche meno di quelli grossi, poiché hanno “esigenze alimentari più ridotte”. Un mio passato quale portalettere testimonia che più erano piccoli, più erano abbaianti: cùrti e male ‘ncavati, dicono, sempre ad Amalfi. fui anche morso una volta, ma la padrona disse che era colpa mia: andavo troppo veloce. Infatti la mia razza è un po’ troppo ipercinetica.
“L’animale domestico di fatto si ferma a uno stadio non completo in quanto dipende totalmente dall’uomo per quel che riguarda l’alimentazione, così come i cuccioli dipendono dalla madre.” – e la madre dai cuccioli. Un mio sardonico amico dice che, quando una coppia adotta un cagnolino, significa che è cominciato a calare il brivido dell’innamoramento. Un rapporto affettuoso in genere si basa su un mutuo cercarsi e su un vicendevole dipendere l’uno dall’altro. Spesso si mette su il cane all’indomani di una vedovanza o di una qualsivoglia separazione, quando si ha un disperato bisogno dell’Altro, anche se quadrupede.
Denis riprende uno schema di Lorna e Raymond Coppinger, secondo cui i cani sono suddivisi in cinque stadi. Per Phoebe sono indeciso fra il primo (ha un viso un po’ infantile, ma non troppo; vive “il territorio come ‘tana’”, anche se, in presenza di sconosciuti, fugge via come una peccatrice; e il secondo (ama il gioco, usando molto la bocca ed è assai curiosa e diffidente).
Ci sono tante forme intermedie, avverte l’autore, come per gli uomini, dico io, e poi propone un modo interessante di classificare un cane in base a un “quadrante di un piano cartesiano”, col “numero di mutazioni di tipo dolicomorfo sulle ascisse e il numero di mutazioni di tipo brachimorfo sulle ordinate”, permettendo di individuare in tal modo ogni tipo di cane. Ignoro se questo possa valere anche per noi bipedi implumi.
Ora cominciano le note dolenti: “La svolta verso la cinofilia moderna e verso una nuova concezione di razza però è arrivata con l’istituzione dei primi alberi genealogici.” – e qui casca il molosso.
“Dal punto di vista burocratico il cane è di razza solamente se è in possesso del certificato di origine che ne attesta la provenienza da genitori della stessa razza” – un progetto, anche se il paragone può parere scandaloso (ma non vuole esserlo), con il Lebensborn nazista (senza voler mancare di rispetto a nessuno; lo scopo comune è analogo: mantenere pura una razza, evitandole gli incroci con le altre).
Ora Denis parla del furnishing: “la comparsa di pelo più lungo su tutto il corpo, compresi faccia, muso, lato anteriore degli arti e tutte le altre zone che nel tipo ancestrale si presentano a pelo corto.” – il che crea la necessità di una parrucchiera per cani (com’è capitato a metà maggio a Phoebe). A me tutto questo pare assurdo ma, come si dice, è la moda…
I primi bassotti erano già presso gli Egizi ma erano un po’ più alti e slanciati. Le forme attuali possono vivere solo se sfamati dall’uomo, essendo molto rallentati nei movimenti. E questo fa meditare. L’uomo bada più ai propri bisogni estetici che al bene del resto della fauna. This is the problem!
Una volta v’era la tendenza a creare nuove sotto-razze di cani, giocando per esempio sul colore: “Ogni zona ci teneva di avere la propria razza.” Poi è arrivata la moda dei “cani nudi”, senza pelo. “Gli omozigoti non possono sopravvivere, quindi di fatto è impossibile escludere i soggetti con pelo dal patrimonio genetico di razza.” – dopo anni di occultamento di tale miserevole fatto, “oggi che la verità è venuta a galla tutti gli standard ammettono la varietà con pelo.” – altro motivo per chiedersi se l’uomo compirà sempre queste azioni insensate, spinto da dei criteri estetici che finiscono per devastare la logica della natura. Il che mi fa ricordare lo sdegno con cui un conoscente (condomino, cognato, cugino?, non ricordo bene) recriminava sul fatto che le modelle desnude sulle riviste fossero (poco) opportunamente depilate: non ci sono più i peli pubici di una volta, e anche qui si tratta di una moda e poco più.
In un’Europa unita capita che due grandi nazioni come la Francia e l’Italia entrino in conflitto (non ancora armato) per proteggere la propria idea di confine sul Monte Bianco; similmente fra italiani e spagnoli è in corso un’aspra tenzone per la primogenitura del bracco: chiamiamolo, per non sbagliare: neolatino a e neolatino b. al che ognuno vorrebbe rivendicare l’a, immagino.
“Il cane poliziotto ideale ha un solo obiettivo: obbedire a ordini, anche complessi, per ricevere un premio.” – un po’ come capitava al minatore Stachanov.
Alcune sotto-razze di cani da slitta non sono riconosciute “dalla FCI” e non possono partecipare alle gare ufficiali organizzati dai cinofili ortodossi. Che pena, non tanto per i cani, bensì per gli affezionati e orgogliosi padroni!
I cani per uso alimentare sono ancora allevati in Asia: in essi “l’angolazione assente del posteriore è invece stata incoraggiata in quanto utile all’allevamento”: non potendo compiere grandi salti, non c’era “bisogno di costruire strutture costose”: ‘sto fatto, non so perché, mi reca ansia.
Tutto questo “proliferare di razze e la presenza di diverse tipologie nello stesso territorio ha favorito il proliferare di una varietà sempre meno omogenea di meticci…” – di bastardi sempre più diversi, per intenderci. Del resto è quello che è capitano a noi umani: è sempre più facile che un reggiano s’incroci con un’immigrata, o viceversa che una resdòra arşâna s’incroci con un immigrato. Fra qualche anno nessuno potrà dire: l ē una taròuna (oppure na maróca), però la gh à vòja ed lavurêr. Ormai molti meticci sapiens fanno parte dei nostri parenti e affini di primo o secondo grado.
Per i cani, “dopo un secolo di allevamento a registri chiusi la teoria della ‘razza purissima’ inizia a mostrare i suoi limiti. Molte razze hanno iniziato a mostrare poca robustezza, longevità ridotta e problemi di salute dovuti a malattie ereditarie…”, specie se ognuno cerca di “fissare una propria razza con caratteristiche tipiche riconoscibili come un proprio ‘marchio’”, agendo “in un’ottica in cui il cane più è ‘puro’, più è prezioso”. Inoltre, “non può esistere che in una razza ci siano due esemplari tipici, uno con muso più lungo dell’altro. Uno dei due dev’essere per forza difettoso.” – enten-eller, aut-aut. Ma non so se Kierkegaard sarebbe contento di questa citazione, forse fatta a sproposito.
La logica che colgo in questa forma di razzismo canino (inteso nel senso di culto esagerato per una razza) è simile a quella che ravvisai anni fa in un paesino del Cilento, dove la famiglia più titolata e possidente rimaneva tale favorendo i matrimoni fra cugini e fra doppi cugini, con conseguenze non sempre brillanti, anzi, talvolta psicologicamente problematiche.
“La consanguineità, come abbiamo detto, è un’arma a doppio taglio. È una scorciatoia per arrivare in pochi anni a livelli di omozigosi che nelle razze naturali sono ottenuti con secoli e secoli di selezione e per questo è una grande lusinga per gli allevatori che vorrebbero quanto meno prima di morire, vedere risultati tangibili del loro lavoro.” – quando l’egoismo umano tende a contraddire le regole della natura c’è poco (di bello) da aspettarsi.
Riporto (leggermente scuotendo la testa) la “formula del Coi (coefficiente di inbreeding)” – e qui colgo l’occasione per sottolineare al mio maestro di grammatica arşâna, che ha forse ragione lui quando dice che nel nostro dialetto davanti a b e p ci vuole la n): F X = S [(½) n + n’ + 1] (1+FA); poi però l’autore mostra che essa è di una lettura più facile di quello che pare a prima vista: “basta contare il numero di generazioni che separa i genitori dall’ascendente comune ed esprimerlo in termini percentuali…” – una cavolata per il nipotino omozigote di Godel.
Riporto solo una frase di un capitoletto: “Spesso si creano di fatto delle cosiddette ‘razze nelle razze’, anche solo a seguito delle emergenti rivalità tra allevatori.” – brrr…! da quel che ho capito si tratta soprattutto di sogni di gloria da parte di alcuni allevatori.
Leggo ora un capitoletto dove per cani l’autore intende cani di razza; riporto solo l’affermazione che ho meno gradito: “La funzione principale dei cani è ora quella di riprodursi per vendere cuccioli pregiati e richiesti”.
I cani selezionati sono così perfetti “che col tempo anche i giudici hanno finito per abituarsi alla presentazione impeccabile che oggi è considerata un requisito irrinunciabile per il successo in un expo…” – per cui per far vincere i propri campioni “sono arrivati a curare in modo maniacale e sempre più esasperato” – un po’ quello che succede nei talk show televisivi: tutti debitamente preparati, ma a esser chiamato più spesso è quello che ogni vota garantisce una più esaltante parata.
Pochi sono interessati a capire “che l’allevamento moderno rappresenta un piccolo frammento della storia del cane”. E anche di quella umana, facendo parte di questa nostra eccessiva società dove la perfezione a cui si mira è di tipo esteriore e non psicologica e culturale.
L’autore, nell’esaminare certi paradossi riguardante i tentativi, per lo più illogici e esagerati, operati nel tentativo di risolvere alcuni problemi legati all’eccessiva selezione artificiale (cioè innaturale), compie un atto di mirabile coraggio che potrebbe causargli delle critiche. Gli ricordo un proverbio cilentano: chi rice a verità vol esse accisu, che non credo necessiti di traduzione, e che è ovviamente una frase da intendersi in senso allegorico.
“Alle spese di iscrizione sempre più elevate si aggiungono tutte le altre che un tempo erano evitabili e oggi non più: toelettatura, handler professionisti, permanenze in albergo…” – e chi più ne ha più ne metta.
Gli allevatori professionali e quelli mediocri puntano principalmente al valore economico del cane. Quello “etico e scrupoloso lavora in perdita e fa la figura del ladro.” – facendo pagare in modo equo il suo lavoro, se ben intendo. Risultato: “il cane di qualità diventa sempre di più un ‘bene di nicchia’.” – in un mondo dove i non intenditori censurano (specie sui social) tali biechi razzismi canini, beatificando invece i meticci.
“L’allevatore etico non è quello che cambia i cani come figurine alla ricerca del soggetto perfetto, ma quello che cerca di ottenere il meglio dai cani che ha…”.
Leggendo delle varie malattie dei cani, m’inquieta un po’ la “ipomielinogenesi”, che dà un “tremore congenito”, specie “quando il cane è eccitato.” – e sto pensando alla mia Phoebina.
“Il modello ‘non comprare, adotta’ è eticamente meritevole, ma presuppone un contesto di non eticità.” – essendo “possibile solo in un contesto dove c’è una vasta scelta di cani disponibili per l’adozione, dove ne adotti uno per lasciarne cento.” Ognuno è tenuto ad adottare quel che riuscirà poi a gestire. Un disoccupato cronico riesce a malapena a sfamare sé, immaginiamoci un mastino inglese. Non si deve nemmeno pensare che qualsiasi “cane possa vivere tra appartamento e parchetto, passeggiando al guinzaglio col cappottino…” – e qui sto pensando sempre a te, Phoebe mia.
Quando un libro m’appassiona, io finisco per dare del tu (dal tè as dîş a Reş) all’autore, fosse anche Goethe o Lessing. Sì, Denis, si nota benissimo che il tuo “cuore pende a favore della cultura del cane di razza, ovvero a favore della selezione oculata e non della selezione causale”, senza le contraddizioni in cui la prima è stata realizzata fino a oggi, e che tu hai enumerato una a una.
“La storia delle razze locali ricorda in un certo senso la storia dei dialetti, dove la razza riconosciuta con lo standard ufficiale sta alla lingua nazionale, come la razza locale sta al dialetto” – come diceva quel tale (Einstein), tutto è relativo e come diceva quel tal altro (Eraclito), panta rei. Di razze ce ne sono tante, occorre soltanto riconoscerle tutte, senza cercarne delle altre, almeno per il momento. Questo è il tuo pensiero, che sento di apprezzare.
I cani sono così presenti presso le nostre famiglie che si può certamente affermare che, se l’umanità è quella che è, il merito e il demerito va anche a loro (e questo vale anche per la canità). Le due specie di mammiferi da millenni si stanno influenzando grandemente l’un l’altra, in stretta simbiosi abitativa ed emotiva. Non scordiamoci però che è sempre l’uomo che pretende l’ultima parola (dopo aver ascoltato la moglie, magari). Occorre poi, tu suggerisci, pur usando altre parole, pensare alla razza canina, e non solo a quella del tuo aspirante campione. Parôli sânti, direbbe mamma.
Denis, agli ultimi consigli che dai, ne aggiungo uno io. L’unica trasmissione che guardo (non sempre, e non tutti gli anni) è Amici. Anni fa ognuno ballava, cantava e recitava a prescindere dalla propria specializzazione. Alla fine veniva proclamato vincitore il concorrente più completo, anzi, quello che più bucava lo schermo, essendo le votazioni finali aperte all’intera platea di telespettatori. Una cosa simile si potrebbe concepire per le gare di cani: verificare la bellezza, la purezza, la simpatia, l’abilità, nonché la capacità d’improvvisazione dei concorrenti, attribuendo la responsabilità del voto complessivo a una giuria composta da gente non necessariamente super-esperta e non rigidamente legata a certi ferrei e un po’ arrugginiti canoni.
La lettura del tuo saggio è stata rilassante e al contempo intrigante. Complimenti anche per la foto che spicca in quarta di copertina: tu e la tua piccola batuffolina pelosa e candida siete bellissimi. La cosa che più mi fa impazzire è quell’assurda e sbilenca cravatta rossa che uno di voi due esibisce con orgoglio. O forse, in quel momento non ti ricordavi più d’averla indosso?
Un difetto dell’opera? Manca di un indice analitico delle razze citate, che un po’ m’hanno fatto girare la capa in una specie di sindrome di Stendhal, ma forse no, forse va bene così. Il tomo è breve e ben ordinato. Se serve riuscirò lo stesso a consultarlo, quando e se servirà.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Denis Ferretti, Genetica del cane dalle origini al futuro, Antonio Crepaldi Editore, 2020