“I fiori blu” di Raymond Queneau: solidali antagonisti che s’alternano sul campo
Ricordo come fosse ieri la telecronaca di un incontro di tennis a Wimbledon tra Jimmy Connors e Roscoe Tanner, il bombardiere di Chattanooga, probabilmente il più grande battutista (non comico) di quello sport. Suoi erano i missili vilissimi (palindromo) in grado di trafiggere chiunque, anche Jimmy, che nei primi set scuoteva la testa perché temeva di non saperci venir fuori. Ma poi, a poco a poco, ci prese la mano, riuscì addirittura a strappargli il set della battuta e finì per vincere agevolmente.

Ora io devo affrontare da solo un doppio di autori che sono ai primi posti del ranking mondiale, quel Raymond Queneau che risultava ostico finanche a Eco, altro immenso tennista delle parole, e del suo traduttore Italo Calvino, la cui prosa mista d’arcano e d’essoterico, non si capisce mai quanto la si è capita.
Comincio la presente reazione dopo aver concluso la lettura del capitolo IV. La vicenda data per la precisione al “venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno”.
Ci sono tutt’intorno etnie d’immigrati bellicosi: “Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I Normanni bevevano calvadòs.” Ho qualche dubbio sull’origine dei Saracineschi, si dice però che siano tipo chiusi nel loro mondo e non guari invadenti.
Il duca “scelse tra i palafreni il suo roano favorito, chiamato Demostene perché parlava, pur col morso fra i denti.” Il suo padrone lo chiama “mio buon Demò”, Raymond lo cita invece come Sten. Per quanto si sappia la sua oratoria equina poco aveva da invidiare a quell’ateniese, che era figliolo dell’omonimo demo di Peania. Al suo passaggio, con in groppa il nobile padrone, mentre questi “perseverava nel silenzio”, egli “continuava a ciarlare allegramente e lanciava frizzi a quelli che lo guardavano passare, i Celti con aria gallicana, i Romani con aria cesarea, i Saraceni con aria cerealicola, gli Unni con aria univoca, i Franchi con aria sorniona, i Vandali con aria vigile e urbana. I normanni bevevan calvadòs.” – coerenti al loro passato e, si presume, all’incipiente futuro. Senza quella che è detta soluzione di continuità, (ma solo dopo che “il Duca mangiò copiosamente, andò a dormire, dormì di buon appetito.”) compare in scena “Cidrolin” il quale “abitava una chiatta ormeggiata nei paraggi d’una grande città.” – uomo solipsistico e immoto anziché no: “Scorticando le zampe della bestia con lo schiaccianoci, Cidrolin disse a Cidrolin: ‘Mica gran che, mica gran che; a far da cucina Lamelia non imparerà mai’.” Questo giudizio riguardava “una aragosta non troppo fresca con una glauca maionese” Se ne deduce che sia il Duca che Cidrolin (in prima battuta avevo scritto erratamente Grignolin) preferiscono essere serviti che servire.
Nel capitolo II, il re dice al Duca che sta preparando l’ennesima crociata. Amo la singolare risposta del subalterno: “M’attira poco.” Di poi, dopo che il Re per invogliargli gli aveva promesso di sbarcare a Cartagine, egli non può che così esprimere il suo scarso entusiasmo: “M’attira ancor meno.” E seguitano battute salate, la più bella delle quali, a fronte della richiesta del sovrano se non gli garberebbe “sbudellare il Mostanser Billah, egli eroicamente sa replicar: ‘Che si sbudelli per conto suo, sire, è la mia ultima parola’.” – se accadesse in effetti che i nemici facessero in massa harakiri, la vittoria sarebbe indubitabilmente assicurata.
La vil plebe lo nomina in ogni modo, vada per tutti un “lurida checca”, e il Duca con la sua eroica Durlidana non può esimersi dal trafiggerne a decine, c’è chi dice “duecentosedici”.
“Intanto che gli pulivano i vestiti, il Duca si crogiolava nell’acqua calda, e ci s’addormentò.
Chiuso il portello dietro di sé Cidrolin andò a guardare se qualche scritta deturpasse lo steccato che separava dal viale il pendío sopra alla chiatta.”
Nel di lui (Cidrolin) dialogo con un passante colgo en passant il passaggio più eufonetico: “potrei pescare se pescassi ma pescare io non pesco.”
Essenziale: “L’essenza di finocchio e l’acqua naturale, il litro di rosso e il vasetto di senape attendevano Citrolin.”
E poco innanzi: “Cidrolin sospira e mormora: ‘Anche questa l’ho in quel posto’.
‘Che si mangia nella vostra taverna di lusso?’ – domanda il Duca D’Auge.”
I due tipi scompaiono ognuno al comparire dell’Altro, Castore e Polluce, ma non so chi è chi. “Il duca continuò in questi termini: ‘Primieramente, taverniere, prenderò un bicchierino d’un liquore effratico, per esempio quello che si ricava dalla fermentazione dell’essenza di finocchio. Saresti in grado di servirmelo?’” Io non sono buono a confezionarlo, una mia consanguinea sì, dopo che le ho recato, sul finire di ogni estate, gli steli pixuntiani di quella pianta selvatica.
Dialogo che è tratto dal capitolo III:
“È una voce che corre…
E allora mi ho permesso…
Mi sono permessa.
Mi sono permessa? Però… l’ausiliario del verbo transitivo…
E lei ci crede ancora? Così come crede alla servizievolezza e premurosità dei miei compatrioti? Signorina: debbo crederle credula?” – ‘Sto dire non si spegne qui, ma lo rimando (che è ogn’ora colà, a pagina 27) a chi intende sorbirlo in toto.
Cidrolin “andò nel quadrato a guardar l’ora, e in conseguenza di questo esame tornò a stendersi sulla sedia a sdraio per portar a termine la siesta interrotta. Quando riaperse gli occhi, scorse attorno a sé tutto quel che intorno a sé aveva l’abitudine di vedere, le mura di camera sua, la stretta finestra che le dava un po’ di luce, e, coricato ai suoi piedi su un fastello di paglia, il fido paggio Mouscaillot circondato da cani che rispondeva ai nomi di Taïau, Taïo, Thaillault, Allalì, Eccetera. Lo spettacolo familiare rinfrancò il Duca, che, alzatosi, svegliò tutte le sue creature a suon di pedate, provocando gemiti ed abbai.” Chiedo: guaì anche Eccetera o il suo ringhio era sottinteso?
“Il cappellano Onesiforo Biroton era un prete del clero d’assalto.” E il Duca gli fa: “Ascoltami bene, Onesiforo, dimolti pensieri il mio animo alberga che ora nelle orecchie vado a mescerti.” E gli pone i tre vitali quesiti: “… primo, cosa pensi dei sogni; secondo, cosa pensi del linguaggio degli animali; terzo, cosa pensi della storia universale in generale e della storia generale in particolare. Son qui che ascolto.” La risposta alla prima è: “… c’è due specie di sogni, gli uni vengono da Dio, gli altri dal Diavolo.” La differenza è data dalla credenza che uno stia in alto nel cielo e l’altro a macerarsi dabbasso nel fuoco. Mai nessuno che li giudichino in società d’accomandita semplice, in cui il più astuto mette il capitale e i più destro la fatica. In quanto alla seconda, si parte dal concetto che non si sa se anche il mondo animale sia stato coinvolto nella caduta adamitica, per cui, se tanto mi dà tanto, poiché “non presero parte alla costruzione della torre di Babele, nulla vieta ch’essi si comprendano tra loro” – e il tertium subiecto? non datum (finora).
Nel capitolo IV, “Lamelia si trovò scagliata fuor dal pelago attendista come un cespo d’alghe su una spiaggia di Normandia.” – che a uno vien la voglia di emigrarci per un weekend al fine di verificare cos’abbiano tanto di diverso da quelle di Riccione.
“Cidrolin s’accigliò, poi si disaccigliò per finire il bicchiere, poi si riaccigliò intensamente.” Poco oltre, “tornò a stendersi sulla sdraio e si rimise a guardar lontano.” – là, dove “apparve un distaccamento della real guardia celere…”
Il Duca riceve la notifica di una multa regale (io ne acquisii una un paio di dì fa, assai meno inclìta, proveniente dal Corpo di Polizia Municipale dell’Unione Val d’Enza), per via del suo diniego di partecipare a quel catomestótt (troviamoci tutti, spiego cortesemente) in terra araba. L’araldo gli domanda, costernato, come mai non voglia “strappare il Santo Sepolcro dalle mani degli infedeli”. Al che il Duca dice: “Ma son sempre fregature, cocco mio! Sempre lo stesso brodo: bouillon freddo di Goffedo di Buttiglione. Non ci crede più nemmeno il Santo Padre. Fra poco faranno duecent’anni che ci si scalmana per riprenderlo, ma nelle mani degli infedeli c’è e ci resta, ‘sto sepolcro.” E poi gli chiede perché s’ha da andare in Tunisia, e “non nel paese degli Amaurotici o degli Amaxobiani”, oppure “fin dagli Indiani” se non anche “dai Saricani e Nabatei”. Più in là, all’ennesima stoccata, “Atterrito arretrò l’araldo, dimolte volte si segnò, retrocesse i passi necessari a dileguarsi dalla vista del Duca d’Auge.” – in arşân dimolte a s dîs dimòndi, chissà se v’è attinenza.
Al cappellan che fa notare al Duca che non si deve trarre dal “pagare un modesto canone alle vedove e agli orfanelli rispettivi”, egli risponde: “Un modesto canone, io, volentieri. Non hanno che da venir qui a chiederlo. Non c’è bisogno che lo facciano per l’intermediario del Re, che ne rastrellerà una parte al passaggio.” Ma non dice tanto per lui, che “poverino, è un buon ragazzo. Saranno i suoi bàili e tesorieri che scialacqueranno i miei bei buoni scudi tornesi d’oro fino zecchino e non di lega…” – fin troppo moderno e quanto mai ribelle quest’antico Duca.
Nel capitolo V, un tipo di nome Jolando dice una profonda seppur banale verità: “… il telegiornale di oggi è la storia di domani. Tutta roba in meno da imparare a scuola, perché la sapranno già.” – magia dei mass media, pronunziato massmidia per motivi politicamente esoterici.
A Cidrolin a cui pare d’aver giù udito simili ragionamenti, egli dice: “… quel che stiamo dicendo non sono mica cose da tutti i giorni. Non deve esserle capitato tanto spesso di sentire dei discorsi di così alto livello filosofico e morale.” Cidrolin, spiegando che è stato felice di vedere tante belle persone, è come se intendesse che le vuol sbatter fuori. No! Non è così, dice, anzi… però: “quando comincia la giostra mi domando dov’è che vado a parare, e allora è meglio dargli subito un taglio, se no mi metto a girare a ruota libera e vado a finire nei tempi antichi o magari nei tempi futuri, oppure in nessun posto, roba da metterti una fifa del diavolo.” Infatti “da un pezzo ormai la real guardia celere se ne stava all’ombra dei cipressi e dentro l’urne che non erano nemmeno poi confortate di pianto perché chi se ne ricordava più, dei celerini caduti in combattimento al tempo di Re Luigi, non nel nome. Il Duca d’Auge aperse un occhio e si ricordò che…”
Al cuoco che denota che è un po’ ripetitivo, egli sa replicar: “Prima di tutto non è esatto: ho aggiunto un avverbio. E poi sappi, bestione, che la ripetizione è uno dei fiori più odoriferi della retorica.”
Ora quell’animo nobile ha una missione nella capa: salvare dalla pena capitale “un maresciallo di Francia”, accusato di aver “violentato una decina di ragazzini” nonché “fatto fuori tre o quattro”. Il cuoco invece dice, sigando (il suono della sega riproduce il pianto, almeno nel mio idioma) che “son stati mille e tre”, quei poveri “bambini torturati, sgozzati, ingurgitati da quel vile di maresciallo.” – ma ciò non fa calare la voglia del Duca di liberare tale invitto eroe. Mentre il Duca lo cavalcava, il sapiente equino “si mise a gorgheggiare il suo repertorio a squarciagola…”
Nel capitolo VI, per cambiare, s’assiste al solito castorepollucesco cambio della guardia: “‘Parola mia’, – disse il Duca d’Auge, – ‘parlate come un libro…’
‘Come un libro stampato’, – disse Cidrolin. – ‘Pare anche a me d’averlo letto: i monaci mendicanti è una storia che rimonta al Medio Evo’.”
Cidrolin erroneamente, afferma: “Eppure dal medio Evo siamo usciti”
“‘Che dite!’ – esclama il Duca d’Auge. – ‘Il famoso Luigi undicesimo?’
‘In persona’, – risponde il Visconte di Péchiney, – ‘però fate attenzione che undicesimo non è ancora diventato’.”
Nel VII, il Duca studia uno scherzo, sparare addosso all’abate “Biroton seguito dal diacono Riphinte.”, gioco che finisce per sterminare chi sta bombardando: “Lo scoppio d’un fusto di colubrina pose fino alla sparatoria…”
Poscia, in merito al suspensum tertium non datum, il Duca chiede all’abate Don Biroton cosa pensi “della storia universale in generale e della storia generale in particolare.”
Seppur stanco, quello l’illumina che il “Concilio di Basilea” è “storia universale in generale”; invece “i miei cannoncini” (del Duca) è “storia generale in particolare”; infine “il matrimonio delle mie figliole” (sempre del Duca) è “a mala pena storia ‘événementielle’. Microstoria, tutt’al più.” Questi concetti sono da sempre allineati colla prepotenza del potere. Per me è più storia universale in generale, ma anche in particolare, che il dato pecca d’importanza, la nascita dei miei figli piuttosto che tutti i concili di questo pianeta. Ognuno ha i suoi particolarismi e umane passioni.
Sia il Duca che Cidrolin sono vedovi, bramosi di una nuova compagna, e genitori di tre figlie per metà orfane.
Il Duca, uomo ciarliero, fra l’altro dice: “Me ne vado a caccia, anzi a caccia grossa, voglio vedere se prendo un aurochs o un uro. Sella i cavalli e prepara la muta… mi porterò pure una colubrina… certo, della selvaggina non resterà gran che, se la piglio in pieno… Quando Citrolin riapre gli occhi, un sole arancione cala verso le ina-case della zona suburbana. S’alza, beve un bicchiere d’essenza di finocchio, spazzola e indossa il suo completo più chic…”
Nell’VIII, Cidrolin chiede ad Albert una donna, magari “che vien giù dal treno di Avrenches, le dici signorina io so una chiatta non le dico altro, avrà da fare solo un po’ di faccende domestiche e cuocere solo un po’ di roba da metter sotto i denti, e potrà farsi la cura del sole standosene a guardare i giovanotti del club dei canottieri…” Mi ero infatti scordato d’avvertire l’illustre ed ennesimo lettore o lettrice che quest’individuo vive in una chiatta e che è reduce da una non pesante reclusione (diciotto mesi di gattabuia). Anche per tal motivo necessita d’una femmina operosa.
Albert chiede a Cidrolin di portargli “un po’ una bottiglia di sciampagna”, mentre “Onesiforo apre una botola e sparisce” e subito dopo “soggiunge Albert, imbarazzato, – ci resta da affrontare una questione.” Poco dopo “Onesiforo porta una riserva speciale. Bevono. Anche Onesiforo ha diritto a una coppa; ma si tiene fuori dai rimasugli della conversazione che sta per estinguersi.”
Cidrolin chiede “di trovarne una che non sia troppo racchia, o troppo bischera.” Non so come la pensi a riguardo l’ecclesiastico. Più tardi, solo, Cidrolin ha un lauto pasto, innaffiato da “tre bicchieri e mezzo d’essenza di finocchio” e non so se c’è relazione ma poco innanzi “si trova faccia a faccia con un mammuth, uno vero. Il Duca d’Auge calcola freddamente la stazza dell’animale. Dice a Mouscaillot” che aveva “pensato a un aurochs o a un uro detto anche bos primigenius, non a quella bestiola…”
Egli, appena libero da impegni, adocchia e finisce per concupire la bella figlia di un taglialegna, dopo averla sottilmente minacciata d’impiccare il di lei amato genitore, suo suddito lavoratore.
Il capitolo finisce che i due “stanno a giocare fino all’alba.” – buon per loro.
Nel IX, Cidrolin, stravaccato nella sdraio, mormora che non aveva “pensato di dire ad Albert che una minorenne non la voglio.” Poi “chiude gli occhi.
‘Chissà che faccia avrà’, – soggiunge.
‘Lo sapremo fra poco’, – dice il Sire di Ciry ai suoi due cognati, Conte di Torves e Visdòmino di Malplaquet.”
In una scena successiva, “il duca indica Onesiforo”, che non m’è ancora chiaro in che mondo vive, ma solo che in questo “è vescovo.” – Complimenti! Mentre quel nobile “ha ricevuto da Sua Maestà trecentomila lire per sposarsi.” – Auguri!
“I generi non ebbero dunque nulla da dire sul fatto che il suocero sposasse in seconde nozze Russula Péquet, contadina, figlia di un boscaiolo. Cidrolin si risvegliò di soprassalto; gli sembrava che avessero suonato alla porta che dava sul Quai.” Quando comunica al telefono il suo nome (de plume) per prenotare al ristorante dice: “Dicornil, di cui, tra gli altri, “Di come Duca”, “I come Joachim, e “O come Onesiforo”. Quando poi “il maitre gli chiese se desiderava un aperitivo” ovvio che “Cidrolin optò per l’essenza di finocchio.” Dice Cidrolin al maitre qualcosa in relazione al “buttar via il manico dopo l’accetta”, il quale ammette: “‘Decisamente non capisco. Ora le spiego. C’era una volta un taglialegna…’ Pronunciata questa parola Cidrolin tacque e sembrò pensare ad altro.” – forse al capitolo IX che è così concluso.
Nel X, poiché il Duca era stato, poverino, “obbligato a somministrarle una giusta dose di legnate”. Si pensi che quella donna “avrebbe ben voluto venirci anche lei, ad assaporare i piaceri capitali…”. Dice il Duca: “Bene, bene. Ma credimi, se ho avuto la mano un po’ dura, è che non potevo permettermi d’averla più leggera di suo padre. Ne andava della mia dignità. Ho giudicato saggio che non trovasse le mie batoste più dolci di quelle di un taglialegna…” – già è molto che non l’abbia detto vile quel taglialegna. Adesso, poco mi pare poi così moderno: a quei tempi non c’era brisa Telefono Rosa. Subito dopo, il maitre chiede il seguito a Cidrolin, che dice “che aveva lasciato cascare il ferro della sua accetta in fondo a un abisso.” Si chiede il maitre: “Ma perché signore, tante parole cadono in disuso? Io che le parlo, durante la mia vita, ne ho viste sparirmene sotto gli occhi delle belle: cinematografia, velivolo, capofabbricato, eccetera…” – mio padre andava a comprare le sue sigarette dal paltino (in origine era appaltino), paltèin in idioma nostro.
Cidrolin “beve ancora un bicchierino d’essenza di finocchio per far andare giù la cena che gli è rimasta nonostante tutto un po’ pesante. Si chiede di andare a dormire oppure scendere, a titolo digestivo, nel canotto, e remare un poco. Non tarda a rinunciare a questi estremismi igienistici; decide di addormentarsi; ha qualche difficoltà al riguardo ma alla fine ci riesce. Un cavallo gli rivolge la parola.
‘Posso dirla una cosa?’ – domanda Sten, – ‘Siamo tra noi’. Il Duca infatti non aveva altri al suo fianco che Empoigne in sella a Stef.” – altro equino ciarliero.
Entrambi i quadrupedi, ma in special modo Sten, ambiscono a una statua. Sten dice: “Un cavallo come me non lo si è mai visto dai tempi di Xanto. E ancora Xanto parlava soltanto con la voce di Giunone, mentre io non ho bisogno di nessuno per sapere cosa voglio dire.”
XI: “Cidrolin si sveglia nel mezzo della notte: ha mal di ventre e mal di stomaco.” Pur sempre dolorante, “torna ad alzarsi, si riveste, prende una coperta, scende nel canotto, lo slega. Rema via.” Ogni tanto qualcuno imbratta il muro d’ingiurie contro di lui, ogni cajòun a gh à la só pasiòun, e Cidrolin deve ogni volta ridipingere. Incontra un passante e ha un breve dialogo con lui. Poi s’imbatte nella donna che andava cercando. Fra i due si stabilisce un dialogo che non sarebbe parso assurdo né a Beckett né a Ionesco. Ma poi c’è l’agnizione: “allora è proprio lei quel tizio che cerca una ragazza per la manutenzione della chiatta.”
In un successivo scambio di commenti: “‘Vista da lontano è un amore ma da vicino fa un po’ schifo.’
‘L’acqua sembra sporca, ma non è stagnante. Non è che si vedano sempre le stesse immondizie. Alle volte le spingo via con un bastone, e se ne vanno, a fior d’acqua. Da quella parte, però, tende a paludarsi.’”
Dopo qualche ulteriore perplessità (nella chiatta manca la tele e lei c’ha un teleromanzo da seguire) la tipa accetta.
“Cidrolin torna sul ponte e si stese sulla sdraio in attesa degli eventi; ma non tardò a chiudere gli occhi.
‘Nobile sposo’, – disse Russula, baciandogli rispettosamente la mano, – ‘ho da annunciarvi una notizia importante e gioiosa: state per avere un erede.’”
Poi c’è la diatriba se sia maschio o femmina, se l’astrologo non sia uno che intende solo profittare della situazione, se sia meglio lui o l’alchimista. Di queste pagine una frase la terrò per un bel po’ a mente: “A ritratto donato caval non guarda in bocca.” – ed è del Duca, che la dice a proposito delle smanie di protagonismo della sua ciarliera cavalcatura (farsi un monumento equestre con Duca ‘n coppa).

All’inizio del XII, “Cidrolin aperse gli occhi; gli stavano mormorando qualcosa all’orecchio. Era Lalice: gli annunciava che il pranzo era in tavola.” – nome assai vago per una domestica tuttofare. Ma lei, più di lui, è una canna pensante: Cidrolin dice che i suoi sogni se “li scrivessi, farebbero un romanzo.” – o metà almeno, dico io. Di rimando lei replica così: “E non le pare che di romani e n’è già fin sopra i capelli.” Non male come considerazione. La risposta è doppia: sì, ce n’è a sufficienza; no, ne manca ancora uno, quello che sta vergando l’autore.
“Cidrolin non si fa scrupolo di darle immediata soddisfazione. Il Duca cavalcava per la foresta, solitario e solizioso.” – vorrei saper da Italo dove ha tratto l’ultima parola.
Il Duca, ma non il suo, si fa per dire, Ronzinante, ha fede nella pietra filosofale. Sten non crede ma non impedisce “agli altri di credere”: non credo quia nolo, e il Duca non lo picchia perché lui è lui, sennò, sai che mazzate! Un boscaiolo poi chiede alla Duchessa come sta…
“Cidrolin sussultò” e poi chiese alla donna di chiatta se ha fratelli o sorelle. No! Che suo padre fosse un taglialegna, interessa a qualcuno? A me, almeno, sì.
Mentre “un passante scompare”, lo imita il capitolo, seguito dal XIII.
“Al campanile del villaggio le cinque erano suonate da un pezzo, quando il Duca d’Auge uscì dal castello scortato da Pouscaillou, fraello minore del Visconte d’Empoigne, da poco tempo al suo servizio.” – e che qualcuno trafigge, per cui il figlio cresce di grado.
Ho cercato dappertutto ma nel capitolo non v’è traccia del Polluce dal cognome pseudo-veneto. Anche nel successivo, all’inizio egli brilla per la sua assenza nella prima pagina ma non nella seconda.
Qualcuno si meraviglia che Sten discorra come un cristiano, anzi, come un senzadio.
“‘E se gli sbirri facessero un’inchiesta?’
‘Bah. Il parroco qui di fronte, magari. Chi altri vuoi che ci pensi?’”
Intanto, “la servetta portò in tavolo una pollastra” e poi s’addormentarono “ben stracchi e ben satolli. Lalice e Cidrolin strabuzzarono gli occhi al riaccendersi delle luci e uscirono dal cinema un po’ stralunati.”
Qualche scambio di parole e dopo “una sorsata di rum” egli s’addormentò. E rispunta ora la banda del Duca.
“Le notizie della duchessa che l’abate Rephinte diede al Duca erano piuttosto cattive, dato che la poveretta era morta di consunzione, un mese dopo l’uccisione d’Empoigne. Evocato questo triste ricordo, l’abate s’alzò per dire una beve preghiera.” – tót à fîn e a la môrt a s rîva vîv!
Nel XV, “Cidrolin aperse un occhio: non era ancora l’alba. Aperse entrambi gli occhi: era sempre notte.” Egli sa di sognare molto e sa che “sognare è molto interessante.” – essendo l’unica vita alternativa che ci è concessa. C’è invece chi, il guardiano per esempio, possiede ed è posseduto da un altro pensiero dominante: il pensare stesso: “… caro signore le ripeto, non smetto un minuto di far funzionare la mia materia grigia. Neanche quando vado al gabinetto. Lei non può immaginare. Roba da non credere.” Cidrolin insegue un sogno: “Il sogno continuato, per esempio. Ci si ricorda il sogno che si è fatto e la notte dopo si cerca di continuarlo. In modo da fare una storia tutta di seguito” – anzi una storica historia che è fatta di Storia, “di San Luigi” e “di Luigi” dall’XI al XVI.
Il guardiano è un bel filosofo: “L’istruzione! Vede cos’è l’istruzione, signore? S’impara quel tanto a scuola, si fatica, e non poco, per imparare quel tanto a scuola, e poi, vent’anni dopo, o magari prima, non è più così, le cose son cambiate, non se ne sa più niente. Allora non valeva la pena. È per questo che mi piace più pensare che imparare.” – sarebbe bello imparare a pensare.
Cidrolin “si mise a letto. Fuori s’annunciava un’alba di livello scadente.
Tornando a dir messa, l’abate Riphinte trovò il Duca ad attenderlo” – anche lui, ch’era sol diacono, ebbe la promozione. E quello lo porta là dove è giusto che vada, “davanti alla fessura della roccia.” E, mentre “il Duca ricominciò a infilarsi nella fessura”, l’Abate chiede se quella “sarebbe l’entrata dell’Inferno”. E poi continua: “Ma la teologia moderna afferma che l’Inferno non è intraterrestre come credevano gli antichi. La fisica niutoniana ci ha permesso di respingere queste superstizioni un po’ materialiste. Il che però non vuol dire che l’Inferno non esista, sia lodato Dio!”
L’avventura si prolunga nel XVI, dove ci sono i “disegni infantili”, dei “Preadamiti”. La querelle continua fra i due, anche se, effettivamente, quasi quasi, quei rudi e dubbi schizzi pur incuriosiscono l’ecclesiastico. Ma ora si deve partire, dove non si sa.
“Il minestrone era servito. Ragionando degli uni e degli altri, cenarono copiosamente, e stanchi di tante emozioni, andarono a letto e buonanotte. Alle prime luci dell’alba, pur con tutta la sua ripugnanza per quest’abbietta operazione, Cidrolin si ficcò un termometro nel sedere, e avendolo indi delicatamente estratto, constatò che aveva un febbrone da cavallo…”
Dopo che la donna l’ha convinto a farsi portare al dobliusì (che si capisce cos’è ma non da dove sia scaturito: poi ho l’intuizione a cui un albionico può facilmente giungere), il nostro “chiude gli occhi. Gli riesce di dormire. A Bayonne, i tre compagni di viaggio si separano. Il Duca d’Auge e il Visconte d’Empoigne, familiarmente chiamato Pouscaillou, proseguono verso la Spagna.”
Al principio del XVII, “Cidrolin, guarito, tornò a sobbarcarsi ai lavori di ridipintura.”
Qualcuno lo chiama: da un’auto “che rimorchiava un carozzone-bestiame s’era fermata in seconda posizione”, il cui guidatore gli chiede dove sia “il campo di campinghe per campisti”. Poi i due si presentano: uno è “Cidrolin”, l’altro è “Auge”, che si definisce Duca e dà all’altro, senza volerlo offender, dell’imbianchino. Cidrolin nega d’esserlo. Al che il Duca dice che anche lui era “uno specialista di pittura parietale” – sue erano i disegni preadamitici delle grotte che inquietarono l’abate.
Cidrolin incontra di nuovo quel tipo:
“‘È un sogno?’ – domandò il guardiano.
‘Pensa?’ – domandò Cidrolin.”
Uno sogna sapendo di sognare, l’altro pensa a tutt’altro: “ho bisogno di riposo dopo una giornata intera consacrata al rimescolio della materia grigia. Così la lascio riposare, la mia materia grigia; dormo non sogno.” Poi “il Duca frenò. Il guardiano impallidì, arretrò, disparve.”
Di poi “la contessa disse: ‘Di lontano è carino, ma da vicino fa un po’ schifo.’
‘L’acqua sembra sporca’ – disse Cidrolin, – ‘ma non è stagnante. Non si annusa mai due volte le stesse immondizie. Le spingo col bastone, e s’allontanano scorrendo sul pelo dell’acqua. Tra la chiatta e la riva naturalmente s’ingorgano, e lì a volte s’odorano le stesse’.”
La nostra missione umanistica potrebbe essere l’approfondir un concetto, allargandolo, oppure semplificarlo, ovvero negarlo. È forse lui l’astro che mi gira attorno, o sono io il suo picciol pianeta?
Felisa da quando è giunta costì, bela bela, chissà perché: “Beee-Beee”. E il suo belio ribela dimolte beeelle volte. Il Duca si sente solidale col suo ospite e intende scoprire chi sia l’insultante graffitomane. Cidrolin dice che “tutto sommato me la sono cavata da me finadesso e così posso continuare”.
“Lalice va al mercato. Cidrolin finisce di dipingere.” – sic transit gloria mundi, il che forse è un motto fuor di luogo, nel caso presente.
“Dice Cidrolin:
‘A volte ho l’impressione di averli già visti in sogno.’
‘Questo non migliora le cose.’
‘Oh, è solo un’impressione.’
‘Non insisto. Io per i sogni…’
Sulla soglia Lalice chiede:
‘Allora, resta qui fin che tornano?’
‘Bisogna bene,’ – risponde Cidrolin.”
I due “rimasero a giocare fino all’alba.” – cose che capitano ai vivi (e alle vive).
Cidrolin e il Duca si chiamano Joachim, Olinde… ma anche:
“‘Io ne ho altri cinque: Anastase Cré…’
‘… pinien Hon…’
‘… orat Irénéee Mé…’
‘… deric’.”
Allora anziché nominarsi si daran del tu e faran prima. Intanto dice Cidrolin che “il portinaio dirimpetto ha acciuffato chi insozzava la staccionata.” Il Duca non può fare a meno d’osservare: “Così, t’ha acchiappato?” Cidrolin ammette: “E già.” Intanto “Onesiforo solleva il berretto e si gratta l’occipite con tanta energia che i mascellari finiscono per muoversi…”.
Il Duca consola Lalice, che tanto lo ama (Cidrolin, non il Duca). E le consiglia di non andare, ma persistere nella passione.
“Cidrolin seguì il consiglio di Sten. E, messi i cavalli al riparo, andò a dormire.” Sten aveva capito tutto, ma dobbiamo legger la fine del penultimo capitolo, per capirlo finanche noi.
Il XXI è breve. Il Duca decide di rincasar con la sua (di Cidrolin era, prima; del Duca è, ora: ma che cambia?) barca, mentre con opportuno canotto Cidrolin e la sua donna giungono a riva. Il Duca sparisce dalla scena, (tra la pioggia incipiente, che poi finì dopo bei giorni, allorché la chiatta “finì per arenarsi in cima a una torre”, il cui nome potrebbe esser Ararat), ma è la scena che va a svanire così: “… e il sole era già alto sull’orizzonte, quando il Duca si svegliò. Si avvicinò ai merli per considerare un momentino la situazione storica. Uno strato di fango ricopriva ancora la terra, ma qua e là piccoli fiori blu stavano già sbocciando.”
Il che è la fine di un romanzo complesso anziché no, ma che si può ordinare come si fa con due gomitoli che si rigomitolano gomitolando, l’uno nell’altro, fino a farne uno.
Nella quarta di copertina si cita “un celebre apologo cinese, Chuan-tzé sogna d’essere una farfalla; ma chi ci dice che non sia la farfalla a sognare d’essere Chuang-Tzé?” Questo è… ovvio, disse Totò indicando l’ombrello: ce lo dice l’autore dell’apologo.

Mia madre, che non aveva meno spirito del Principe, diceva che in tivù anche i cani sapevan parlare: qui a farlo sono i due stalloni. Ma il vero parlatore è un francese di nome Raymond Queneau, e il suo traghettatore Italo Calvino. Poi sulla chiatta o barca o arca che sia, mi son imbarcato io che, poiché non v’era speranza alcuna di sconfiggere i due titolati atleti, pensai bene di scavalcar la rete divisoria e di batter la palla dalla loro stessa parte: vincemmo poi tre a zero.
I miti sono tanti, anche quello che adombrai dei Dioscuri potrebbe essere in argomento, oppure quello di Navarre e Isabeau, e anche altri che ignoro. Quello finale di Noè può pure servir, se non altro a confonder il tutto.
Jung stesso direbbe che io sono il mio antico progenitore, unendomi a lui tramite l’inconscio atavico. Ognuno è libero di formulare la sua interpretazione, anche di tipo fisico: il Duca è energetico, Cidrolin è più inerte: dove lo metti, lì lo trovi, anche se si muove pure lui, impercettibilmente. Sia chi legge che chi scrive non è mai completamente fermo, ma si agita, chi più chi meno. Si chiama fenomeno vitale, mi pare, o esistenza semovente.
L’idea che prediligo è la meno corretta e perciò la più gustosa. Nella prosa emerge dapprima un Franco di Le Havre, poi un Italiota nativo di Santiago de las Vegas, L’Avana, Cuba. Infine si aggrega ai due un arșân tésta quêdra, ch al bèv calvadòs.
Quien sabe la verdad?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Raymond Queneau, I fiori blu, Einaudi, 1967