“Il segreto di Medusa” di Hannah Lynn: l’atavica paura del Male
Nel mito come nell’iconografia Medusa è rappresentata come un mostro anguicrinito capace di impietrire con lo sguardo chi avesse la sventura di incrociarlo. Ma Medusa possiede nel proprio DNA il gene della malvagità? Nelle sue vene scorre lo stesso veleno dei serpenti che le sibilano sul capo?

Forse l’immaginario collettivo è viziato da un pregiudizio nei confronti di una figura la cui genesi è poco nota. Nel rivoluzionario romanzo Il segreto di Medusa (Newton Compton Editori, 2021, pp. 248, trad. di Mariafelicia Maione) Hannah Lynn offre un aspetto inedito della Γοργών.
Per sottrarla al pericolo di un matrimonio infelice, Talete offre la figlia, la bellissima Medusa, come sacerdotessa di Atena. Poseidone si invaghisce di lei e ne profana il corpo. Atena non crede alle parole di Medusa e la accusa di aver provocato le brame del dio e insozzato il proprio tempio facendone un ricettacolo di lussuria.
La vendetta della dea non tarda a manifestarsi: Medusa scopre con sgomento che sul proprio capo è spuntato un groviglio di serpenti. Atterrita, cerca rifugio nella casa natìa dove apprende anche il potere pietrificante del suo sguardo, sotto il quale cadono per primi i genitori. Le sorelle, imprecando contro Atena, ne attirano a loro volta l’ira e vengono trasformate esse stesse in mostri. Le tre donne fuggono su un’isola rocciosa, che diventa la loro dimora. Nel volgere dei millenni molti eroi in cerca di gloria tenteranno di spiccare la testa di Medusa ma tutti soccomberanno. E anche Perseo impugnerà la spada contro di lei.
Per tredici anni Medusa è stata abbracciata dal calore della sua famiglia. Poi, con una netta cesura, si ritrova sola, completamente sola, nell’austera aula del tempio di Atena, quasi una caverna ai suoi occhi di ragazzina. Trema, Medusa. L’epifania della dea accelera i battiti del suo cuore; eppure non rimane schiacciata dalla paura. No. È proprio la paura a essere schiacciata dalla curiosità, dal desiderio della giovane di riempirsi della potenza della divinità.
“Bambina” la chiama Atena. Ma questa bambina, incalzata dalle sue domande, sa trovare parole sagge per guadagnare il consenso di colei che della Saggezza è l’incarnazione.
Atena è anche la dea della Guerra. Perfino su questo punto Medusa è in grado di tenerle testa; certo, ella non ha mai impugnato una spada, ma di battaglie ne ha combattute tante. E vinte. Battaglie combattute per impedire a mani maschili di esplorare il suo corpo; battaglie combattute sulla piazza del mercato, quando ha preteso che gli uomini non badassero alla sua bellezza ma alla frutta che vendeva. In questa sorta di duello verbale emerge un tratto che, in qualche modo, segna il destino di Medusa: la fierezza. È tale fuoco interiore ad attirare su di lei lo sguardo lascivo di Poseidone. Ella è profanata due volte. Il dio ne vìola il corpo ma, pur nel dolore, quella fierezza rialza la testa: l’Ἐνοσίγαιος ha posseduto la sua carne ma non dominerà mai il suo spirito. Ecco perché, ancora più straziante, è la profanazione che Medusa subisce nell’anima, colpita a morte dalla collera di colei che ella ha sempre servito con purezza, mortificando la propria avvenenza pur di non attirare gli sguardi degli uomini.
“Ricordava ancora che la sua debole forma mortale era stata ferita più dal disprezzo della dea che da ogni violenza fisica di Poseidone.”
La dannazione di Medusa va ben oltre la metamorfosi in una creatura mostruosa; l’ira di Atena la condanna alle tenebre di una solitudine millenaria. Sarà ostracizzata perfino dalle sorelle, che, dapprima amorevoli, poi corrotte dal veleno del rancore, finiranno con il dimostrarle un odio irrimediabile. Nonostante gli strappi dell’anima mai rimarginati, Medusa non si abbrutisce come loro.
I cuori di Euriale e Steno sono diventati sassi, quasi fossero stati trapassati dallo sguardo della sorella; provano piacere nell’infliggere tormenti alle vittime prima di ucciderle, si accaniscono con gli artigli sulle statue degli sventurati. Per godimento. Per sfregio. Medusa no.
Medusa soffre ogni assassinio come un peso più gravoso di qualsiasi effigie di pietra che i suoi occhi possano generare. Con una profonda pietas ella concede almeno la grazia di una morte rapida quando si trova costretta, ogni volta con amarezza, ad uccidere. È con questa disposizione d’animo che affronta Perseo. Al fiuto di Medusa non sfugge che egli emana l’odore dell’Olimpo. L’odore di lei. Di Atena. E ciò accresce la pietas della Γοργών che riconosce in lui – o almeno così crede – la sua stessa maledizione. Quale mortale sarebbe stato spinto dalla dea ad andare incontro a morte sicura se non fosse incorso nelle sue ire? Si inganna, Medusa. Quell’odore non è il marchio della condanna di Atena; è il profumo della sua benedizione.
Perseo non è un mortale qualsiasi; generato da Zeus che ha fecondato Danae, egli della famiglia divina fa parte. È nipote di colui che l’ha violata, fratello di colei che l’ha maledetta. È poco più che adolescente e non conosce il mondo. Eppure, con il coraggio che solo l’amore per una madre può infondere, accetta il rischio di immolarsi per salvare Danae dalle mire del perfido Polidette.

La testa di Medusa è il prezzo della libertà della donna. È questo che rende Perseo un unicum nella lunga teoria di temerari che hanno tentato vanamente l’impresa. Egli non è uno dei tanti eroi in cerca di gloria; piuttosto si sente investito della missione di ridare la vita a colei che gli ha dato la vita.
Il percorso che il ragazzo compie è una sorta di romanzo di formazione che lo vede maturare da virgulto a giovane uomo. Nel suo immaginario, complice l’astioso ritratto dipinto da Atena, Medusa è una belva feroce la cui razionalità è stata soffocata da millenni di isolamento.
Al cospetto del mostro la cui tetra fama ha raggiunto anche le isole più remote, Perseo si sente spogliato delle armi divine di cui è stato dotato. Si sente smarrito. Ma non per la paura. Egli vede crollare tutte le sue certezze. Si era aspettato un essere indifferente al destino delle vittime condotte a morte come capre al macello, un essere cieco di fronte al terrore che balena in quegli occhi in cui si compiace di fissare i propri.
Una donna, trova. Una donna che, dopo millenni di silenzio, si apre per la prima volta e racconta la propria ἀλὴθεια; la ἀλὴθεια di una giovane profanata, tradita e condannata senza appello dalla tracotanza degli dèi.
“Gli dèi non scontano mai le loro malefatte, Perseo. I mortali sì. Gli dèi, come i ricchi umani, decidono a viva forza per quelli le cui voci non sono abbastanza forti da difendersi. Le donne. I deboli. I rifiutati. E nessuno grida per coloro che ne avrebbero più bisogno.”
Per un attimo Perseo vacilla. Assorbe tutto il dolore di cui Medusa si è nutrita in solitudine e capisce. Capisce che la sua missione non è uccidere la Γοργών ma dare la pace a una sacerdotessa. Il profondo amore filiale che egli esprime scuote le corde del cuore di Medusa. Perseo è il prescelto: solo a lui ella consegna la propria testa e quella ἀλὴθεια lungamente serbata dentro sé.
Il giovane è lo strumento della sua redenzione; egli sente come imperativo morale quello di restituirle quella dignità e quell’aura sacrale che le sono state strappate; per assolvere questo impegno metterà a nudo quel millenario segreto. Ma la massa, assetata del sangue del mostro, è affascinata dal trofeo e sorda al racconto della storia. Perseo si ritrova scisso; l’affermazione della ἀλὴθεια chiede di sacrificare la gloria che il mondo intende tributargli. Egli sarebbe ridotto al grigiore dell’anonimato mentre la Γοργών verrebbe innalzata. Ma rinunciare alla gloria deluderebbe le folle che lo vogliono eroe.
In ogni uomo risiede una parte oscura che, se lasciata crescere, condurrebbe anche il più mite a orrendi misfatti. L’atavica paura del Male porta a fissare questa parte buia nell’archetipo del mostro e ha bisogno, per essere esorcizzata, di poter contare sulla rassicurante presenza di un eroe in grado di annientare tale mostro.
Written by Tiziana Topa