“Crazy for Football” film di Volfango De Biasi: quando lo sport diventa una liberazione
Io ci sono stato dentro i manicomi, quando il termine manicomio era già stato cancellato ma non avevano ancora aperto i pesanti cancelli. Io li ho visti, con lo sguardo fisso, e gesti e parole a cantilena ciclica.
Io ci sono stato, con un po’ di inquietudine, perché stupidamente temi che quella loro stranezza possa essere anche cattiva. Stai in mezzo a loro, in punta di piedi, ristretto nel tuo spazio, e non ti fidi mai del tutto, perché sono un po’ così, perché non sono mai allineati, perché la cintura la annodano anziché chiuderla normalmente con la fibbia sopra un golfo spesso sdrucito, e spesso viola.
Io ci ho parlato; e lei, una bellissima ragazza, bionda senza crederci, una mattina mi ha detto: «Non abbassare lo sguardo quando parli con me». Con lentezza esagerata, tarata sul loro mondo da tartaruga, da dentro la sua bolla di sapone mi ha ripetuto, stentata ma senza incespicare: «Non abbassare, lo sguardo, se senti disagio, per me. Io, sono come te, e rido, e piango, come te». Colpito, affondato. Forse non volevo metterla in imbarazzo, o forse ero ancora molto lontano dal comprendere. Adesso lo so: in psichiatria ci sono belle persone, come fuori.
Eccole le persone speciali con tante, forse troppe, visioni. Sono loro, sono gli angeli dei tunnel della mente. Sono loro, per una sera, i fantastici protagonisti del film Crazy for Football – matti per il calcio, di Volfango de Biasi.
Sono loro, i matti che trainati dal loro medico non convenzionale formano una squadra di calcio per affrontare la vita, per affrontare le loro fragilità. Per riuscire a esprimere almeno con lo sport le loro ingombranti, incantevoli, particolarità.
I fotogrammi raccontano storie di persone, e quasi non importa che siano persone con problemi di salute mentale. Sono visi di poesia, di senso smarrito e mai ritrovato, o di visioni che loro sì e noi magari. Sono persone, santo cielo, che lanciano dardi di comicità involontaria, ma che subito dopo ti possono far commuovere.
Applausi in piedi davanti a loro, idealmente ma applausi. Rispetto. Rispetto in ogni fotogramma del film di Volfango De Biasi. Dove l’occhio del regista ti avvicina teneramente all’insolito, al diverso; dove racconta con rispetto anche le complicazioni, con uno sguardo commosso, spesso ammirato. Lo senti che ci sono, e che fanno più fatica di te ad essere così.
I protagonisti mettono in gioco la loro stessa esistenza con il calcio. Interpretano il calcio come se fosse l’ultima spiaggia, l’ultima possibilità, e tirano, passano, parano, giocano come matti, come noi, anche se sono delle pipe, come dicono spesso, come diciamo tutti.
Lo spettatore è proiettato dentro le loro stesse emozioni, facendo propri i sentimenti che il regista esprime. Mai uno spunto pretestuoso, mai un indagare indiscreto nelle loro realtà come se fossero esposti per esibizione. No, il film disegna storie di persone, non vetrine di luoghi comuni per chi il senso del normale non l’ha mai avuto.
Loro, i matti, protagonisti. Protagonisti per se stessi e per il loro mondo sempre un po’ complicato. Lo spettatore parteggia visceralmente, soffre quando la squadra va male e si entusiasma dei risultati positivi. Si può vincere, ti suggerisce la narrazione, ma vincere è dura e non sempre riesce. Dove? Nel campo o nella vita, è chiaro…
Così, quasi subito, si capisce che lo sport è incidentale. Nel senso che è la vita che ti fa combattere, ma è lo sport che te lo insegna. Il messaggio è tutto lì, e lo vedi chiarissimo dentro di te quando arrivano i titoli di coda, e ti accorgi che la storia è finita, ma ti resta tantissimo dentro.
Il film nasce da una storia vera che ha ispirato gli scrittori-sceneggiatori Francesco Trento e Volfango De Biasi. Che tanti anni fa avevano realizzato un documentario (che aveva anche vinto il David di Donatello) sul fantastico lavoro di psichiatri italiani che si erano impegnati a dare dignità, cura e reinserimento sociale, attraverso lo sport a delle persone con problemi di salute mentale.
Un’idea fantastica, che non doveva esaurirsi lì. Per questo al documentario, era seguito un libro, una associazione benefica, e, ultimamente il film, trasmesso nei giorni scorsi in prima serata da Rai Uno. La sceneggiatura è stata scritta da Francesco Trento, Tiziana Martini, Filippo Bologna, e Volfango De Biasi, appunto, che ne ha firmato la regia.
Grazie quindi a Rai Uno e a Mad Entertainment che ne ha curato la produzione, se nei nostri schermi, al posto degli “eroi” del Grande Fratello, sono arrivati a insegnarci qualcosa questi fantastici, teneri, matti,
Nel nostro televisore, per una sera almeno, una storia fantastica ma vera. Una storia bella, che ti muove dentro qualcosa, che non sembra neanche televisione.
Sergio Castellito dà voce e cuore, alla grande da par suo, allo psichiatra che realmente esiste e che ha creato quella fenomenale squadra di calcio. Tra gli altri interpreti Massimo Ghini e Max Tortora, perfettamente calato nei panni di un allenatore un po’ sgangherato che impara dai matti che allena. È fantastico il suo arrabattarsi a creare la squadra, a forgiarne l’anima, lo spirito, e a saperla incitare coinvolgendo anche il più tiepido degli spettatori.
Perché quando un film è un bel film, gli spettatori sono coinvolti, sono protagonisti. Sono lì, che ridono e che piangono con loro.
Eccolo quel ridere e piangere che accomuna tutti, che mi aveva detto la ragazza biondina dal fondo di un reparto blindato di psichiatria, e che compare nel film prima di ogni stacco della telecamera, per farti emozionare e farti pensare.
La pellicola scorre nel piccolo schermo scavando sensazioni, mentre le vicende umane si sviluppano come in un romanzo di formazione. Tutti attraversano la tempesta dello sport, del male di vivere, e ne escono migliori. Persino il grandissimo psichiatra per un attimo tentenna quando la figlia diciassettenne si innamora di un suo giovane paziente, carino e tenebroso, capitano della squadra di calcio.
«È un paziente molto delicato…», dice il medico alla ragazza per dissuaderla.
«Tu hai sempre detto che sono persone, non pazienti», replica lei con tutta la foga dei diciassette anni in perenne subbuglio, «però, ora che riguarda me, sono pazienti?».
Lo sappiamo, e il film ce lo ricorda col suo incanto, è sempre tutto così complicato…
Written by Pier Bruno Cosso