“Darwin va in città” di Menno Schilthuizen: come la giungla urbana influenza l’evoluzione
Il primo commento va alla casa editrice che ha pubblicato l’opera: che sia un’opera edita da Raffaello Cortina è evidente, anche se non saprei dire perché, probabilmente si tratta della veste tipografica, ma non solo. Quello che ho appena letto, come tante altre pubblicate da Cortina, è un saggio essenziale per poter meglio comprendere in che mondo viviamo e cosa ci può capitare giornalmente.

In genere non mi va di fare complimenti a nessuno in generale e alle case editrici in particolare, ma stavolta ci tenevo a dire la mia. Grazie a Raffaello Cortina Editore, negli ultimi due o tre anni, ho allargato la mia area di coscienza e di consapevolezza.
Il saggio Darwin va in città di Menno Schilthuizen è diviso in quattro sezioni di diversa ampiezza, per un totale di venti capitoli, più una presentazione (Benvenuti in città) e un congedo finale (Periferia).
E inizia così: “Ha una forma perfetta. Un miracolo di microingegneria pronto per il suo breve passaggio in questo mondo. Ali delicate, senza segni di usura per il momento…” – si parla, non so se si è capito, di un fine esemplare di Culex molestus, la zanzara comune, appena emerso dalla sua pupa.
Già in alcuni saggi di Edward O. Wilson, editi nella medesima collana, ho cominciato a considerare che anche il più fastidioso degli invertebrati è un esempio di perfezione biologica, la quale è un’acquisizione filosofica da non sottovalutare.
Ciò non toglie che mi sia consentito tuttora di sventolare la mano destra al fine di allontanare ogni tipo di dittero. Sono reduce da una breve vacanza nell’agrigentino, ospite di un amico in una villa di campagna, dove ho fatto conoscenza con le mosche più insistentemente affettuose che mi sia mai capitate tra la faccia e il collo. Ora non mi mancano, però serberò per loro un ricordo indelebile. Questo è il compito della memoria, mantenere in vita tutto quel che è entrato in relazione con te.
L’autore ammette di amare le città, anzi, che addirittura gli piacciono: “non tanto le zone ben organizzate, patinate e scorrevoli, ma piuttosto la trama sudicia, organica della città, che si rivela negli angoli dimenticati dove il logoro tessuto culturale è del tutto consumato – il ventre urbano in cui l’artificiale e il naturale si incontrano e danno vita a una relazione ecologica.” – che mi pare essere il vero protagonista della storia narrata.
Non si tratta di finzione, bensì di vita vera raccontata in maniera spiritosa, istruttiva e sempre attenta a riportare i fatti così come sono avvenuti.
Non credo sia possibile una rappresentazione letteraria perfettamente uguale a quel che è accaduto, ma in questo caso la memoria dell’autore appare assai aderente alla realtà. Insisterei su questo fatto: alla narrazione teorica si è qui privilegiato la narrazione esistenziale dello scienziato, dei suoi collaboratori o delle sperimentazioni svolte da altri scienziati, puntando alla massima veridicità.
“… le zanzare della metropolitana ci mostrano chiaramente che l’evoluzione non ha soltanto a che fare con i dinosauri e con le epoche geologiche. Può davvero essere osservata qui e ora!” Noi dobbiamo acquisire la consapevolezza che “alcuni cambiamenti imposti dagli esseri umani sulla Terra sono irreversibili.” Infine, il processo evolutivo “è talmente comune da non disdegnare il manifestarsi sotto i nostri piedi, tra i sudici cavi elettrici delle linee metropolitane cittadine.”
Finora si è concepito l’ecologia come un fatto esterno, antitetico, alla civiltà e si cerca “di mettere in quarantena la natura, quanto più possibile, proteggendola dall’impatto dannoso del mondo umano, implicitamente non naturale. Un simile approccio non è più sostenibile.”
L’uomo, con tutte le sue energie, rappresenta “la forza ecologica più rilevante al mondo.”
Egli e la natura (che l’ha creato) sono destinati a un incontro esistenziale, senza fisime, ma determinato quanto sia più possibile dal coraggio e dalla sincerità, oltre che dal continuo confronto che permette di compiere delle scelte, ma anche di acquisire una nuova consapevolezza: termine che finora ho ripetuto tre volte, perché credo sia il primo passo per capire noi stessi e il mondo in cui viviamo.
Questa è stata la mia finale considerazione, dopo aver letto l’ultima pagina del presente saggio.

Credo che pochi mestieri scientifici derivino dalle esperienze infantili e adolescenziali come quello del biologo. Sia Menno Schilthuisen che il già citato Edward O. Wilson si consideravano studiosi della natura fin dalla primissima età. Li capisco perché anch’io, meno che decenne, cominciai a collezionare coleotteri (soprattutto Cetonia aurata, che noi ragazzi chiamavamo elicotteri) e lepidotteri (per lo più Aglais io Linnaeus, così bella e così facile da catturare; meno nella ma tanto più furba e imprendibile era la cavolaia, Pieris rapae), nonché conchiglie che raccoglievo durante le mie vacanze estive. Che poi non sia diventato uno zoologo con specializzazione in erpetologia è una storia su cui al momento vorrei sorvolare.
Il giovane Menno cominciò bene e continuò meglio: “Perciò in una gelida mattina invernale fissai una vanga al telaio della bicicletta e mi diressi verso una delle pinete che crescono nelle dune interne, dove sapevo che avrei trovato i voluminosi nidi a cupola della formica rossa…” – mi pare che sia da lì che si vede la stoffa del biologo (letteralmente) in erba.
In più di un passo, egli attribuisce agli imenotteri un dialogo umano: “Usando i feromoni le formiche possono dire cose semplici, per esempio, ‘come va?’, confortati come ‘bene, bene tutto a posto’, stimolanti come ‘oooh, buon cibo a due leghe dal nido verso ovest’ o anche molto allarmanti: ‘Si salvi chi può! Qualche mostro sta infilando una maledetta vanga nel nido!’”. Immagino che la comunicazione fra imenotteri sia stata più stringata, del tipo: Annusa! Annusa tu! Cibo distante! Scappiamo!
Come già lessi in Storie del mondo delle formiche di Wilson, “… i mirmecofili (anche quelli che non fanno alcun male alle formiche) hanno dovuto decifrare il codice identificativo delle loro ospiti. Nel corso dell’evoluzione hanno quindi imparato a parlare il ‘formichese’ per evitare di farsi riconoscere.”
Giova forse specificare che i mirmecofili sono dei coleotteri che hanno imposto una loro adozione a una comunità di formiche, sfruttando poi la situazione. Il fatto indica che fra due specie diverse può sorgere una sinergia, quando non un mero sfruttamento di risorse.
L’autore diverte sé e il lettore a narrare come questi “veri e propri briganti” depredano le loro ospiti di ogni bene di dio, imitando “il comportamento di richiesta delle formiche nel nido”. Comico mi pare il fatto che, quando “la formica riconosce l’inganno e cerca di aggredire il vagabondo”, questi “si limita ad acquattarsi e a ritrarre le sue appendici diventando inespugnabile come un carro armato.”
Certi coleotteri, che svolgono abitualmente la mansione di becchini, divorando le formiche morte, decidono talvolta di lanciarsi “all’inseguimento mentre uno di loro cerca di saltare sul dorso della formica”, finendo spesso per straziarla, comportandosi quasi peggio degli umani.
“… l’uomo, come ogni valido ingegnere, progettando ha creato nicchie per gli animali e le piante con cui coabita. Non si tratta di mirmecofili, se volete, ma di antropofili…”
Menno si chiede: “Ma perché dobbiamo sempre, implicitamente o esplicitamente, escludere il fattore umano dall’equazione quando parliamo di natura?” – un’immediata risposta: qualche ideologia e numerose religioni ci hanno posto al di là di essa, come se fossimo dei semplici suoi beneficiari, al di là del bene e del male. Purtroppo, anzi, per fortuna non è affatto così.
“… l’ambiente si riprendeva sempre, ogni volta che un gruppo faceva fagotto per migrare in nuovi terreni di caccia. In larga misura tutto questo cambiò quando incominciammo a praticare l’agricoltura.” In tal modo siamo scesi “di un gradino della piramide alimentare” – diventando “agricoltori quasi a tempo pieno” e per lo più granivori.
“Le città inoltre divennero i luoghi in cui si pianificavano i conflitti con lo scopo di soggiogare le tribù che ancora si dedicavano alla caccia e alla raccolta…”
Inquietante prospettiva: “Nel 2030 il 10 per cento circa della popolazione mondiale vivrà in appena quarantuno megacittà…”
Al momento, tutto è relativo ma gravemente instabile: “in Norvegia un insediamento con duecento abitanti è già considerato urbano, mentre in Giappone sono richiesti almeno cinquantamila abitanti.”
Un problema ecologico, non necessariamente un danno (ma sicuramente un rischio): “gli esseri umani, intenzionalmente o meno, trasportano la flora e la fauna in giro per il mondo da quando hanno cominciato a viaggiare e a commerciare.”
Si parla di farfalle, ma il discorso può essere esteso ad altre animali: “quando una specie effettivamente vi si insedia, la sua sopravvivenza dipende comunque dalla dimensione dell’isola” – più essa è grande, più la prole può diffondersi e moltiplicarsi a sua volta.
“Dalla somma di tutti questi fattori, come hanno scoperto Wilson e MacArthur, deriva un insieme di regole matematiche che rendono il numero di specie su un’isola straordinariamente prevedibile” – e questo è forse lo specifico più umano, ridurre tutto a un’espressione algebrica.
Si sta ora assistendo a un’urbanizzazione di piante e di animali, che io stesso posso testimoniare. Diversamente da oggi, quando ero ragazzo non incontravo quasi mai pennuti variopinti, soprattutto passeri, tordi e rondini. Pare che la situazione sia cambiata anche per la flora, per cui è calato il numero delle specie in campagna, mentre è cresciuto in città.
“Poi arrivarono gli esseri umani con la loro agricoltura e il passero domestico, come altre specie, abbandonò il proprio habitat naturale scegliendo la compagnia umana, nutrendosi di scarti di granaglie e condividendo con noi i tetti di case e stalle. Oltre che, alla fine, le rastrelliere per biciclette.”
E qui vorrei porre un quesito esistenziale: perché non incontro mai passerotti ad Amalfi, così popolato da piccioni e gabbiani? La risposta è forse contenuta nella domanda: hanno trovato concorrenti più grandi e prepotenti di loro (intuisco più i più terrestri primi che i più aerei secondi).
Nel cuore del Cilento, a un centinaio di chilometri di distanza, qualche anno fa scorsi dei passeri che si mettevano a insidiare i nidi di rondini, presso i sotto tetti della stazione di Pisciotta-Palinuro, a solo un chilometro dal mare. Ricordo che talvolta scorgevo mia moglie, che ha vissuto i suoi primi ventisette anni in costiera, ginocchioni e intenta ad ammirare emozionata un passerotto che si era posato nel mio terrazzo di Reggio Emilia. Da precisare che ad Amalfi abitiamo a ridosso della cattedrale, che a Pisciotta risiediamo d’estate a Marina Campagna (nomen omen) e che dalla finestra della camera da letto di Reggio Emilia si scorge un popolare supermercato.

Menno parla di animali cittadini “preadattati”, per cui, per esempio, il “ragno ballerino” sia in natura che i nostri edifici di mattoni, ama i luoghi chiusi, per cui si sente a casa sua anche in città.
Parlando di uccelli, si pone anche la domanda: “E perché alcune specie vanno volando contro i finestrini mentre altre non lo fanno?” Al che io aggiungerei un secondo quesito: perché un’ape non riesce a uscire facilmente dal finestrino di un’auto in corsa, mente una farfalla lo fa tranquillamente? Ai posteri, purché dotti, l’ardua sentenza.
“… Darwin non pensava davvero che si sarebbe riusciti a osservare la selezione naturale in atto.”
forse per carenza di “conoscenze matematiche necessarie per calcolare esattamente quanto tempo sarebbe occorso alla selezione naturale per far sentire il proprio effetto.”
Di fatto, “la selezione naturale non è un processo lineare…”. – e quindi difficilmente prevedibile.
Il trasposone m’inquieta: “mentre il macchinario cellulare separa i cromosomi e li consegna, impacchettati, a quello che diventerà uno spermatozoo, un pezzettino di DNA si stacca ed esce fuori da un cromosoma.” – si tratta di un “gene saltante” che è “capace di separarsi da un cromosoma e reinserirsi da qualche altra parte.”
Ammirevole è la pazienza con cui un entomologo prepara i suoi esperimenti: “Immaginate, soltanto per un attimo, quanta paziente devozione ha avuto! Majerus aveva predisposto dodici gabbie, quindi ogni notte poteva liberare al massimo dodici falene. Ciò significa che nei sei anni dell’esperimento ha trascorso oltre quattrocento notti ad appendere le gabbie, prendere nota, puntare la sveglia a ore antelucane, rimuovere le gabbie, appostarsi con una tazza di caffè e il binocolo dietro la finestra a osservare quali uccelli piombavano sulle prede.” Tutto questo doveva servire a dimostrare “che Biston betularia stava tornando indietro alla sua condizione d’origine sempre grazie all’evoluzione.”
Quando “l’aria si ripulì, i licheni tornarono e cambiarono le carte in tavola per le Biston betularia dalle ali nere”, ormai troppo visibili ai suoi predatori pennuti, ora che i tronchi si erano di nuovo schiariti: sic transit gloria mundi. Le Biston betularia più chiare, iniziarono a scampare di più.
Purtroppo l’eroico Majerus morì prima di pubblicare il risultato delle sue ricerche, che apparve quattro anni dopo il suo decesso.
Menno esemplifica vari esempi nella fauna e nella flora di adattamenti alla realtà cittadina di specie preesistenti. La frammentazione evolutiva esiste quando differenze locali consentono diverse evoluzioni sia fisiche che comportamentali di una stessa specie. Ne deriva che, per esempio, “le linci di Thousand Oaks hanno un DNA diverso da quello della popolazione a sud della Route 101, ma a ovest della I-405, nelle montagne non urbanizzate di Santa Monica.” – l’autostrada le divide, determinando talune differenze genetiche.
“La tendenza dei geni delle popolazioni piccole a diventare sempre più uniformi è chiamata ‘deriva genetica’. La ‘salute genetica’ di una popolazione è minacciata dall’inbreeding e dalla deriva genetica.” – l’inbreeding è la carenza di incroci, che causa il mantenimento di un difetto quando la riproduzione avviene da parenti.
“Ma mentre le popolazioni ancora resistono, la natura casuale della deriva genetica e dell’inbreeding garantisce a ognuna delle popolazioni isolate un mix di geni diverso.”
In natura il medesimo fenomeno assume sempre nuovi e diversi esiti ai fini della sopravvivenza.
Leggendo il saggio, scopro che numerosi comportamenti sociali della nostra specie, dettati dal desiderio di vivere meglio, creano problematiche notevoli alla flora e alla fauna che convive con gli umani. Un esempio è la “salatura delle strade”, quando “la maggior parte delle forme di vita tollera difficilmente una salinità così elevata.” Inoltre, “spesso i metalli pesanti sono tossici, in quanto le molecole che li compongono tendono a legarsi agli enzimi e ad altre proteine, oltre che al DNA, interferendo con il normale funzionamento dell’organismo.”
È stato attestato che “alcune specie di piante e di animali possono evolvere in modo da far fronte alle sostanze più terribili e dannose È che noi esseri umani riversiamo nel loro ambiente.” – che è diventato anche il nostro.
“… anche quelle che riescono a farcela spesso devono pagare un alto prezzo”, pur riuscendo a “tener testa all’inquinamento chimico dell’ambiente in cui vive è una prova della rapida evoluzione urbana.”
Un discorso analogo vale per “ALAN (o Artificial Light at Night), le luci artificiali che mutano l’esistenza di vari invertebrati, che devono coesistere con questa situazione artificiale e decisamente innaturale.”
Per fortuna, quando tutto sembra perduto, la natura consente una più rapida mutazione genetica, grazie alla “variazione genetica permanente”, una specie di “tavolozza si sottili varianti genetiche, perlopiù così simili da non avere effetti sull’evoluzione di una specie per la maggior parte del tempo…” – per cui una nuova urgenza ambientale non coglie mai del tutto impreparata una specie.
“La variazione genetica permanente quindi è una sorta di capitale evolutivo: consente infatti alla specie che lo possiede di attingere ai propri risparmi genetici e produrre rapidamente una qualunque combinazione di geni richiesta da un ambiente cambiato.” – (quasi) tutto è quindi calcolato, anche l’imprevisto.
Ora tocca all’“epigenetica” e l’autore si scusa per tutti questi “termini nuovi ma prometto che questo sarà l’ultimo.” – impegno non mantenuto, per fortuna! “Questa parola si riferisce a un cambiamento delle caratteristiche di un animale o di una pianta che dipende da ‘modifiche cromosomiche senza alterazione della sequenza del DNA.” – cioè di quello che, oltre al DNA; è contenuto nei cromosomi: proteine e molecole varie, che servono talvolta “per smussare o amplificare la voce di un gene…” – il mondo è un affare semplicemente complesso!
L’autore, uno dei più educati e simpatici che abbia letto, dice: “Spero che mi perdonerete per questa breve parentesi dedicata all’epigenetica, alla plasticità, alla selezione soft e hard e a tutte le altre complicazioni che accompagnano l’evoluzione in ambiente urbano” – a te, caro Menno, vorrei dire che ho divorato il tuo pur complesso saggio in te giorni, come se fosse un romanzo d’avventura.
Prendiamo quei pesci siluro di cui dici che si appostano vicino alla riva e che catturano gli ignari piccioni, pappandoseli in un colpo solo. Sono stati importati dall’uomo e immessi nel fiume Po, forse per fini di pesca sportiva, come dici tu, o non so per quale altro motivo. Essendo molto grandi hanno avuto vita facile a vincere la battaglia alimentare nei confronti degli altri pesci. La loro dieta è “a base di pesciolini, gamberi, vermi e molluschi che trovano sul fondale fangoso dei fiumi.” – per quel che ne so, hanno sconvolto l’ecologia preesistente. Tieni presente che il Po, il più grande fiume italiano è abbastanza largo, almeno dalle mie parti, ma assai stretti sono i suoi affluenti che, forse propria a causa di questi enormi pesci, risultano poco abitati dalla fauna minore. È probabile che l’aver così fortemente ridimensionato la fauna ittica, essi siano talora costretti a cercare fuori dal fiume quel che dentro vi scarseggia. Teniamo inoltre presente che i piccioni, piccoli ma succulenti, facevano parte della dieta di numerose famiglie povere, sia in Emilia che altrove.
Questa immissione di pesci così grandi e voraci è stato un disastro ambientale di notevoli proporzioni.
Ecco, si chiede l’autore, che ora si sviluppa un eventuale doppio corso evolutivo: riusciranno i piccioni a evitare questi famelici pesci, oppure i siluri saranno sempre in grado di catturarli? Al momento, a quanto pare, i piccioni scappano dopo ogni attacco, per poi risistemarsi quietamente sulla riva poco dopo.
Un termine che non conoscevo e di cui ti ringrazio: “notogeico”, relativo all’Australia.
A Brisbane “i ropalidi con i loro stiletti che, stile Pinocchio, si allungano e si accorciano, costituiscono un esempio da manuale di specie fitofaghe che si sono evolute dopo essersi trasferite su una nuova pianta introdotta dall’uomo.”
Le piante usano delle sostanze chimiche “per difendersi dagli insetti fitofagi” – le quali sono “impiegate come insetticidi naturali dagli uccelli per disinfestare i nidi.” – quando esse saranno vendute in erboristeria il ciclo si allargherà ulteriormente.
“Pazzesco come intreccio, no?” – Sì!
Ancora più inquietante: alcuni passeracei utilizzano i mozziconi di sigaretta per abbellire i loro nidi. Non solo per motivi estetici, però: “un numero maggiore di mozziconi corrispondevano a un numero minore di acari, mentre gli uccelli che si rifiutavano di trasformare i nidi in posacenere pagavano a caro prezzo la loro mania di pulito.”
Ancora più sfiziose sono le cornacchie che utilizzano i pneumatici delle macchine in corsa per schiacciare le noci: “… una cornacchia che camminava nella direzione di un’auto in avvicinamento, l’ha costretta a frenare e quindi ha rapidamente posato una noce davanti a una delle ruote del veicolo.”
Non da meno sono le cince amanti della panna del latte: “imparavano ad aprire i coperchi o a strappare via il cartoncino strato per strato finché la chiusura non diventava abbastanza sottile da poter essere perforata con il becco appuntito.” – purtroppo tale cuccagna finì quando la gente iniziò a comprare il latte nei supermercati.
Per poter realizzare questi miracoli, gli animali devono avere un’intelligenza “basata sul problem solving” ed essere “neofiliche”, cioè amare le novità: “… gli animali cittadini sono abili risolutori, meno timorosi e attratti da tutte le cose nuove.”
Esopo permettendo, a topolini e ad altri animali la città si presenta ricca di insidie, ma anche provvida di risorse. Diminuisce per gli animali cittadini la FID, che è la “Flight Initiation Distance” – cioè la distanza che un animale si permette di mantenere fra sé e l’umano: con i relativi rischi e potenzialità.
Mediante alcuni arditi esperimenti, è stato comprovato che, per talune cavallette, l’acustica dipende “in parte dall’evoluzione (è naturale), in parte dalla plasticità (è culturale)” – al che mi domando come intitolerebbe il suo libro più famoso Danilo Mainardi, il compianto etologo parmense: L’animale culturale oppure Il più dotto degli animali culturali? Egli differenziava l’uomo dalle altre bestie (m’è scappata!), poiché era l’unico in grado di costruire attrezzi che servivano per fabbricarne altri.
Interessante è l’osservazione che fecero due entomologi nello scoprire che una bottiglia di birra era, per i coleotteri maschi, “abbastanza simile alla parte posteriore di una femmina” – per cui diventa “una trappola evolutiva” in quanto distrae “i maschi dal compito di accoppiarsi con vere femmine”. Solo i maschi capaci di resistere a tali “superfemmine (supersexi ma, ovviamente, supersterili)” potranno accoppiarsi. Battuta di Menno: “Non sarebbe peraltro il primo caso di un matrimonio salvato allontanando il maschio dalle bottiglie di birra”.
Il merlo europeo, con la sua marcia di avvicinamento senza quasi paura agli esseri umani, è diventato un esempio di “speciazione urbana” – cioè di nuova specie nata in città.
“Possiamo parlare di speciazione quando un gran numero di particolari diversi, propri di un animale o di una pianta, evolvono simultaneamente o per tappe successive, determinando un allontanamento della specie considerata dal tipo originario…” – diventando, tassonomicamente, una nuova specie.
“… ogni specie urbana, ovunque si trovi nel mondo, incontrerà un insieme piuttosto simili di concittadini…” – questo perché “gli ecosistemi delle città del mondo stanno diventando via via più simili e le loro comunità di piante e animali, funghi, organismi unicellulari e virus si avvicinano lentamente a formare un’unica biodiversità urbana polivalente.”
Come intuito da Marina Aberti, “lungimirante studiosa di scienza urbana” (immagino di origine italiana), “le città sono interconnesse in una rete che va ben oltre i loro limiti fisici.” – il diffondersi dell’attuale pandemia ne è una tragica prova.
“Ciò non significa che gli ecosistemi urbani saranno completamente separati da quelli naturali: l’ambiente naturale continuerà ad agire come fonte di specie preadattate e di geni che gli ecosistemi urbani possono mettere a frutto. Comunque via via che l’ambiente urbano amplierà la propria influenza diventerà sempre di più un ecosistema a pieno titolo, che scriverà le proprie regole evolutive e andrà avanti col proprio ritmo evolutivo.” – e che Qualcuno, sempre che ci sia, ce la mandi buona!
E il tutto aumenterà, man mano che le città diventeranno sempre più grandi, aumentando in tal caso “la rapidità di cambiamento dell’ambiente”.
Consigli pratici che ci elargisce Menno:
- “Lascia che cresca.” – “sarebbe molto meglio lasciare che gli spazi verdi si assemblino in un modo naturale a partire da specie già presenti abbondantemente presenti altrove in città.”
- “Non necessariamente native.” – “molte delle specie che si sono evolute e adattate con più successo nell’ambiente urbano non sono native.”
- “Parcelle incontaminate.” – quel che già fu in loco, va protetto. La differenza, anche quella antica, più ce n’è, meglio è.
- “Splendido isolamento”: occorre rimandare alcune connessioni e chiudere qualche corridoio di troppo, al fine di mantenere tutte le diversità.
Si tratta di consigli che paiono ma non sono affatto contraddittori, purché si usi il buon senso.
L’opera si chiude con un accento triste: “il paesaggio seminaturale fatto di acquitrini e pascoli incolti tra cui mia aggiravo non esiste più. È stato inglobato nell’espansione di Rotterdam e trasformato nel tipo di ambiente urbano che finora ho magnificato nel libro.”
Dell’inevitabile occorre farsene una ragione. Serve però mantenere la propria memoria e, se possibile, trascriverla per tramandarla a chi verrà in futuro.
“Gli esseri umani sono una specie chiave di volta che non ha precedenti in quanto a grandezza: siamo una iperchiave di volta, una specie di supertramp che agisce da ingegnere ecostemico.”

In La casa vivente di Andrea Staid, si legge, tra l’altro: “La casa del futuro non deve stare dentro le mura dell’appartamento, ma espandersi tra gli imprecisati limiti del fogliame dei parchi, del Terzo paesaggio, in città come in campagna, cercando di integrare giardini dai confini labili nella riorganizzazione dello spazio domestico.” E poi aggiunge: “Quello che auspico per il futuro è una crescita zero”. Che fa intendere auspicabile un ritorno a un’antica sobrietà esistenziale.
In Pensare il futuro, Vincenzo Pepe, Presidente dell’associazione ecologicista Fareambiente, dice: “Con la resilienza miglioriamo la capacità di adattamento, impariamo a convivere con il cambiamento e l’incertezza; alimentiamo la conoscenza e, soprattutto, creiamo le opportunità di autoorganizzazione verso la sostenibilità socio-ambientale perché orientiamo, secondo le nostre esigenze, l’inevitabilità dei cambiamenti.”
Il progresso è visto come un’opportunità, tra l’altro inevitabile, da gestire con saggezza, per cui “il progresso, individuale e collettivo, morale, civile ed economico non può che armonizzarsi con l’ambito naturale di cui siamo parte.”
Si tratta di due posizioni apparentemente antagoniste, essendo però entrambe dettate dal rispetto per l’ambiente. Antonio Martone in NoCity, dice che l’uomo, “animale senza artigli, è a sua volta un ente naturale: cos’altro è l’uomo, se non natura, purissima natura, umana certo, ma pur sempre natura?” Si tratta di una banalità che si tende a dimenticare o a non averne la necessaria consapevolezza.
Personalmente, trovo del buono in entrambe le suddette proposte. L’importante è ribadire per la quinta volta, e che non sia mai l’ultima, l’importanza di questa parola: consapevolezza, che è la capacità di capire chi si è, da dove si viene e dove si è destinati ad andare.
Non esistono arcigni dei, indifferenti alla nostra sorte, interessati solo a emettere fatali sentenze. Saremo noi gli artefici del nostro destino, purché dimostreremo di saper coinvolgere in esso, con pari dignità, tutte le creature e gli enti del cosmo… senza scordare per alcun motivo le cornacchie e le cince, così allegre e beoni! Mi raccomando!
Written by Stefano Pioli