“Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini: una tradizione dell’Afghanistan

Ecco un altro di quei libri, mi dicevo poco fa, e non ce ne sono molti, che non riesco a commentare in itinere, magari fischiettando e con na giarlèina, una pietruzza, in bòca, per calmare la sete.

Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini
Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini

Poi, a pagina 272 del capitolo ventuno de Il cacciatore di aquiloni, cambio idea o forse me ne sbuca in mente una, quando erano state finora tutte schiacciate come noccioline dagli avvenimenti narrati.

Questo è un libro per giovani, diciamo per ragazzi. Mia figlia lo lesse intorno ai sedici anni e le piacque tanto. Piangeva a ogni pagina, mi ha detto, perciò ci mise parecchio tempo a finirlo. A me il titolo sembrava così puerile che, mi dicevo, lo leggerò quando avrò voglia di ricordare quell’aquilone che tenevo in mano scorrazzando insieme a papà, al Campovolo, là dove ora stanno costruendo un… non m’interessa dire cosa stiano costruendo.

È un libro per ragazzi perché io ho avuto la sensazione di essere un ragazzo quando ho iniziato a leggerlo. Poi un ragazzo che sta diventando un giovane uomo. Poi un giovane uomo che sta diventando un uomo ma che dentro di sé resterà sempre un ragazzo.

Il gioco della caccia agli aquiloni non lo capisco granché, ma sicuramente Khaled Hosseini non capirebbe troppo alcuni miei giochi infantili, per esempio la settimana, la piastra e soprattutto iovedo. Nel caso di specie, vari infanti fanno correre in aria ognuno il proprio aquilone e vince quello che, volando meglio degli altri li fa cadere tutti, rimanendo alla fine il solo che svetta su in alto dei cieli.

Amir, l’io narrante dice cheil torneo invernale era un’antica tradizione afghana. La gara iniziava di mattino presto e non si concludeva se non quando in cielo volava solo l’aquilone vincitore. La gente faceva il tifo dai marciapiedi e dai tetti a terrazzo delle case. Le strade si affollavano di combattenti con gli occhi rivolti al cielo. Ogni aquilonista aveva un assistente. Nel mio caso era il fedele Hassan, che teneva la spoletta svolgeva il filo.” – insomma, all’amico spettava il compito più basilare e brigoso.

“… gli afghani sono un popolo indipendente. Hanno care le loro tradizioni, ma detestano le regole. Anche nei combattimenti di aquiloni non ci sono regole: lancia il tuo aquilone, taglia il filo degli avversari e buona fortuna.” – e qui c’è poco da capire.

“La caccia all’aquilone era qualcosa di selvaggio. Orde di cacciatori sciamavano per le strade, travolgendosi l’un l’altro nella corsa furibonda” e Khaled fa il paragone con la corsa dei tori a Pamplona, che però non regge: là uno rischia la propria incolumità, in nome di un bizzarro concetto di valore. Qui no, quel che conta è stroncare l’aquilone avversario, accaparrarselo e chi s’è visto s’è visto.

E si arriva all’eccesso della follia: “Un anno un bambino si arrampicò per prenderne uno. Un ramo si arrampicò su un pino per prenderne uno. Un ramo si ruppe e lui cadde per nove metri. Rimase paralizzato, ma con l’aquilone in mano…” il suo gesto ricorda quel milite che gettò la sua stampella contro il nemico, guadagnandosi in tal assurdo modo una gloria imperitura.

“… e quando un cacciatore riusciva ad afferrare l’aquilone nessuno poteva rubarglielo. Non era una regola. Era una tradizione.” Questa frase mi fa danzare un occhio (e anche l’altro sta accennando a un tip-tap). Quale differenza c’è fra regola e tradizione? Tento di definire le due parole: la regola è un obbligo che si collega a una necessità cogente e attuale, il semaforo rosso indica che ti devi fermare. La tradizione è quel costrutto culturale che t’impone di seguire un codice di comportamento che, se sgarri, sei più o meno criticabile. Se qualcuno va a un matrimonio della figlia in blue jeans e maglietta non rischia una multa, ma di quel fatto increscioso se ne parlerà per anni. Una pena, una volta scontata, ristabilisce una specie di purezza, anche se un minimo di macchia ti resterà attaccato per un bel po’. Chi va contro la tradizione è criticato e considerato un sovversivo. La mia è una distinzione un po’ a braccio, però riesce a chiarire le idee almeno a me.

“Durante il torneo, per i cacciatori il premio più ambito, il trofeo da appendere a una parete del soggiorno, era l’ultimo aquilone che cadeva.” – mozzato da quello vincitore.

“Anche se nel corso degli anni ho visto moltissimi cacciatori di aquiloni, Hassan era di gran lunga il migliore. Si dirigeva con impressionante sicurezza verso il punto in cui pensava sarebbe atterrato il suo obiettivo, molto prima dell’atterraggio, come se avesse una bussola interna” – un ottimo umano da riporto.

“Avevo un anno di più, ma lui correva più veloce.” – perché il corridore doveva semplicemente correre, mentre il cacciatore doveva arrivare prima.

Baba è il papà (suo significato in hindi) di Amir. È una gran persona, molto coraggioso e onesto, ma ha un immenso difetto: vorrebbe che suo figlio fosse il numero uno, e questo reca ansia al ragazzino. Lo stimola dicendo: “Magari quest’anno lo vincerai tu il torneo. Che ne pensi?”

E il figlio lo pone come il necessario e principale obiettivo della sua vita, a cui comincia a credere: “Un’idea stava germogliando nella mia mente: quell’inverno avrei vinto io il torneo. Avrei vinto e avrei dato la caccia all’ultimo aquilone. Poi l’avrei portato a casa per farlo vedere a Baba. Per mostrargli una volta per tutte che ero degno di lui.”

Tutto questo accadeva in un paese che più negletto non si può, poiché “la maggior parte della gente non sapeva nemmeno trovare l’Afghanistan sul mappamondo”. Non so se sia vero (o se sia un fatto importante) ma pare che sia proprio così che si sentono gli afghani, per cui un loro detto un po’ li consola ammonendo che: “… è meglio essere feriti dalla verità che consolati da una menzogna.”

“Una folata di vento fece alzare il mio aquilone” – e io, lettore, non so se anche lui, scrittore non posso non gioire quando l’io narrante quasi fa vibrare la pagina, scrivendo: “Chiusi gli occhi e allentai la presa sul filo. Il vento lo faceva scorrere tra le mie dita incidendo tagli profondi. E poi… Non ebbi il bisogno di ascoltare il boato della folla. Né di vedere quello che accadeva attorno a me. Hassan urlava di gioia e mi abbracciava. ‘Bravo! Bravo! Amir agha!” E tu, ancora piccolo (come lo sono ora io) io narrante completi la sua esultanza gridando: “Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!”

Hai condiviso col tuo gregario la vittoria di quest’importante tappa della tua vita: “… Mio padre era finalmente orgoglioso di me.”

Il sacro rito si sarebbe consumato seguendo i tre momenti essenziali: “Ammenda. Riparazione. Redenzione. E poi? Be’… il lieto fine, naturalmente.” – la Resurrezione!

Succede qualcosa d’imprevisto: Hassan è riuscito ad accaparrarsi l’aquilone perdente, quello che conferisce la gloria. Assef, che rappresenta nel racconto il ragazzino crudele che è necessario per far risaltare il valore di un martirio, sequestra Hassan e lo violenta, dopo averlo deriso: “Un hazara fedele. Fedele come un cane.”

Gli hazara sono dei cittadini afghani di serie b, o c, se non d, che non possono competere con i pashtun (come lo è Amir e anche quel giovane perverso), destinati alla subordinazione, quando va a loro bene. Inoltre sono sciiti, che da quelle parti non è proprio il massimo.

Hassan dice:Amir agha e io siamo amici.” Assef dice: “Sei patetico! Un giorno ti sveglierai da questo tuo sogno e scoprirai che razza di amico è.” – e poi esige che Hassan gli consegni l’aquilone.

“Hassan si chinò e raccolse un sasso” – poi il gesto di volerlo scagliare eccita il sadismo di Assef.

Assisti a questa scena (e continui a viverla mentre la narri, immagino) e rimani dubbioso su quel che devi fare: “Avrei potuto tornare nel vicolo, difendere Hassan, come colui aveva difeso me decine di volte, e affrontarne le conseguenze. O scappare.” La seconda che hai detto alla fine ti risulta la meno valorosa, ma quella più conveniente.  “Scappai.”

Ora credi a un’assurdità che potrebbe giustificare la tua viltà (ma non si compirà mai quel miracolo): “Forse Hassan era il prezzo che dovevo pagare, l’agnello da sacrificare per conquistare Baba. Era un prezzo equo? La risposta mi si presentò spontaneamente, prima che potessi respingerla: non era solo un hazara?” Non era un giovane uomo, era un cucciolo di una razza inferiore.

“Il chapan di Hassan era macchiato di fango e la camicia era strappata sotto i colletto.” Vi incontrate, finalmente: “Si fermò. Barcollava come se stesse per cadere. Poi ritrovò l’equilibrio e mi consegnò l’aquilone.” Rimanete qualche secondo in silenzio. Poi tu lasci a lui l’onere di dire qualcosa: “… la voce gli s’incrinò. Aprì e richiuse la bocca due o tre volte, senza riuscire a parlare.”

Noti, che, oltre che al chapanmacchiato di fango” e alla camicia “strappata sotto il colletto”, ha (fingi però di non vedere) “la chiazza scura sul fondo dei suoi pantaloni e le gocce che gli cadevano tra le gambe lasciando macchioline sulla neve.”

Il pensiero di Hassan è imperscrutabile, ma le sue parole sono “Agha sahib sarà preoccupato.” – Baba, il tuo valoroso padre.

Gli adulti, in segno di rispetto, sono chiamati “kaka, zio, ogni uomo, e khala, zia, ogni donna.Un tempo era così anche da noi. Ancor oggi, in alcuni paesi non troppo rovinati dall’evo moderno (almeno fino a pochi anni fa era così) si chiamava zio la persona che era anziana come i tuoi genitori. Akou era lo zio in Tibet. Fra i pigmei il fratello di tua madre è il punto di riferimento di ogni infante: mater semper certa est, avunculus ere semper.

Non avrei dovuto sentirmi così. Dopotutto Baba e io eravamo finalmente amici.” – e ora puoi dire che “finalmente avevo ciò che desideravo da tanti anni. Solo che ora mi sentivo vuoto come quella piscina in cui lasciavo dondolare le gambe.” E confessi: Ho assistito allo stupro di Hassan” – e “Baba si mosse nel sonno”.

Decidi di allontanare da te il tuo gregario, che ormai serviva solo ad aumentare la tua angoscia:perché quando era vicino a me mi sentivo mancare l’ossigeno. Ma non riuscivo a liberarmi della sua presenza.”

Egli non ne voleva sapere di mancare alla sua fedeltà nei confronti tuoi e di tuo padre. Come ricompensa, tu chiedi a Baba: “Hai mai pensato di cambiare i servi?” Baba s’infuria contro di te e la cosa ti sconvolge e non puoi fare a meno di dirgli: “Non lo farò più, Baba, perdonami.”

Se un tuo compagno chiacchierava durante le lezioni, il maestro “infilava una verga di metallo tra le dita della vittima e poi le stringeva con forza.” Hassan teme che la cosa potesse capitare anche a te: “Anch’io chiacchieravo, ma mio padre era ricco e tutti lo sapevano, ecco perché venivo risparmiato.”

Colpisci il tuo fido gregario con delle melagranesu una spalla. Il succo schizzò sul suo viso” e gli ordini di colpirti. Lui non ci pensa neppure e tu continui a colpirlo, dandogli del vigliacco.

“Poi Hassan raccolse una melagrana e mi si avvicinò. La spaccò in due e la schiacciò contro la propria fronte.”e ha infine l’ardire di chiederti: “Sei soddisfatto? Ti senti meglio adesso?

Assef, conducendo i due genitori, come se fosse lui la loro guida, ti porta un dono per il tuo compleanno. Mal volentieri riporto la sua descrizione: “Indossava calzoni azzurri, camicia di cotone di seta rossa e mocassini neri. I capelli biondi erano accuratamente pettinati all’indietro. Profumava di colonia. Era la personificazione del figlio che ogni genitore sogna. Alto, forte, bello, intelligente, ben vestito e ben educato.”e aspirante nazista, come avevi già avuto modo di appurare: infatti ti regala una biografia di Hitler, il suo grande mito.

“… dietro a quella facciata amabile vedevo il lampo di follia che si nascondeva nei suoi occhi.” Il libro fece la fine che meritava: Lo buttai nella spazzatura.”

Capisti che ormai tu e Hassan non potevate più convivere sotto il medesimo tetto.

Alzai il materasso di Hassan e vi infilai sotto una manciata di banconote e il mio orologio.” Dopo un po’ il tuo piano si conclude con un successo: “Senza troppi preamboli Baba chiese: ‘Hassan, hai rubato tu quel denaro? Hai rubato tu l’orologio di Amir?’” Hassan con un filo di voce dice di sì.

“… le parole di Baba mi lasciarono senza fiato. ‘Ti perdono.’” Non solo, ma poiché Ali ha deciso di partire, Baba “scoppiò a piangere. Mi sconvolse vedere un adulto singhiozzare. I padri non piangono.” – specie quelli che sono come Baba. “Non dimenticherò mai la voce di Baba, né il dolore e la paura che sentii nella sua supplica.” Ti correggo: a volte piangono quando perdono un figlio.

Brutto periodo per l’Afghanistan. Allora comandavano “i rafiq, i compagni” – che “erano dappertutto.” – come i vermi che prosperano in un cadavere ormai putrefatto: “nemmeno a scuola mancavano i rafiq, che insegnavano ai bambini come spiare i genitori, che cosa ascoltare e a chi riferire.”

Baba e figlio decidono di fuggire da quel paese così martoriato e pericoloso, di andarsene verso il Pakistan e poi… chissà dove…

Khaled Hosseini
Khaled Hosseini

Un soldatocon voce impastata e un pesante accento russovuole abusare di una donna. Baba interviene, mettendo a rischio la sua vita e forse anche la tua. E tu: “Devi fare sempre l’eroe? Pensai con il cuore in gola. Non puoi lasciar perdere una volta tanto? Ma sapevo che non era nella sua natura.” E finisci per ritornare “all’inverno di sei anni prima, quando ero rimasto nascosto dietro l’angolo del vicolo a spiare Kamal e Wali che inchiodavano Hassan a terra. A osservare i fianchi di Assef che si sollevavano e si abbassavano ritmicamente. Tutto per un aquilone.” – No, caro mio, non era solo l’aquilone che era in gioco, ma qualcosa di più importante: la supremazia dell’uno sull’altro, la volontà di punire chi era nato per essere un soccombente, un misero hasara di fede sciita.

Ora tu e tuo padre che siete?Dopo tutto quello che Baba aveva sognato e costruito, per cui aveva lavorato e lottato, la sua vita era ridotta a due valigie e a un figlio deludente.” Ormai siete irrimediabilmente diretti a Yankeeland, in cerca di salvezza. “L’idea dell’America piaceva a Baba. Ma la vita in America gli fece venire l’ulcera.”

A volte perde anche la testa, Baba: un negoziante gli chiede di vedere il suo documento quando egli porge un assegno. E lui vorrebbe spaccare tutto, maledicendo quella gente che non crede nella sua parola. Tu lo porti via, chiedendo umilmente scusa, temendo un suo arresto.

Quando prendi “il diploma di scuola media superiore”, tuo padre è “moftakhir,”, è “orgoglioso”. Tu fosti “felice di essere l’oggetto di quello sguardo pieno di fierezza.”

Eravate negli Stati Uniti da due annie ancora mi stupivo dell’immensità del paese.” E Pensavi alla tua Kabul, che “era diventata una città di spettri per me. Di spettri con il labbro leporino.” Mi ero scordato di riportare il fatto che Hassan aveva un labbro leporino, quasi fosse un marchio della sua inferiorità. E ti aveva un po’ seccato il fatto che Baba l’aveva fatto operare. Ora è lì, in quel paese, così distante dalle tue gioie e dai tuoi rimorsi, in quel “luogo senza spettri, senza ricordi, senza peccati. Se non per altro, almeno per questo io abbracciai l’America.”

Le storie d’amore altrui non sono il mio argomento preferito, ma sono contento che tu conosca Soraya, una splendida ragazza afghana, il cui “elegante naso aquilino ricordava quello di un’antica principessa persiana. I suoi occhi castani, ombreggiati da lunghe ciglia, incontrarono i miei per un attimo, poi volarono via.”

Un particolare che mi dà da pensare: “Prima che si allontanasse, vidi che su una guancia aveva una voglia marrone a orma di luna crescente.” Chissà come sarebbero nati gli eventuali figli di Soraya e di quel disgraziatissimo hasara. Va però tenuto presente che il padre della ragazza è un blasonato generale che non ama troppo quel popolo miserabile. E non avrebbe mai consentito alle nozze. Ancora più m’intriga una frase che lei dice: “Sono le storie tristi che rendono belli i libri.” Lo nego! A thing of beauty is a joy for ever! E al contempo concordo con la graziosissima ragazza: si ricorda di più un momento tragico di uno tranquillo.

Baba ha un tumore maligno, un “microcarcinoma. Diffuso. Non operabile.” – mortale. E tu gli chiedi cosa sarà di te senza di lui. Baba non è mai stato un maestro di psicologia e ti dice: “Hai ventun anni, Amir, sei un uomo! Chiedi che cosa ti succederà? E io che in tutti questi anni non ho fatto alto che insegnarti a non porre mai quella domanda!” Dici a Baba: “Voglio che tu chieda al generale Taheri la mano di sua figlia.” Al che: “Le labbra secche di Baba si allargarono in un sorriso. Una chiazza verde su una foglia ingiallita. ‘Sei sicuro?’” Confermi con una sicurezza che lui non può fare a meno di ammirare.

Qualche tempo dopo il tuo bel matrimonio, “Baba non si svegliò.” E tu… “Mentre i versetti del Corano echeggiavano nella moschea, pensavo al racconto della lotta di Baba con l’orso in Belucistan. Tutta la sua vita era stata una lotta contro gli orsi. Aveva perso la sua giovane sposa. Aveva allevato un figlio da solo. Aveva dovuto lasciare il suo watan. E poi la povertà. L’umiliazione.”

Ora con chi stava lottando? Chi poteva ormai dubitare del suo valore?

“Le ultime macchine si stavano dirigendo verso Mission Boulevard. Anche noi avremmo lasciato il cimitero fra breve. Baba sarebbe rimasto da solo, per la prima volta.” dicono che ci voglia sempre la prima volta, in tutte le cose.

Il padre di Soraya è un uomo tutto d’un pezzo. Non lavora perché non accetta di essere umiliato, accettando “un lavoro non conforme al suo rango.” – egli aspetta di tornare in patria per ricoprire l’antico ruolo, qualunque esso fosse.

Soraya ti racconta di un suo antico, maledetto peccato. Tu la perdoni, pur sentendone il peso, perché pensi al tuo, di peso. Soraya è forse sterile. Quasi certamente e tu: hai “la sensazione di percepire il vuoto del suo utero, come se fosse una cosa viva.” – e quel vuoto “uscire da Soraya e frapporsi tra lei e me. Dormire tra noi. Come un neonato.”

Ti telefona Rahim Khan, di cui, colpevolmente, non ho parlato finora. È stato l’unico adulto che ha cercato di capirti e che ha valorizzato il tuo talento di scrittore: un amico come pochi. Anzi, uno dei pochi, se non l’unico, che hai. E ti dice: “Vieni. Esiste un modo per tornare ad essere buoni.” – e poi riappende la cornetta.

Quando lo incontri in Pakistan ti dice che, tra l’altro, è ammalato. Tu lo inviti a venire in America, dove ci sono ottimi dottori; e lui ti dice: “Vedo che l’America ti ha inculcato l’ottimismo che l’ha resa grande. Benissimo. Noi afghani siamo gente malinconica, non trovi?” Anche a me è parso che sia così.

“Accettiamo la sconfitta e la sofferenza come fatti ineluttabili, anzi come necessità…” – lui invece crede “nella volontà divina.” – ed è già beato prima di andarsene. Il male lo stroncherà presto, prima dell’autunno. Ma non sembra aver fretta.

Ali, il padre di Hassan, in compagnia del cugino, ha calpestato una mina:Esiste un modo di morire più afghano di questo, Amir jan?” Non lo so, siete un popolo strano, voi Afghani, con quell’acca che pare muta dallo sgomento e che a nessuno viene in mente di togliere.

Arrivati i talebani, tutto dicono: “La guerra è finita…” E inizia il nuovo inferno. Tra l’altro “i talebani proibirono i combattimenti con gli aquiloni.

Rahim ha con sé una lettera di Hassan, corredata di una sua foto con un bimbo, il figlio Sohrab. Una verità che vale abbastanza: tu e Hassan siano fratellastri. Avete un Baba in comune.

“Come avevo potuto essere così cieco? I segnali erano palesi da sempre, ma non avevo saputo interpretarli. Ora mi tornavano tutti in mente…” – ricordo solo il primo: “Baba che fa operare il labbro leporino di Hassan” – che forse un po’ è rimasto, appena appena, una specie marchio di Abele (“almeno una piccola cicatrice sul labbro”).

Un dettaglio tragico, anche se assai frequente a Kabul: una squadraccia di talebani fecero la loro giustizia.

A quel punto lo trascinarono in strada.”
“Oh, no!”
“… e gli ordinarono di inginocchiarsi.”
“No. Dio, no.”
“… e gli spararono alla nuca.”
“No.”
“Farzana si lanciò su di loro grìdando…”
“No.”
“… spararono anche a lei. Per legittima difesa, dissero…”
“Riuscivo solo a mormorare: ‘No. No. No…’”

Sei sconvolto. Accetti la pazzia che Rahim ti ha proposto. Tornare a Kabul per recuperare tuo nipote. Ti rechi in quel ricettacolo di anime sperdute, in cui poteva essere stato accolto tuo nipote. Ma ora non c’è più, qualcuno l’ha preso. Il direttore ti ha detto una cosa importante: “Lei è un uomo che sa cos’è l’onore, Amir agha. Un vero afghano.”

Inizia ora la tua catarsi: “Prima di uscire, avevo nascosto una manciata di banconote sotto il materasso. Una cosa che avevo già fatto, ventisei anni prima.” – con un altro spirito, no?

Ti chiede qualche soldo un mendicante vecchio puzzolente,un misto di latte cagliato e piedi sporchi”, che era stato un professore.  Scopri per caso che aveva conosciuto tua madre ed è lui che ti fa la carità, regalandoti una frase di lei, che le era uscita mentre ti stava aspettando: “Si prova una felicità così grande solo quando la si sta per perdere.”

Poco dopo, a pagina 272, ho deciso di tornare indietro e di iniziare a scrivere questa reazione. Non mi si chieda perché: non lo so.

È il capitolo ventiduesimo il più bello?

È il capitolo ventiduesimo il più duro?

È il capitolo ventiduesimo il più…

Il capitolo ventiduesimo è essenzialmente quello che unisce e al contempo separa il capitolo ventunesimo da quello ventitreesimo. Ma è così bello e duro che non intendo sporcarlo con la mia scrittura. Mi limito a riportare una frase, detta da qualcuno che conosciamo bene e che si trova lì non a caso, a comandare quei lupi bramosi di sangue.”

“Non sai che cosa significhi l’aggettivo ‘liberatorio’ finché non ti trovi in una stanza con decine di bersagli e lasci volare le pallottole, senza colpa e senza rimorso, con la consapevolezza che stai eseguendo il volere di Dio. Un’esperienza mozzafiato.” – a parlare è stato il folle capobranco.

Cosa ci fai tu, Amir, in quel luogo dove non serve il coraggio, ma dove occorre far violenza su se stessi al solo fine di tentare un’improbabile sopravvivenza.

Poco fa pensavi:Amir, questo non sei tu. Tu sei uno senza palle. Sei fatto così. In fondo su questo non hai mai mentito a te stesso. Non c’è niente di male a esser vigliacchi, basta usare prudenza. Ma quando un vigliacco si dimentica di esserlo… che Dio lo aiuti.” Queste considerazioni ti trasformano in una specie di fratello ai miei occhi. Anch’io mi rivolgo ogni tanto a Dio, come extrema ratio. E mentre lo prego mi dico: ma come sono ipocrita!

Intanto la belva continua a narrare:Di casa in casa. Smettevamo solo per mangiare e pregare”. E ancora: “Abbiamo abbandonato i corpi per le strade e se i parenti cercavano di riportarli a casa sparavamo anche a loro. Li abbiamo lasciati lì per parecchi giorni. Per i cani. Carne di cane per cani.”

Solenopsis invicta Buren - Formiche di fuoco
Solenopsis invicta Buren – Formiche di fuoco

Scrisse il sociobiologo Edward O. Wilson a proposito delle formiche di fuoco, che in occasione del concorso per diventare regina, le operaie le ammazzano tutte, infilzando brutalmente alla bisogna, senza esitazione, anche le proprie madri, sorelle e zie, tranne una, che sarà la benedetta dalla sorte. In quel caso la logica è di tipo feromonico e lo scopo degli individui è di perpetuare la specie. Qui, quale logica e quale scopo potrebbero esservi?

Un piccolissimo e maligno spoiling: di solito vince Golia, ma un Davide su un miliardo ce la può fare.

Alla fine non ho saputo proprio resistere: ho riportato tutto quello che avrei dovuto tacere. Quella ridicola imitazione del diavolo ti ha quasi del tutto rotto; e quindi, forza!, potrai finalmente ricostruirti! Pensa che “il colpo ha spaccato il labbro superiore in due, proprio nel mezzo. Come un labbro leporino” – ormai, si dice a Reggio, sei a bolla (quella del muratore): potrai rifondare la tua anima.

Di quel che ti scrive Rahim Kahan, colgo la frase che mi pare la più significativa (tutta lo è, significativa): “So che alla fine Dio perdonerà. Perdonerà tuo padre, me e anche te. Spero che tu possa fare la stessa cosa. Perdona tuo padre, se puoi. Perdona me, se vuoi. Ma soprattutto perdona te stesso.”

Perdere e perdonare hanno qualcosa in comune: il dare (via, facendo perire qualcosa; oppure il mantenere anche per sé quel che si dona all’Altro): nella vita occorre scegliere se distruggere o costruire, senza aver poi rimpianti, possibilmente.

“Qualcuno ha detto che in Afghanistan ci sono molti bambini, ma manca l’infanzia.” – e sono scomparsi i genitori o, se ci sono, faticano a comportarsi come tali.

Shroab ha ereditato dal padre la bontà: “Papà diceva che è sbagliato far del male anche alle persone cattive, perché loro non sanno comportarsi diversamente e perché a volte diventano buone.”

In guerra i buoni diventano, per reazione, abbastanza cattivi, e i cattivi si tramutano in mostri. Poi ci sono i santi, ma è un mestiere che non mi sento di consigliare a un bambino.

Vuoi portare Shroab in America e gli prometti una cosa che poi ti diranno che non è possibile.  Con la conseguenza che Shroab cessa di confidare in te e nella vita. Tu, per merito non so di che (di un qualche Dio, qualcuno direbbe) riesci a salvarlo, ma non a restituirgli quello a cui sta ora rinunciando: la parola.

Ma non disperi… ora anche lui sapeva che, ormai “… non aveva che me e l’America. Non era neppure un destino malvagio, ma io non potevo certamente dirglielo. Il futuro era un lusso per un bambino che aveva la mente abitata dai demoni.”

Un passaggio che porta bene: “… dall’Afghanistan in America, da una condizione di sicura sofferenza a una di dolorosa incertezza.” – sempre dalle mie parti dicono: Piuttosto che nulla, è meglio piuttosto.

Tuo padre era un uomo diviso”, aveva scritto Rahim Khan nella sua lettera. “Io avevo rappresentato la metà legittima, socialmente ineccepibile, l’involontaria incarnazione della sua colpa.”: l’orgoglio che si mischia al disonore.

Hassan era “l’altra metà di Baba. La metà misconosciuta. La metà che aveva ereditato quanto di nobile e puro c’era nel suo animo. La metà che, nel segreto del suo cuore, forse considerava il suo vero figlio.” – un figlio tutto per lui, che non si sarebbe però mai elevato su di lui. Un figlio servo.

“Il silenzio di Shroab non era il silenzio di chi vuole imporre le proprie convinzioni senza parlare. Era il silenzio di chi si era rifugiato in un angolo buio e non vuole più contati con l’esterno.”: un autismo indotto da una esistenza tragica.

“Non lanciavo un aquilone da un quarto di secolo, ma improvvisamente mi parve di avere di nuovo dodici anni. I miei gesti erano dettati da un antico istinto.” Grazie a quel telo di carta romboidale riesci a compiere un mezzo miracolo: “Era solo un sorriso, niente di più.”

Poco prima avevi visto “il piccolo pomo d’Adamo di Shroab salire e scendere come per deglutire. il vento gli scompigliava i capelli. Mi parve di vederlo annuire.” È fatta! È davvero fatta? Speriamo!

Amir, io non voglio parlar male del tuo aquilone e del tuo essere un campione di quella disciplina. Si tratta di un gioco bellissimo. Anche il gioco della guerra lo è, finché non si ammazza qualcuno. Quand’ero ragazzo si formavano delle bande che guerreggiavano per gioco. Non si rompeva nulla, si recava soltanto un po’ di confusione nell’accampamento nemico.

I miei avi invece avevano fatto davvero, straziando un paese, o come capitò al Piero della canzone di De André, facendosi ammazzare per aver esitato un attimo prima di colpire il nemico.

Lo scopo del tuo gioco era che dovevi troncare l’aquilone altrui e accaparrartelo: poi esso diventava tuo, e quell’Altro l’aveva ormai perso per sempre. Un gioco bello che forma la mente. Seguendo questa logica, da adulto non giocherai più, ma creerai (o subirai) dolore e giungerai a un punto tale che non potrai più tornare indietro.

Un giorno ti presenterò… Scusami, già lo conoscerai sicuramente, il signor Dick, di cui parla David Copperfield, il quale dice, verso la fine delle sue memorie: “Tra i miei maschietti, in questo periodo di vacanze estive, vedo un vecchio che fa giganteschi aquiloni e che li guarda in aria con un diletto per il quale non vi sono parole…”

L’aquilone che preferisco è quello che non divide le persone ma che, seppur per un attimo, le rende consce di quell’Unità che in realtà sono.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni, Piemme, 2007

 

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