“Incubi grotteschi di esiliati sognatori” di Antonio Pilato: le paure siamo noi
Il ravennate Antonio Pilato (1990) esordisce nella narrativa con Incubi grotteschi di esiliati sognatori. Racconti, edito ad aprile 2021 da Mario Vallone editore, con due ristampe in pochi mesi. Si potrebbe definire un piccolo caso letterario, per vendite, per recensioni, per esposizione mediatica.

Ma sarà tutto oro quel che luccica? Ho seguito a distanza questo autore, finché ho ritento cosa buona e giusta leggere la sua raccolta di racconti, ma “è quando si acquisisce il temporaneo coraggio di sbirciare al di là dell’universo che tutto diviene inevitabilmente follia!”
Niente di nuovo sotto il sole! Eh, sarebbe facile dirlo, visto che si tratta di una raccolta di racconti, per lo più molto brevi, in cui l’horror, il thriller-noir, l’assurdo, il weird si ritrovano un po’ tutti insieme. Poi traspirano le atmosfere di Poe, di Lovecraft, Chambers, solo per cedere alle citazioni più facili e immediate.
Invece no. Sarebbe un grosso errore di giudizio. Siamo di fronte a un autore che ama un ventaglio di scrittori e di generi molto ampio sino a farne a sua volta scrittura che porta dentro ricchi spazi di libera fantasia e ibridazioni colte e sapientemente dosate, dalla filosofia dell’esistenza alle poetiche decadenti e oltre, per ritornare indietro fino al Padre della letteratura italiana, il Sommo Poeta.
La formazione (laurea in Scienze del Comportamento e delle Relazioni Sociali nel 2013 e in Psicologia delle Organizzazioni e dei Servizi nel 2015) e la professione (psicopedagogista) dell’autore mettono al servizio della narrazione la capacità di scrutare dentro e fuori dalle finestre dell’esistenza, della materia/realtà – carne, sangue, ossa, umori e odori – e dello spirito, mente, sogno, incubo, mistero e, forse, finzione.
Lasciarsi trascinare dalla lettura, pagina dopo pagina, senza aspettarsi niente e trovarsi a scoprire nuovi mondi, nuovi significati, che via via si sbloccano, come in un videogame. Questo è l’effetto che fa la lettura degli Incubi grotteschi: ci lascia esiliati sognatori in una terra di mezzo tra un mondo di sotto e uno di sopra, tra “lande desolate e terre inospitali, da un lato, e qualcosa di straordinario” dall’altro. Tra inizi e fini che, a volte, si confondono.
Le confusioni innate, Le circostanze curiose, Le razionalità colorate sono le tre sezioni, ognuna contenente quattro racconti, che ci gettano letteralmente in faccia la psicopatologica condizione di un’esistenza che non esita a far deviare improvvisamente la norma(lità) oltre il limite della razionalità, superandola in una condizione dolente e straniante. Improvvisi cambi d’umore, di visione, dalla veglia al sonno, dall’incubo all’autoanalisi, aprono la narrazione a segreti microcosmi densi d’aggettivazione, continua, abbondante, puntigliosa.

Ma nel fallace tentativo umano d’accedere a una conoscenza superiore, anzi assoluta, di ogni cosa, i protagonisti delle pagine di Antonio Pilato sono destinati a pagare un prezzo altissimo, fin troppo.
Il rovesciamento dell’Io, la perdita di controllo di una realtà in cui l’orrore è tutt’altro che onirico, dove terribili segreti a lungo custoditi squarciano corpi e menti, riprendendosi la libertà di vagare divorando letteralmente “nella notte più buia”, che i protagonisti vivono in sé e per conto dell’intera umana natura, perché la realtà, con le sue scelte tra razionalità e istinto, è il più grande degli incubi senza perdono.
Difficile non apprezzare la narrazione del racconto La notte più buia, in una “corsa impazzita” che è “fuga dalla realtà”, un sogno vivido che blocca il corpo, ma non la mente, “intrappolata in un pensiero rivissuto in maniera soffocante”. Deliziosa reminiscenza dantesca, alla “fine dell’alveo, foce morta”, col protagonista del racconto che sviene, sopraffatto dall’orrore e dalla disperazione, per trovarsi di fronte la scena di un terribile contrappasso inflitto da esseri immondi a un suo compagno di misfatto, “sadico ribaltamento delle parti”.
Benvenuta, dunque, a questa prosa sontuosa di misurata, martellante algidità, che pure nell’akmé è capace di fare sentire un passo indietro (o avanti?) il lettore, di creare quel minimo, ma necessario distacco, atto ad acuire una ‘piacevole’ sensazione di disagio, di scollamento, di godimento estetico di questa bella promessa del weird italiano.
Lettura consigliata certamente agli amanti del genere, ma anche a chi sia curioso di ampliare i propri gusti letterari.
Written by Katia Debora Melis