“Pensare il futuro” di Vincenzo Pepe: dare vita a un nuovo modello di ambientalismo

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Conobbi Vincenzo Pepe per caso su un treno. Di lui mi colpì, oltre che la simpatia, la capacità di trasmettere i propri valori senza cercare d’imporli, come se si trattasse di punti di vista legittimi come tanti altri. Credo che questo sia l’essenza della filosofia: non enunciare una verità assoluta, quanto esibire la propria, sapendo bene quanto essa, come suggerì a suo tempo Heidegger, sia fuggevole e pur sempre meritevole di essere perseguita.

Pensare il futuro di Vincenzo Pepe
Pensare il futuro di Vincenzo Pepe

Il primo capitolo è La corazza. Comincia con la sua professione di fede filosofica: “Credere nelle proprie idee, diffondere valori positivi e lottare per realizzare progetti che possono migliorare la vita quotidiana degli esseri umani è quanto di più difficile e affascinante si può scegliere di fare nella vita.” – non c’è null’altro che ti fissi maggiormente a quell’ideale che si chiama umanesimo.

Si tratta di una sfida che ci impone di cercare dentro di noi le doti migliori per metterci alla prova, fino a scoprire chi siamo.”

Sto pensando a Diogene che, di notte e con una lanterna, cercava l’uomo. Si tratta ovviamente di una metafora. A volte il nostro fine ci è più vicino di quello che immaginiamo.

Fare dell’ambiente la propria missione vuol dire coltivare al massimo la facoltà, tipicamente umana, del libero pensiero e unirla al pragmatismo dell’azione, alla consapevolezza della ricerca delle soluzioni.”

In quel casuale incontro, Pepe raccontò dell’incontro a Capri con Moravia, che gli disse: “Lei è giovane, ancora molta strada l’aspetta. Si accorgerà di quanto è vitale difendere le proprie idee. Ci vuole però una specie di ‘corazza’ che nessuno può scalfire e oltrepassare, all’interno della quale si possono custodire i nostri sogni.”

Credo, mio casuale e per questo non meno caro amico, che un libro rappresenti bene questa corazza. L’episodio che hai riportato nel libro fa parte delle cose che vanno salvate. Una copia di quel ricordo l’hai trasmessa tu, una copia la sto diffondendo io.

Scrivere significa esibire, mettere in circolazione e quindi gettare allo sbaraglio, ma è anche salvaguardare per sempre un attimo della propria vita: parafrasando il mio amato Keats, a thing of truth is a joy for ever.

Il secondo capitolo è Radici e visioni. In esso spieghi nei dettagli quel che per te è l’ambiente, ed è un altro illustre scrittore, un filosofo, Hans-Georg Gadamer a donartelo (certo che hai avuto la fortuna d’incontrare molte persone notevoli nella vita!): “L’ambiente è la libertà. E la libertà è la responsabilità.”

Il che significa anche che non bisogna temere le innovazioni, il variare delle modalità, la creazione di nuove infrastrutture: “… il futuro sostenibile si costruisce nella crescita, nell’innovazione, nella ricerca delle soluzioni, nella valorizzazioni delle molte realtà del pianeta e non nella paura e nell’immobilismo.”

Il terzo capitolo è Fareambiente. Ossia ambientalismo che ragiona. Tu sei promotore e presidente dell’associazione FareAmbiente, che fin dal 2007 ha cercato di “cambiare marcia, invertire la rotta sul tema della difesa dell’ambiente, la cui idea principale è, per quanto ho capito, promuovere l’idea che il progresso, individuale e collettivo, morale, civile ed economico non può che armonizzarsi con l’ambito naturale di cui siamo parte.”

Questa è la ragione per cui occorrerimettere in moto le intelligenze, dare spazio alla ricerca, sperimentare soluzioni investire sull’innovazione tecnologica e sulla formazione delle nuove generazioni.”

Non è quindi un ritorno all’antico, ma utilizzare la cultura, che è la somma di tutti gli antichi possibili, per creare un nuovo che sia utilizzabile al meglio oggi, nonché domani. Si temono gli effetti disastrosi della cattiva chimica. Si sappia però che “noi siamo fatti di elementi chimici, ‘tutto è chimica…’”.

Il quarto capitolo è Che tempo fai? Ormai l’opinione pubblica ha individuato “un perfetto capro espiatorio”: “l’anidride carbonica”. Prioritario è porsi il quesito: “Ma quanto è fondamentale, giusto e utile interrogarsi soltanto sulla questione ‘responsabilità dei cambiamenti climatici’“? – come se il resto delle cose andasse a gonfie vele.

“… ridurre le emissioni, così come da Kyoto in poi ci siamo ripromessi di fare, è certamente utile per ridurre l’effetto serra, ma chi può dire che basterà?”

Si tenga presente chesecondo il diritto internazionale l’accordo non giuridicamente vincolante, ovvero non è previsto alcun tipo di sanzione e nessun obbligo per i Paesi che non rimangono nei parametri fissati”, semmai solo un dover giustificare il “mancato raggiungimento degli obiettivi alla comunità internazionale e all’opinione pubblica.Un po’ poco, stante la gravità della situazione.

Spesso parli di resilienza ambientale, cioè della capacità di un ente di assorbire un urto pernicioso e parla, alla fine del capitolo, dell’esperienza islandese: “si aspira la CO2 dall’atmosfera per iniettarla sottoterra, a centinaia di metri di profondità, dove il gas si trasforma in roccia…” – un po’ meglio di quel che capita nella cosiddetta terra dei fuochi, dove si nascondono ben altri veleni!

Il quinto capitolo è Sostenibilità e resilienza. Il nostro futuro. Bisogna “denunciare quei paradigmi dello sviluppo che possono portare a distruggere gli ambienti naturali, senza per questo additare tutte le forme di sviluppo e progresso come dannose in sé.

Noi viviamo nell’Antropocene,ovvero l’era nella quale la presenza della specie umana sta modificando geologicamente e biologicamente il pianeta, producendo tracce tangibili di tale trasformazione.”

FareAmbiente - Vincenzo Pepe
FareAmbiente – Vincenzo Pepe

Da quest’era non ci è lecito fuggire. Ed è impossibile tornare indietro, al di là che possa essere giusto. Occorre perciò guardare avanti e pensare al futuro. Chi dice che si stava meglio quando si stava peggio rinuncerebbe al cellulare e al forno a microonde?

“Con la resilienza miglioriamo la capacità di adattamento, impariamo a convivere con il cambiamento e l’incertezza; alimentiamo la conoscenza e, soprattutto, creiamo le opportunità di autoorganizzazione verso la sostenibilità socio-ambientale perché orientiamo, secondo le nostre esigenze, l’inevitabilità dei cambiamenti.”

Da che mondo è mondo, o forse è meglio dire: da che storia è storia, l’uomo ha mutato il mondo, spesso combinando disastri irreparabile. Ora l’umanità necessita di una maggiore consapevolezza delle proprie politiche planetarie, sia a livello locale che globale: per cui è giusto parlare “di ‘glocalismo’, come della necessità di trovare e attuare azioni concrete per mettere in relazione creativa e proficua ambiti locali e ambiti globali.

Un esempio che l’autore riporta e io sintetizzo: alcune specie di foca rischiano l’estinzione; occorre vietarne la caccia. No! Dicono gli Inuit! Occorre cacciarla con la dovuta ragione e consapevolezza, perché essa fa parte della tradizione. È giusto specificare che l’imminente rischio di estinzione non è dovuta agli effetti di quella caccia, ma a ben altri motivi ed è sulla soluzione di questi che occorre operare.

Ridurre la povertà, migliorare la condizione dei lavoratori di tutto il mondo, promuovere l’uguaglianza sociale ed economica (detta anche giustizia), migliorare la qualità della salute, favorire la biodiversità, promuovere l’educazione delle nuove generazioni e sostenere la ricerca scientifica sono i sette punti inderogabili che tu caldeggi. E come si fa a darti torto?

Qui finisce la prima parte del tuo saggio. La seconda inizia col sesto capitolo è Ambiente come qualità della vita. Per rischio ambientale possiamo pensare a tutto ciò che può perturbare i nostri ambiti di pertinenza, modificare o stravolgere gli equilibri, e porre in gioco, come abbiamo visto, una risposta resiliente, individuale, sociale, o naturale, allo scopo di raggiungere una migliore qualità della vita.”

Risulta ovvio che il rischio è spesso un’extrema ratio, di cui si farebbe volentieri a meno, ma non è sinonimo di disgrazia certa. Anche sposarsi e procreare figli è un rischio, per cui a volte ci si chiede se non sarebbe meglio scegliere la via del saṃnyāsa, o del monachesimo: rinchiudersi in un nulla ovattato e trascorrere la parte residua della vita nella meditazione trascendentale.

Ma poi l’amore per i propri figli e l’idea di un eventuale nipotino ti fa scegliere di rimanere, magari allettato anche dall’idea di una buona parmigiana di melanzane o di una fragrante pastiera. L’ho scritto innanzi tutto perché l’ho pensato e perché credo sia giusto ironizzare sui nostri sogni e bisogni, sapendo però scegliere con lucida saggezza fra gli stessi. Si tratta di due esempi di quelle che tu definisci “le abitudini del buon vivere”.

Il settimo capitolo è Energia, un mondo sostenibile e democratico, in cui si afferma “che gli indici di crescita economici dicono che l’asse dello sviluppo si sta spostando a oriente.

Questo è dovuto a tanti motivi, alcuni legittimi e altri no, per cui, caro Vincenzo, mi chiedo che valore abbia la tua richiesta di giustizia sociale quando si è in assenza di una sufficiente copertura assicurativa e previdenziale?

Troppo spesso mi è capitato di vedere immagini di infanti di alcuni dei paesi che citi condannati dalla necessità a un lavoro sicuramente ingiusto e privo di protezioni. Sono consapevole di due cose: che da qui non ci si può fare granché e che molti dei progressi che avvengono in India, Cina, Corea del Sud, Indonesia siano dovuto a una diversa valorizzazione del sacrificio umano, tecnico, scientifico e professionale. Chiedo però a FareAmbiente di promuovere il dibattito internazionale su questi spinosi argomenti.

Uno dei punti salienti del tuo saggio riguarda la questione che “i combustibili fossili non hanno futuro”, per cui “è arrivato il momento di affrancarci dalla dipendenza energetica” – salutando, e anche ringraziando l’energia fossile che tanto ha contribuito al progresso umano, ma facendo una scelta “di libertà, di autodeterminazione e di realizzazione di un futuro diverso, migliore.” Si dovrà scegliere una ‘produzione di prossimità’, in quanto strumento ragionevole per il proseguimento dello sviluppo autosostenibile dei territori e non più mezzo di arricchimento di aziende o multinazionali.” Queste ultime sono i veri antagonisti con cui ci si dovrà confrontare (ho scelto apposta un termine diverso da nemico, pur stringendo le dita).

L’ottavo capitolo è Cibo, alimentazione e territorio. Le nostre identità. “… il cibo non è ‘quella cosa’ che troviamo nei supermercati e nei fast food, ma un tassello imprescindibile della civiltà dello sviluppo sostenibile, e che lo spreco dei cibi è un danno gravissimo perché in esso si combinano danni per l’economia, per l’ambiente e, non ultimo, per la coesione sociale, ossia per la vita delle nostre comunità. Un danno che io chiamo etico.” – anch’io, mio eco-solidale.

L’agricoltura di precisione” è “tecnologicamente avanzata” e in essa “si fa ricorso a macchine operatrici dotate di ‘sistemi intelligenti’ in grado di dosare i sistemi i fattori produttivi (fertilizzanti, antiparassitari eccetera) in relazione alle reali necessità dell’appezzamento e alle diverse zone omogenee interne a esso.”

Alcuni decenni fa un mio parente sperimentò nella campagna reggiana una delle prime stalle computerizzate, ove le mucche giravano libere e con al collo una medaglietta dotata di un chip, per cui, quando si avvicinavano all’erogatrice di fieno, ne ricevano la dose opportuna e nulla più. Questa intelligenza è sicuramente esportabile in ogni ambiente agricolo e non.

Tu sei uomo originario del Cilento e ne sei fiero. Io venni adottato nel 1991 e da allora sono orgoglioso di essere cilintranu.

Lo definisci “paesaggio alimentare e cultura di prossimità”, ove “il patrimonio di biodiversità, paesaggistica, marina, fluviale, faunistica è ragguardevole” in cui si cerca “di far convivere al meglio questa biodiversità in equilibrio e armonia  con l’altrettanto considerevole patrimonio culturale delle popolazioni, una ricchezza costruita dalle tradizioni agroalimentari, dalla presenza di un paesaggio storico-artistico di assoluto valore e da uno stile di vita, appunto la dieta mediterranea, che proprio tra le coste frastagliate del Cilento ha visto la sua culla.”

Porta Rosa - Elea - Photo by Napoli-laRepubblica
Porta Rosa – Elea – Photo by Napoli-laRepubblica

Concordo su tutto e amo quasi più di te, se possibile, la Porta Rosa che da Elea ti fa rimirare il mondo. Lo dissi l’anno scorso alla guida: quando sono a Elea mi sento un Altro!

Anni fa ho collaborato con lo zio di mia moglie, Angelo Marsicano, alla compilazione e realizzazione del primo dizionario pisciottano-italiano. Anche il dialetto fa parte della cultura di prossimità, tanto a Reggio Emilia, dove attualmente vivo gran parte dell’anno, quanto nel Parco del Cilento.

Un detto popolare mi ha però sempre fatto (mal)pensare: megliu nu male maritu che nu male vicinu. Questa diffidenza sociale è la ragione principale per cui in quei lidi non abbondano i consorzi e le cooperative. Ed è un peccato. Sappi che in questi trent’anni ho visto di tutto: alternanze di sindaci (uno dei quali è stato eletto parlamentare, un altro ha subito un procedimento penale), e di condizioni abitative, ma non ho mai visto ricongiungersi i due tronconi di un viadotto che avrebbe dovuto collegare Ascea Marina (dove è l’Elea di Parmenide e Zenone) alle zone più meridionali. Il progetto data dagli anni ‘70 e quell’ultimo pezzo finale non è stato completato perché, si dice, la ditta è fallita e sono finiti soldi!

Tra Ascea alta e Pisciotta c’è la celeberrima frana di Rizzico, due chilometri di luna park geologico, che tanto divertiva mia figlia fino all’età di otto anni, il cui transito è concesso solo alle Forze dell’Ordine, alle Ambulanze e a chi se la sente, a suo rischio e pericolo: se gli succede qualcosa sono cavoli suoi e viene pure multato. Ma ci vuole anche qui saggezza: una volta incrociai una gazzella dei Carabinieri, e non me la sentii di fermarla. L’alternativa, come certamente sai, è partire da Ascea, andare a nord, verso Vallo scalo, proseguire per la superstrada, direzione sud, fino a Poderia, uscire da quel tragitto, scendere a Palinuro e poi scegliere, se andare a nord verso Pisciotta o a sud verso Marina di Camerota. Anziché 15 km se ne fanno oltre 70 e, come dice il solito proverbio arşân, an l ē mia tóta strèda, non è tutta strada, nel senso che si farebbe anche con meno. Questo è il tragico problema di tanto sud: la viabilità. Sulla qualità della politica che ho riscontrato da quelle parti in tre lunghi decenni ne parleremo a voce. Nel frattempo occorre vigilare, controllare, compiere verifiche, eventualmente denunciare errori e omissioni. Non ti voglio però insegnare il mestiere, perché lo sai meglio di me.

Il nono capitolo è Città, attività produttive, mobilità. La Terza rivoluzione industriale. In esso descrivi con acume e ricchezza di dettagli tutto quello che si potrebbe realizzare in settori quali manufatti, città, urbanistica, edilizia sostenibile, acqua, verde, industria da re-inventare, riforme fiscali ispirate a una logica che favorisca l’ecologia.

Ti racconto un episodio, proprio perché proponi di ripristinare la rete tranviaria in città come Roma (e su questo concordo). Sono nella Città Eterna e sono diretto verso quella parte di Trastevere che, notoriamente, è poco servita dalla Metropolitana. Salgo su un tram e mi seggo tranquillo. A un certo punto ho un brusco sobbalzo. Che succede? Ci alziamo tutti, un po’ inquieti, in tempo per scorgere l’autista che, infilatosi il berretto, senza manco voltarsi, poco prima di sparire non manca di avvertire, con flemma tipicamente romana: Secondo me ve conviene a scende pure a voi… Quando lo faccio, mi accorgo che il mezzo è, seppur di poco, deragliato.

Manutenzione, manutenzione, manutenzione. Ecco un mantra che andrebbe ripetuto da mattina a sera.

Le tue sono belle idee, ma richiedono serietà da parte delle istituzioni in campo della sicurezza e della necessaria e una continua e salvifica verifica e ridimensionamento dei rischi. Pensiamo ogni tanto a quel ponte ligure! E preghiamo il primo dio che ci capita (e quello siamo noi).

Altro detto arşân: al dişgrâsi e al savâti în sèinper a bòca avîrta: le disgrazie e le ciabatte sono sempre a bocca aperta e se la ridono di nostri morti.

Una delle regioni che più amo (oltre alle mie Emilia e Campania) è la Sicilia. Da Messina a Trapani ci sono oltre 300 km. Un treno ad alta velocità ci metterebbe meno di due ore. Attualmente, utilizzando non più di cinque treni, si impiegano oltre undici ore.

Il decimo capitolo è La cultura, fonte sostenibile di identità.Arte e cultura fanno bene alla salute.” – il che è vero, dato che quando leggo non bevo alcool, non mi pappo hamburger pesanti, ma nutro la mia mente senza danneggiare il mio corpo.

Fare cultura è soprattutto allargare l’area della coscienza, che ti porta a girare coi mezzi pubblici (meglio) che privati (quando non se ne può fare a meno), oppure gustando un buon libro o, per chi lo fa, seguendo un bel documentario alla televisione.

Vincenzo Pepe
Vincenzo Pepe

“… è il valore identitario di un popolo…” – lo so, Vincenzo, anzi, lu sacciu, come dicono dalle mie parti, quando sono a Pisciotta. Vedi che la scrittura è una gran cosa, ma prima di tutto ci fu la parlatura. Nel dialetto pisciottano alcuni vocaboli si stanno italianizzando o, meglio, napoletanizzando, e non risentono alcune volte della doppia d finale, che caratterizza soprattutto i diminutivi. Essa corrisponde anche alla partenopea doppia l; inoltre il finale dei vocaboli maschili tende a cessare di essere u per diventare o. Per cui: chiddu diventa chillo e castieddu = castiello. La preposizione ‘r (che altrove è ‘re e anche ‘ri) sta diventa ‘e, nel significato di di. Nessun problema, è il destino di tutte le lingue, che periodicamente si de-volgarizzano. Però un po’ dispiace. Si tratta di un fatto inevitabile, ma io ci terrei che di tutto l’antico rimanesse una certa contezza. Questo il motivo per cui sono arşân in Emilia e cilintranu dalle tue parti (anche amalfitano, ma ne parleremo anche di questo a voce), per difendere coi denti quel che sta purtroppo svanendo nelle menti della gente. Occorre prestare la dovuta attenzione anche a queste meno gravi ma non meno urgenti problematiche.

Ti chiedo un’ultima cortesia, tanto ormai ci sei abituato. Ovvio che se passi per Reggio Emilia ti faccio assaggiare i nostri cappelletti in brodo con carne di manzo e di cappone oppure, purché non vi siano puristi presenti, anche mischiati con panna da cucina (un sacrilegio a cui le nuove generazioni si stanno affezionando).

Inoltre ti dono una punta di reggiano-parmeggiano (ho messo per primo il mio aggettivo cittadino, in quanto pare sia nato a Bibbiano, la cosiddetta Culla del Grana. E poi, per par condicio, ti offro un gambuzzo di prosciutto di Parma, che là li stagionano meglio, così dicono almeno. Una bottiglietta di aceto balsamico reggiano e uno modenese ti permetteranno di valutare quale dei due sia il migliore (il nostro pare che abbia una stagionatura più complessa e idonea, ma non voglio influire sul tuo giudizio).

Reggio è una città di origine romana e con varie vestigia medioevali, rinascimentali e barocche. Le due città limitrofe sono giustamente più rinomate e più monumentali. Quel che manca alla mia città è una pinacoteca di un certo livello: ne esistono un paio che non sono male, nulla di eccezionale però (a parte un El Greco e vari dipinti di artisti reggiani dell’800).

Io so che i depositi dei principali musei e gallerie (Uffizi, Musei Capitolini, Museo Archeologico di Napoli, Museo di Capodimonte eccetera) sono intasati da opere egregie che nessuno potrà mai ammirare, se non qualche eminente e fortunato studioso.

Sarebbe bello, oltre che funzionale, che FareAmbiente si facesse promotore dell’iniziativa di distribuire in città minori tutto quel patrimonio inclito, ma celato alla vista e ormai quasi obliato. Non sarebbe una cessione, né un prestito, ma una semplice allocazione momentanea che non lederebbe i diritti di proprietà di nessuno.

Affermo questo in omaggio alla tua bella espressione che riporto, quasi in chiusura di questo mio commento alla tua importante opera: Arte e cultura fanno bene alla salute!

Prima di finire, annoto l’undicesimo capitolo, che è Finale. L’etica dell’ambiente, dove ti richiami alle parole di Papa Francesco, quando dice che “noi siamo la terra”. E narri di quegli arditi astronauti che nel 1969 videro la bellezza di questo nostro e terracqueo pianeta. Sono certo che, nemmeno in quell’istante di grande meraviglia, essi abbiano cessato di sentirsi americani, ma di certo, in primo luogo, avranno avuto la consapevolezza del loro essere uomini tout court, senza alcun dubbio, pregiudizio o remore.

Le “nuove frontiere” non invalidano gli “antichi doveri” e l’appartenenza a questa razza tanto ingegnosa quanto foriera di problematicità.

Quello che ci hanno consegnato i nostri avi è il patrimonio che stiamo donando alle nuove generazioni. La saggezza di oggi ha il cuore antico e nell’Ecclesiaste è scritto che tutto è vanità e che nulla di nuovo è sotto il sole.

Ogni cosa va però protetta, innanzi tutto la memoria. E come dissero i tuoi e i miei virtuali antenati: I ritti antichi nu fallisciunu mai, perché acquisiti e comprovati sperimentalmente dalle generazioni che si sono succedute per oltre due millenni. Mettiamoci tutti quanti al lavoro, nessuno escluso, e ognuno come può!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Vincenzo Pepe, Pensare il futuro, Cairo Editore, 2018

 

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