“Le tre vite di Josef Klein” di Ulla Lenze: sentire su di te il Marchio che ti differenzia
Il perché poi si legge un libro lo scopro ogni volta che lo tengo fra le mani, quando capisco il rapporto che si sta instaurando fra me e lui, fra lui e me, che ogni volta è diverso se visto da un lato o dall’altro, padre-figlio, libro-lettore, amico-amico, poiché ognuno di noi ha la sua visione dell’Altro e del legame passionale che ci lega a lui.

Leggo nella fascetta, ‘sta diabolica e inevitabile spoiler, che il protagonista è “Josef-Joe-José, l’uomo dai 3 nomi – uno per ogni continente in cui ha vissuto – tedesco di nascita e americano di adozione, che infine approderà in Costarica, dove tenterà di rimettere ordine tra i conflitti che gli hanno segnato l’esistenza.”
Le tre vite, dunque.
Anch’io ne ho tre, pur in senso meno tragico. Vivo in una città di media grandezza, con tutti i servizi, a volte quasi troppi, si fa per dire. Talvolta mi reco in un presepio unico al mondo, dove ogni turista si sente come Gesù Bambino nella culla, e ci sono tante capanne, B & B, Hotel quante anime, e dove io sono, quando mi pare, domiciliato e non residente. Analogo discorso per l’ombelico di un Parco Nazionale, dove alloggio in una villetta con vista sul mare, in una contrada lontana due chilometri da un paesino zicu zicu, picciriddo picciriddo, dove c’è di tutto, mare, sole, tramonti, nuvole, olivi, peri, fiche comuni, fiche troiane, con la gocciolina di sangue arintu, ma non quello che ti serve al momento.
Ogni volta che sono in uno di questi ameni luoghi, se il mio pensiero corre (e come potrebbe non farlo?) in uno degli altri due, dentro di me li paragono al gatto di Schrödinger che, come si sa, è vivo e morto al contempo. Finora, ogni volta che giungo sul posto, scopro che per fortuna il micio gode di buona salute, e per un po’ sono inebriato da una tenue emozione, e cerco di non pensare più a quello che ho lasciato, sapendo che è tornato a essere un’ipotesi lontana e imprevedibile.
Josef-Joe-José: ho faticato un po’ a entrare nell’anima di quest’eterno ragazzo non più giovane, ma perché è lui a non scoprirsi troppo, come se avesse pudore a farlo.
A pagina 74, all’esordio del capitolo 9, qualcosa è scattato, ed è una frase che non capisco troppo, ma che mi affascina, detta da Lauren (un bel tipino, anche se sui generis, “peraltro lei non era realmente carina”): “Che bello parlare senza che tutti ci ascoltino...”, che ha il misterioso fascino dell’act gratuite.
Situato alla foce del fiume, “… Ellis Island era diventata un campo d’internamento per nemici”, così si sentiva Josef/Joe.
Quando si è Altrove, quello è il primo sentimento: provare su di sé un Marchio che ti differenzia.
La lettura di Thoreau “bastava per una vita intera” e una sua frase gli aprì la mente, inserendovi un nuovo dato: “Certe volte percepiva la città come alberi e monti, un paesaggio di pietra e di geometria grande abbastanza da poterci scomparire dentro.”
Dice, qualche anno dopo: “Deivu addare da Maikelowski.”: così lo pigliano in giro dei ragazzini. “Josef non sa più parlare bene il tedesco. Non se n’era reso conto.”
Se mi recassi in America e ci stessi per degli anni, tornando in patria di certo potrebbe scapparmi un Dove ho messo il bucco?
Dialogo fra uno yankee e un non so di nome Josef/Joe:
“Lei dev’essere molto fiero del suo paese, Joe. Ha mai pensato di ritornarci?”
“Ma io sono americano.”
Josef/Joe prova a tradurre un libro, ma “c’erano troppe parole che doveva cercare sul dizionario, e certe volte neppure le trovava; Volkszorn, per esempio, il termine che indicava la rabbia del popolo, sembrava esistere solo in tedesco.” È quel Volks che manca, come dire gentefurore, peopleanger.
“In fin dei conti, lui stesso da renano si era trasformato in newyorchese.”
E io, cosa sono? Stefano/Sté/Stè? Non lo so. Nessun mio mutamento mi pare sia da considerarsi definitivo.
Altri si sentiranno per sempre provenienti da quell’unico luogo in cui si sentivano a casa.
Fritz Kuhn: “Non faceva il minimo sforzo per tenere sotto controllo il suo accento tedesco, anzi, sembrava ostentarlo. Yorkville brulicava di gente come lui.”
Sono tornato a casa, al capitolo 9. “Sai, Lauren, in fondo in America bisogna fare come se si fosse sempre vissuti qui. E a me questo piaceva. Ultimamente, però, le cose sono un po’ cambiate.”
Erano passati quindici anni dal suo arrivo. “Aveva creato zero, intrapreso zero. Era stato solo capace di scomparire. Come se quello fosse il suo successo. Ma perlopiù gli andava bene così. Tutta la città era sua.”
Però aveva faticato tanti anni in quella tipografia e non mi pare poco.
I due, Josef/Joe e Lauren hanno un hobby in comune, sono radioamatori.
“Qual è stato il tuo contatto più lontano?”
“Sydney. E il tuo?”
“Haiti. Non molto lontano.”
Per stavolta ha vinto lui.
“Venne fuori che avevano in comune la gioia di cambiare continente con un movimento millimetrico, per poi tornare indietro e sparire di colpo.”

È bello giocare a esistere, senza sforzarsi troppo però.
“Prima o poi però si capisce che un’esistenza semplice è la cosa più difficile. Tutti si aspettano qualcosa da te. Persino se sei un tedesco e non puoi farci niente se lo sei.”
New York è un crogiolo, Harlem è il crogiolo di un crogiolo.
Dove si trova di tutto: “Gli intellettuali neri, come Langston Hughes, il jazz…”
La lingua è il marchio che ti segna di più, nel bene e nel male.
“All’epoca i ristoranti automatici mi sono stati molto utili. Avevo paura a parlare.”
Mia moglie, specie quando siamo al sud e deve tirare un po’ sul prezzo, mi dice che non devo aprir bocca. Il mio accento reggiano influirebbe negativamente sulle trattative.
Josef/Joe (che ancora non conosce José, il terzo sé,) ogni tanto mi stupisce: “Continuava a non avere il numero di telefono di Lauren. Proprio perché lo voleva, non glielo chiese.”
Se son numeri si formeranno.
Josef/Joe vorrebbe avere una Leika, per fotografare. Cosa? “Ancora non lo so.”
Dice Carl, il suo più che quadrato fratello: “Da bambino, Josef scappava spesso…”
Scappare? “Non gli verrebbe in mente un’altra parola…”
Il piccolo Josef si cacciava ogni volta da qualche parte, ma prima o poi “venivo acciuffato da un contadino che mi riportava indietro.”
Carl “finora è sembrato sempre concentrato sul presente, su tutto ciò che vedono, sentono e riescono a capire intorno a sé, come se il resto fosse una zuppa teatrale in grado di soffocare, e forse è proprio così.”
Josef/Joe ama il suo hobby, che è come il nostro social preferito, meno global, solo per specialisti: “Quando trasmetteva un segnale e attendeva che qualcuno rispondesse…”, da Ovunque, “Josef era solo un indicativo di chiamata e una voce, tutti loro erano solo indicativi di chiamata e voci.”, e ognuno standosene a casa sua.
“… reduce da tre settimane di viaggio in nave e il suo paese sembrava scomparire per sempre alle sue spalle. Da quel momento in poi, la voce di Carl e quello della madre avrebbero risuonato solo nella sua testa e nei suoi sogni.”
La voce, ma il resto? “Sentiva ancora la mano della madre sui capelli che gli aveva tagliato il giorno prima. Non si sarebbero mai più visiti, perché chi va in America non torna più.”
Così la mamma l’aveva avvisato.
Sulla nave, Josef che sta diventando Josef/Joe, nota che “gli uomini pisciavano fuoribordo.”
Lo fa ora anche lui, con un gesto catartico: “pisciò con un lieve sospiro di voluttà in quella cosa nera di cui era fatto il mondo.”
Una volta arrivati, quella massa informe di anime viene controllata, ognuna come se fosse un pacco catalogato, approvato, respinto: “… c’erano dei medici che decidevano chi era idoneo a diventare americano.”
Meno male che a un certo punto “sembrava aver superato la prova.”
Primo problema di natura finanziaria: “Cambiò i suoi contanti: il tasso era 4200 miliardi di Reichsmark per un dollaro. Ne ebbe 181.” 760.200 miliardi di Reichsmark migrati Altrove.
Tutti quei profughi (da profugere, quindi fuggitivi), anche Josef/Joe probabilmente, “si mettevano lentamente in piedi, riordinavano le loro cose e si dirigevano verso la scala strascicando i piedi: in ogni movimento una certa vergogna, volevano tutti lasciarsi alle spalle quell’esperienza.”
Emigrare è ogni volta un atto critico, che ti permette di guarire (ma non certo subito), oppure di sprofondare Colà.
“… e si rese conto per la prima volta che quel corpo gli apparteneva, come se fosse la città a dargli forma, a sostenerlo, sebbene gli stesse dando anche gli scossoni.”
La crisi dovrebbe finire da un momento all’altro, in senso positivo, si spera.
“Max era molto alto”, Josef/Joe no, era basso.
Un dialogo fondato sull’incomunicabilità:
“‘Cominciamo?’ chiese Josef.
‘Con calma. Manca ancora mezz’ora all’appuntamento. Mi faresti un caffè?’
‘Con calma’.” Una frase che non dice nessuno che sia davvero calmo.
Nei libri la banalità diventa arguto monito.
Scrivere è salvare, riportandolo alla luce, quel che nella vita si perde ogni giorno, inavvertitamente.
“A quelle donne, Josef offriva un drink; lo sgabello lo faceva sembrare alto come gli altri.” Ma non sarà come gli altri, come si vedrà.
“Bastava poco per mostrare la sua determinazione, la sua resistenza, ma era solo il volo di una mosca contro il vetro di una finestra, uno sforzo inutile. Si sentiva sfinito dopo le camminate, che non avevano altro scopo se non quello di disorientare le persone che lo seguivano.” – un dittero sempre in fuga dallo sciame.
“Josef seguiva la conversazione a stento: Lauren raccontava a velocità folle dei suoi…”
Tutto è relativo, diceva Einstein, specie il tempo, lo spazio, e il loro arcano connubio: la velocità.
Qui viene citato il nome di quel presepe in cui talvolta deposito il mio esistere. Si tratta di un ritrovo per abbienti, non fa né per me, né per i due solidali.
Così mi è venuto di chiamarli, Josef/Joe e Lauren.

Altra conversazione che non sarebbe dispiaciuta a Beckett e a Ionesco, assurdo dialogo fra uno yankeee e un nonso:
“Grazie mille. Dov’era il problema?”
“Non ci sono problemi. È questo il problema.”
“Qualche volta non vi capisco, voi tedeschi.”
“Io non sono tedesco. Ho la cittadinanza americana.”
“Resta sempre un tedesco.”
Anche storici come Senofonte avrebbero serie difficoltà a inquadrare il soggetto.
Un italiano gli chiede di raccontare a sua storia.
Intanto, dell’“acqua scura e piatta sotto di loro.”, scorrendo, inevitabile come il Fato, non li aiuta a comprendersi.
“‘Non la so, la mia storia’ risponde Josef. ‘Ci sono ancora dentro’.”
Questa, faccio un po’ di fatica a capirla: “La lingua si gonfia, gli si stringe la gola; riesce a fare una risatina che non è più forzata come quella di un furfante.”
A me in fondo piace, ‘sto anaffettivo, che prende del cretino prima dal fratello e poi dallo stesso Max, che gli dice: “Sei ancora cretino come l’anno scorso.”
Le due offese originano per delle ragioni diametralmente opposte.
Io non scrivo di libri, ma coi libri e con l’autore degli stessi, che nella fattispecie non è un’Ulla Lenze qualsiasi, quella attuale ad esempio, ma quella Ulla, con quella configurazione di stati, inserita in quello specifico spaziotempo.
Che era, anzi, fu per sempre, a thing of beauty is a joy for ever, capace di scrivere in modo minimalista di fatti generali, e in maniera massimalista di fatti marginali.
“Saldate, saldate, saldate, fa rima con cazzate.”
Non so cosa darei per conoscere il testo originale in tedesco. Un giorno lo scoprirò, Ulla.
Avrei gradito, caro traduttore Fabio Cremonesi, il testo originale in alto e la versione letterale nelle note.
È Josef/Joe una spia nazista? Sì, ma controvoglia.
“Non sono uno di loro. Ho ricevuto pressioni.”
È vero, posso testimoniarlo.
A domanda rispondi. “Ci crede sul serio?”
Al che: “Josef ci ragionò, quello a cui credeva un anno prima non lo sapeva più. Aveva tentato di cavarsela in qualche modo, questo lo ricordava. ‘Non so più a cosa credevo l’anno scorso.’” Nulla di meno improbabile.
“Si congedarono con una stretta di mano, un addetto lo accompagnò all’uscita. Avrebbe preferito che lo avessero portato in cella. Al buio. Nella completa oscurità. Nessun pensiero. Più niente.”
Ripeto: È Josef/Joe una spia nazista? Che domanda idiota!
Il libro balzella fra il 1939 e il 1953: Germania, U.S.A., Argentina e Costa Rica.
Ora estraggo l’algoritmo, che mi ha fornito illo tempore (ah ah!) il fisico britannico Juliana Barbour, la sua allegoria del tempo, ridotto ormai ad un insieme di cartoline stese e appese a un ciappetto: tante configurazioni di stati fisici che formavano una specie di unità. A questo fil di ferro mezzo arrugginito assomiglia il romanzo della Lenze.
“San Josè, Costa Rica, maggio 1953”, “Neuss, giugno 1949”, “New York, febbraio 1939”, “Neuss – Buenos Aires, ottobre 1949”, “palme sontuose orlano il loro giardino”, “tacchi alte, gonne che sventolano spensierate, vitini da vespa”, “…internato! A New York!”, “Cioccolata. Caffè. Aspirina. Strutto. Pepe. Speck. Nastro adesivo.”, “I monti, le strade, i fiumi, i centri abitati. l’azzurro, il verde tiglio, il bianco guscio d’uovo.”, “…tre giorni in prigione.”, “La musica del ventilatore.”, “… imputati nell’aula del tribunale”, “il giudice Mortimer Byers”, “L’Ufficio di Sebold era una trappola: dietro uno specchio c’era l’Fbi…”, “… un disco di Duke Ellington”, “I movimenti rapidi di Edith”, “il pane infilato sotto il mento e il bucato stretto sotto le braccia.”, “… i rumori della giungla: cinguettii, gorgoglii, rondini che garriscono.”, “Il cielo si oscura, gli alberi iniziano a oscillare”, che quello son bravi a fare, specie se tira del vento.
Un ritorno alla realtà quotidiana: “A volte Josef era soltanto questo: un corpo che di notte si premeva contro un altro corpo. Non lo faceva per disperazione, ma perché ormai era il suo unico contatto col mondo.”
Settant’anni dopo sorge dal nulla questo romanzo, da un po’ di energia che si è formata per caso.
“Gracias è una parola che conosce, è capace di dire anche ‘hasta luego’. Ha preferito prendere un dizionario spagnolo-americano piuttosto che uno spagnolo-tedesco.”
Al momento, per via di quel che non può essere evitato, ma soltanto superato col tempo e con la necessaria pazienza, “Lauren non c’è più. Da un’eternità. Ma il dolore è sempre lo stesso. A ogni istante.” – quello che si dice della thing of beauty vale anche per l’ache.
“Nelle scarpe nuove di Josef c’è qualcosa che non va, la pelle si è staccata dalla suola sul davanti.” Lo prendono per un invalido di guerra e gli chiedono. “Dove ha combattuto?”
La verità è più misera. Coi pochi soldi che ha, ha comprato delle scarpacce che col caldo si stanno squagliando.
Qualcuno lo avvisa: “Non si dovrebbe mai risparmiare sulla cosa sbagliata. Le scarpe sono importanti. Altrimenti è difficile fare strada nella vita.”
Come andrà a finire questa storia di Josef/Joe/José?
“Forse Josef rimarrà qui.”
Forse, al momento.
E che il tempo esista o no, il Fato non cesserà mai di pronunciarsi.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Ulla Lenze, Le tre vite di Josef Klein, Marsilio Editori, 2021