Meditazioni Metafisiche #31: divagazioni sulla mente e sui disturbi di personalità
Da quando inizia a pensare l’uomo si pone il problema: Chi sono? Le varie risposte che l’uomo si dà a questa domanda corrispondono in senso lato alla psicologia, cioè a un discorso sulla propria natura interiore. Poi le psicologie accademiche cercano di formalizzare ciò che tutte le persone si pongono come interrogativo fondamentale della propria esistenza.

La psicologia non è matematica. I dati che essa assume dalla osservazione della persona normale, dei malati e i dati provenienti da altre discipline sono integrati in un discorso globale di tipo non oggettivo ma interpretativo. Esistono circa 240 scuole di psicologia e ogni scuola ha una prospettiva differente, ora molto ora poco da quella delle altre scuole, anche se più o meno spesso molti autori di differenti indirizzi dicono le stesse cose ma con altri termini.
Sono molti i motivi di questa situazione. Forse il principale è che la natura della mente è soggettiva. Non esistono parametri matematici che descrivono con precisione il sentire, il pensare e il comportarsi delle persone (fatta eccezione soprattutto per certe leggi della percezione, anche se nella percezione c’è sempre un margine di soggettività). Anche i test psicologici hanno una validità relativa, perché suppongono dei parametri statistici, ma non è detto che tutte le persone rientrino sempre in quei parametri, anche se sono sane. Un singolo parametro, inoltre, ha un margine mettiamo da 0 a 10. Quindi i dati provenienti dalla psicologia non sono verità assolute.
Pure nel caso in cui le varie psicologie forniscono degli ampi insiemi nei quali inquadrare dati modi di fare. Per esempio se Freud postula che alla base dell’inconscio ci sia una pulsione sessuale, questo è un ampio contenitore che non descrive con esattezza il comportamento di ogni singolo individuo, che in realtà esprime la sessualità in modi molto diversi.
I dati che ci provengono dalle neuroscienze sono alquanto approssimativi. Quello che leggiamo sui giornali di divulgazione, per esempio quando il giornalista dice che è stata scoperta l’area cerebrale deputata all’aggressività, non viene condiviso in maniera assoluta primo fra tutti dai neuroscienziati stessi. Le scienze del cervello non hanno ancora dimostrato con precisione se i comportamenti evoluti dell’uomo dipendano da singole aree o dall’attività del cervello nel suo complesso.
Ci sono solo ipotesi: i singoli neuroni? Le sinapsi? Le reti? Le aree? Le regioni? Se è vero che pazienti come HB hanno perso la memoria quando subirono una operazione ad una data area del cervello, è anche vero che la perdita di aree analoghe in altre persone non produce sempre lo stesso danno alla memoria.
Per di più il cervello evolve con il mutare della società per via di una sua caratteristica intrinseca detta plasticità neurale, cioè la formazione di nuove connessioni tra neuroni a seconda dell’ambiente che troviamo. L’effetto Flynn, per cui l’intelligenza psicologicamente testata pare aumentare con il passare degli anni (cioè le nuove generazioni sono più intelligenti), si può spiegare in parte perché il cervello delle nuove generazioni muta al cambiare dei nuovi input che riceve.
A questo punto il concetto di malattia mentale è molto relativo, per alcuni studiosi va addirittura rifiutato. In ogni modo il disagio viene vissuto da persona a persona in maniera molto soggettiva. C’è evidentemente una correlazione tra corpo e mente se gli psicofarmaci funzionano, ma come funzionano esattamente sono solo ipotesi che, come tutte le ipotesi, hanno anche argomenti che sembrano smentirle. Non può esistere una mente senza il corpo che la sorregge.
Ma il concetto di malattia mentale non è equiparabile a quello di malattia organica: quest’ultima suppone un danno evidente ad un organo (nell’infarto del miocardio spesso una necrosi ad un ventricolo), invece la malattia mentale sembra non rientrare esattamente in questo criterio, anche se innumerevoli studi dimostrano certe compromissioni neurali ricorrenti almeno in certi pazienti.
Per molti di essi il danno non sarebbe anatomico (come nell’ictus, in cui un vaso sanguigno del cervello si rompe), ma funzionale, cioè per esempio l’attività metabolica del cervello del depresso è diversa da quella del cervello del sano, espressione di un funzionamento diverso. Ma la questione è ancor più complicata perché altri dati sembrano confermare a volte la natura organica.
Rifacendosi a modelli di riferimento evoluzionistici, spesso si considera il cervello suddiviso in tre livelli evolutivamente progressivi e diversi dal punto di vista di organizzazione neurale:
- Rettiliano: istinti sessuali, predazione, difesa del territorio;
- Sistema limbico: emozioni;
- Corteccia: funzioni superiori come il pensiero.
Nella nostra funzionalità i tre livelli cerebrali lavorano all’unisono. Il sistema rettiliano contiene le informazioni primordiali sul nostro benessere che derivano dal sistema nervoso autonomo diffuso in tutto il corpo. Dal cervello rettiliano arrivano al sistema limbico che colora i dati di emozione. Da questo i dati arrivano alla corteccia dove ne abbiamo consapevolezza.
Pertanto le nostre funzioni più evolute (corteccia) hanno come riferimento ultimo di comprensione le emozioni (limbico) e il corpo nel suo insieme (rettiliano e sistema nervoso autonomo).

Pare che nelle psicosi (schizofrenia, psicosi maniaco-depressiva) vi sia compromissione del sistema limbico (via dopaminergica), invece nelle nevrosi dei lobi frontali. Ma nelle prime il danno organico parrebbe ai più solo ipotizzabile e non dimostrabile (invece sarebbe dimostrabile solo nelle patologie neurologiche come l’ictus), mentre tutte le nevrosi sarebbero semplicemente disturbi della personalità senza compromissione cerebrale primaria, ma solo conseguente al disturbo della mente.
Ma stiamo solo sul terreno delle ipotesi. Dal punto di vista organico, non conosciamo adeguatamente la schizofrenia perché non sappiamo spiegarci l’innalzamento della temperatura corporea, non conosciamo adeguatamente le nevrosi perché non sappiamo spiegarci le conversioni somatiche. Dal punto di vista psicologico, quasi ogni scuola propone proprie spiegazioni dei meccanismi mentali che porterebbero a psicosi e nevrosi. Le uniche cose certe sono che gli psicofarmaci spesso attenuano o eliminano i sintomi e che le psicoterapie sono spesso un grande aiuto.
Il DSM, considerato il manuale delle malattie psichiatriche più importante al mondo, cambia in continuazione le malattie mentali a seconda della più recente letteratura. Nessuno ha trovato la spiegazione valida per tutti riguardo al modo di approcciarsi al mondo di una persona. Vale a dire che nessuno sa perché un individuo vede il mondo nero come Céline nel Viaggio al termine della notte o estatico come D’Annunzio ne La pioggia nel pineto o asettico come Zeno del romanzo di Svevo.
Probabilmente tutti questi atteggiamenti diversi, nella normalità e nella malattia, dipendono dalle esperienze uniche che una persona ha vissuto fino a quel punto. La mente non è un corpo che pompa sangue in maniera matematicamente determinabile né che si ammala come quando c’è una frattura ad un arto. La mente è la sintesi della soggettività delle persone. Anche la malattia mentale va vista come espressione di un vissuto particolare.
Pertanto, se non sappiamo bene cosa succede nel cervello e nella mente di una persona che sente le voci o non muove una mano senza avere una malattia neurologica, la psicoterapia non può essere a sua volta una scienza.
Sul lettino dello psicoanalista questa figura professionale non dà (o non dovrebbe dare) dei parametri del comportamento normale ma degli input che spingono il paziente a prendere consapevolezza della propria soggettività disfunzionale con lo scopo di migliorarla. Il terapeuta è il Buddha, ma quando il Buddha viene trovato poi deve essere abbandonato, perché il paziente deve prendere coscienza delle proprie mancanze e da lì decidere di guarire. In psicoterapia non esiste la formula magica della cura! Anche nelle psicoterapie più direttive, il grosso del lavoro è fatto sempre dal paziente, al quale nessuno può sostituirsi, nemmeno il terapeuta più preparato.
Nelle scienze del cervello e nelle scienze umane non esistono formule magiche e paradigmi che spiegano tuto e risolvono ogni problema. Per questo nelle scienze umane più si resta aperti meno errori si commettono.

I singoli professionisti della salute mentale hanno a che fare con persone e non con organi come il fegato. La persona è un soggetto con una individualità unica. È il soggetto che decide di guarire facendo entrare nel proprio orizzonte percettivo e mentale le indicazioni del terapeuta, che non sono mai ordini ma pretesti per spingere il sofferente a vedersi meglio e quindi a migliorare. Se di fronte ad un evento negativo non possiamo fare nulla, è l’atteggiamento il fattore chiave che spinge il soggetto ad attutire il colpo o a guarire una volta che il colpo è stato sentito.
Secondo un modello teorico che si rifà grossomodo alla teoria polivagale di Porges, la malattia mentale riguarda ambiente, corpo, cervello e mente in questa maniera. Il malessere fisico o il benessere vengono recepiti dal sistema nervoso autonomo e incorporati nel cervello rettiliano, lì passano al limbico che li colora emotivamente (emozione negativa o positiva) e quindi alla coscienza nella corteccia.
Allora in molte malattie mentali non ci sarebbe unicamente un danno locale del cervello, ma una interazione di tutto il corpo e di tutto il cervello che elabora all’unisono una serie di messaggi di malessere. La corteccia mediante la plasticità si modifica sulla base delle esperienze e dei vissuti quotidiani facendo in modo che il malessere sia non più solo una sensazione soggettiva e solo una emozione soggettiva ma diventi un vissuto quotidiano soggettivo. La mente, intesa come entità funzionale disarticolata dal cervello, rifletterebbe tutto questo in una sintesi finale.
Written by Marco Calzoli
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Rubrica Meditazioni Metafisiche